Gianluca Barbera

classe 1965, emiliano, ha collaborato con la redazione reggiana e con quella modenese del Resto del Carlino. Ha pubblicato un libro di racconti (Veleno, Solfanelli, 1994). Attualmente lavora come consulente editoriale di una casa editrice milanese e cura una rubrica sul Caffè Letterario, rivista mensile telematica.

Storia dei Nulla

Enrico arrivò alle prove in moto. Scambiammo due battute, mentre accordavamo gli strumenti, poi attaccammo col nostro cavallo di battaglia, Le cose che non vanno, un pezzo di rock cattivo che si adattava alla sua voce come un guanto.

Dopo aver provato sei, sette brani, mi avvicinai a lui e gli diedi una pacca: "Bravo, ti sei affiatato in fretta."

Sorrise, mostrando denti candidi, stappò una birra, poi si mise a sedere su un amplificatore.

Raccolte le loro cose, Mirco e Walter ci salutarono.

"Ho saputo che studi sociologia", dissi, accendendomi una sigaretta.

"E tu musica al Dams."

"A che punto sei?"

Alzò le spalle.

"Che farai, dopo?"

"Non me ne preoccupo."

"Come ti suona il nome che ci siamo dati?"

"Uno schifo."

"Tu che proponi?"

"Nulla."

"Nulla? Mi piace."

"A me no."

"Che ne dici del nostro repertorio?"

Mi piantò i suoi occhi crudi addosso. "È spazzatura. Non ci porterà lontano."

"Ci vai giù peso."

Si mise a ridere. "Non dirmi che ci hai creduto. Sai, non credendo mai in quello che dico mi meraviglio quando gli altri lo fanno… Ora, sta’ a sentire."

Non scorderò mai, dico mai, la grinta con cui, imbracciò la chitarra, chiuse gli occhi, come se cercasse l’ispirazione, poi, con voce tesa e roca, attaccò quella splendida ballata che sarebbe diventata il nostro primo successo discografico.

 

Eh eh eh eh...

Eh eh eh eh...

Svegliarsi una mattina

e capire l’insensatezza di ogni gesto,

di ogni sforzo.

Avere paura,

paura di agire per gli stessi motivi

o per qualsiasi motivo,

paura di credere agli stessi fantasmi

o a qualsiasi altro fantasma,

paura di lasciarsi trasportare dalle stesse ebbrezze

o da qualsiasi altra ebbrezza;

paura di delirare in comune.

Alzati e combatti,

per la democrazia, la patria, la giustizia,

la morale, la fede, la bellezza,

la pace, la libertà, la dignità,

l’umanità…

E invece no...

Né buono né cattivo, io sono la mia causa…

Né buono né cattivo, io sono la mia causa…

Eh eh eh eh…

Eh eh eh eh...

La vita non ha argomenti,

la morte ne ha fin troppi.

Memoria, saggezza, tolleranza

sono le ultime parole

di una civiltà che muore.

Dài fondo alle tue ossessioni,

yeah...

Alzati e combatti,

per la democrazia, la patria, la giustizia,

la morale, la fede, la bellezza,

la pace, la libertà, la dignità,

l’umanità…

Né buono né cattivo, io sono la mia causa…

Né buono né cattivo, io sono la mia causa…

Né buono né cattivo, io sono la mia causa…

 

"Ehi, ragazzi, vi decidete? Ci sono ventimila pazzi scatenati là fuori che faranno a pezzi ogni cosa se non vi vedranno comparire sul palco nei prossimi cinque minuti!"

"Siamo pronti", dissi.

"Pronti un cazzo!" strillò Enrico. "Fate levare quei maledetti sponsor dal palco o di qui non ci muoviamo."

"Hanno pagato, per dio, come faccio?… Sentite, se mi mandate a monte lo spettacolo vi faro causa spillandovi fino all’ultima lira. Del resto, poche cazzate, il vostro cachet lo avete intascato, e pure salato, perciò non venite a fare i moralisti e a rompermi i coglioni… E ora in pista!"

"Senti, pezzo di idiota, non ti permetto di parlami così", sbraitò Enrico, saltandogli al collo, afferrandolo per la camicia e schiacciandolo contro il muro.

Gli occhi dell’uomo si erano riempiti di terrore. Da un labbro usciva sangue.

"Ehi, Henri, mollalo", gridai. "Senti, amico, noi di quegli sponsor non sapevamo nulla, non ci piace essere presi per i fondelli, devono darci la nostra parte, capito?"

"Stai zitto, decido io la nostra politica", strillò Enrico, livido in volto.

"Okay, ma, per dio, fa’ qualcosa di sensato."

"Vuoi chiudere la bocca!" Strinse le mani intorno al collo dell’uomo. "Senti, brutto stronzo, quanto ti hanno dato? Fa’ attenzione a come rispondi, l’odore del sangue mi inebria."

"Coff… coff… Circa trecento milioni, ma…"

"Miserabile… Vogliamo il cinquanta per cento, non una lira di meno, capito?" Allentò la presa.

"Cristo, mi volete rovinare. Con che credete abbia messo in piedi ‘sto baraccone?"

"Impiccati! Noi ce ne sbattiamo. O scuci o niente concerto. Decidi, conto fino a dieci: uno due…"

L’uomo era paonazzo, grondava di sudore.

"Tre quattro cinque sei sette otto…"

"Okay, pagherò… Ma ora andate, vi prego."

"Ci hai preso per fessi? Con la tua parola ci spazziamo il culo, ci devi mettere tutto per iscritto."

"Ora?"

"Ora!"

"Ecco", dissi, dopo aver frugato nella mia borsa e averne tratto il necessario.

"E ora scrivi."

Quando finalmente salimmo sul palco, fummo accolti da un’ovazione che non dimenticherò, benché ormai dovessi averci fatto il callo.

"Mai visti tanti fessi tutti insieme", mormorò Enrico un attimo prima di attaccare col rap, osservando il pubblico che affollava ogni ordine di posti del palazzetto, compreso il campo di gioco.

 

Ascolta, uomo,

le mie parole feroci.

La storia si riduce

a un problema dinastico

tra usurpatori.

Ogni idea,

trasformata in ideologia,

perde la propria innocenza.

Chi ama un dio

è votato allo spargimento di sangue.

Non vi è uomo

che non sia pronto

a trasformarsi in profeta.

Chi parla a nome degli altri

è un impostore.

Ogni ideale si corrompe

a contatto con la folla.

I perseguitati di oggi

sono i persecutori di domani.

Chi tende una mano al prossimo

non è mai privo di malizia.

Come vampiri,

ci nutriamo di agonie,

generiamo anemie.

Ci comportiamo

in modo ragionevole

solo per disperazione.

Solo le persone serie

commettono crimini:

a quelle fatue

non si può chiedere tanto.

I più efferati crimini

sono sepolti in noi.

Il diavolo siamo noi…

Il diavolo siamo noi…

Le parole ci consumano.

La ragione ci abbandona

alla prima china.

Chi ha paura si sopravvaluta.

Non vi è cosa al mondo

che non sia cominciata male

e finita peggio.

La speranza non è che elemosina.

L’incoscienza di alcuni

trova rimedio

nei sensi di colpa degli altri.

Il diavolo siamo noi…

Il diavolo siamo noi…

 

"Puoi dirci perché hai fatto a pezzi gli striscioni degli sponsor?" chiese una giovane giornalista bionda, ponendo sotto il naso di Enrico un microfono.

"Quei bastardi ci volevano strumentalizzare, volevano sfruttare il nostro talento, noi suoniamo per il pubblico, per la gente che compra i nostri dischi… Non mi pare che loro vengano ai nostri concerti o comprino i nostri dischi… Non vogliamo farci sfruttare, noi non crediamo in quei porci, nelle loro leggi, nelle loro prerogative, nelle regole del loro mercato, noi siamo contro il loro mercato."

"Eppure, coi vostri dischi guadagnate un sacco di soldi…"

"Balle, i discografici ci sfruttano, non raccogliamo che le briciole… Inoltre, elargiamo la maggior parte dei proventi in beneficenza."

"Le vostre canzoni sono un inno al pessimismo, totalmente impregnate di nichilismo, come mai?"

"Forse a causa di un’infanzia difficile… e di un presente peggiore."

"Naturalmente scherzi. Da mesi siete in vetta a tutte le classifiche, avete un sito ufficiale, numerosi fan club e migliaia di iscritti… Che messaggio volete mandargli?"

"Loro rappresentano il nostro carburante, la molla che ci fa funzionare… Ragazzi, incrociate le braccia e non fate più nulla, interrompete la catena produttiva, diventate come noi eroi della pigrizia totale, profeti del suicidio, diffondete il virus, corrodete ogni cosa alla radice, infettatela!"

"Si tratta di provocazioni, in stile col personaggio, o c’è qualcosa di più?"

"No comment."

"Quale sarà la prossima tappa del tour?"

"Beirut. Abbiamo ricevuto un invito ufficiale dal governo libanese. Ma ora basta." Scansò con una mano il microfono. "Spegnilo… Se ti ho concesso l’intervista è solo per il tuo bel faccino… Devo ancora cenare, ti va di farmi compagnia?"

"Henri", dissi trafelato, posandogli una mano sulla spalla. "Qui fuori c’è l’organizzatore inferocito per la storia degli sponsor… Ha chiesto l’intervento della polizia. Che si fa?"

"Ancora quel pezzo di merda? Mandalo al diavolo. Che si fotta. Avrei dovuto spaccargli il muso prima. Ci faccia pure causa, me ne sbatto di lui, degli sponsor, di tutti… Su, bella, andiamo, ho fame." Afferrò la ragazza per un braccio e la trascinò via con sé.

 

"Favolosa questa suite", esclamò la ragazza, sorseggiando una coppa di champagne.

"Non male", disse Enrico, posando il vassoio con gli avanzi del pasto sul comodino.

"Ti fai?" chiese lei, riponendo la coppa e iniziando a spogliarsi.

"Perché vuoi saperlo?"

"Così… Quante donne hai?"

"Una per ogni porto."

"Sai, a volte mi chiedo come ci si senta al pensiero di quelle ragazze siciliane che si sono tagliate le vene nella vasca da bagno ascoltando la vostra musica."

"Continua a chiedertelo."

"Su, vieni a letto."

 

Si accese una sigaretta. "Che ora è?"

"Le tre", rispose lui continuando a fissare il soffitto.

"È stato come mi aspettavo."

"Meglio così."

Gli accarezzò istintivamente i capelli. "Dicono tu sia un tipo pericoloso…"

"Chi lo dice?"

"Il vostro nome viene associato a certi ambienti anarchici… Qualcuno ha cominciare a notare la strana concomitanza tra le tappe dei vostri concerti e taluni attentati terroristici…"

"Che altro sai?" chiese, girando la testa verso di lei.

"Si tratta di informazioni riservate."

"Da chi le hai avute?"

"Sono una brava giornalista."

"Non basta."

"Diciamo che, lo scorso luglio, nell’attentato al tribunale di Bologna è rimasta uccisa una ragazza che mi stava a cuore."

"Non vedo il nesso."

"Se ti dicessi che qualcuno ti ha visto abbandonare una borsa nell’atrio, che c’e un testimone oculare?"

"Perché non è andato alla polizia?"

"Forse per compiere la sua vendetta personale."

"Chi era quella ragazza?"

"Oh, soltanto una praticante legale."

"Cos’era per te, intendo."

"Era mia sorella."

"Sul serio?"

"No, naturalmente scherzavo."

"Hai le sopracciglia scure: ti tingi i capelli?"

"L’ho fatto per te: sapevo che ti piacciono le bionde." Spense la sigaretta, si protese verso di lui, premendo il seno nudo sul suo torace, e lo baciò.

Così immagino sia andata, parola più parola meno.

 

La mattina, dopo aver bussato inutilmente alla sua porta e aver lasciato squillare numerose volte il suo interno, ci facemmo aprire la stanza da un’inserviente. Il suo corpo nudo giaceva tra le lenzuola in un bagno di sangue. Sulla fronte, un foro di rivoltella coi bordi bruciacchiati, segno che gli avevano sparato da distanza ravvicinata. Della ragazza nessuna traccia. Al giornale per il quale aveva detto di lavorare non la conoscevano. Mirco, Walter e io fornimmo alla polizia il suo identikit, poi ci separammo. A quel punto, non era chiaro quale sarebbe stato il futuro del gruppo. Di certo, ce ne saremmo stati ciascuno per conto proprio per un po’ di tempo. Ma in cuor mio sapevo che era finita.

Qualche mese dopo, cominciarono le indagini sul nostro conto.