Michele Marchiani

Sarebbe bello poter trovare in rete tutto gratis, libri da leggere, musica da ascoltare, notiziari credibili da seguire. Non ci resta che sperare che internet porti a questo, sperare e dare il nostro contributo in base al poco che ognuno di noi sa fare

Yucatan...memorie di viaggio

Ci sono di quelle zanzare che si fanno tranquillamente i gargarismi coll’Autan, poi ti sorridono sottintendendo "è tutta questa la tua magia, uomo bianco?". La vacanza procede con allegria. L’unico guaio sta nel fatto che la stagione secca ci sta somministrando più acqua piovana di una stagione umida londinese. Carla ed Io abbiamo risolto di accessoriarci contro il maltempo. Ci siamo procurati due ponchos, stile Emiliano Zapata, di Nylon ritagliati all’occorrenza su mio design. Il tutto è stato ritagliato dalla mano sapiente di un tendero della Quintana Roo. I ponchos sono corredati da una bustina di cellofan per la cabeza.

Come dicevo, il nostro prezioso maggiolone (prezioso per il prezzo, ovviamente) ci ha consentito di raggiungere le mete che non ci siamo concessi sotto forma di escursione organizzata. Per primo abbiamo visitato Tulum. Raggiunte le rovine archeologiche ci siamo infilati in mezzo ad un gruppetto di turisti ed abbiamo approfittato aggratis della guida. A Tulum si doveva stare piuttosto bene all’epoca, prima dell’arrivo degli ispanici. Erano stati infatti banditi i sacrifici umani, alcuni cinghiali ne facevano le spese. Inoltre c’è una spiaggette fantastica, il posto ideale dove smutandarsi e balneare. Tulum mi è piaciuta. Mi è piaciuta più di Coba , che avrei visto pochi giorni dopo, anche per il motivo che due delle due ore ed un quarto trascorse a Coba sono state inondate dal più brutale nubifragio che non abbia mai avuto modo di osservare. Ma torniamo ad una versione dei fatti un attimino più cronologica.

Dopo la visita a Tulum, siamo infilati, in maniera quasi accidentale nella riserva biogenetica di Punta Allen. Io, in qualità di stimato naturalista, posso affermare che si tratta di un’area estremamente interessante. Mostra, il luogo, un’imponente presenza di avvoltoi grandi e grossi come tacchini. E’ possibile osservare un’ampia varietà di specie floristiche, ed anche le specie ornitologiche non scherzano in fatto di biofferenzazione.

Per arrivare a Punta Allen occorre fare una sessantina di chilometri di strada sterrata e mal ridotta. Il maggiolone ha superato la prova di slancio, anche se non era facile. Raggiunto l’insediamento umano abbiamo visto che si trattava di un villaggio di pescatori. Qui abbondano i gringos che non sanno una parola di spagnolo (e tanto meno di lingua Maya) che hanno acquistato delle cabañas con due lire e te le affittano a costi da Grand Hotel.

Vale comunque la pena di trattenersi per la notte. Il posto è favoloso, quasi disabitato e il tempo scorre molto lentamente. Possedere un orologio è inutile, fantastico no? La sera abbiamo mangiato in una sorta di ristorantino improvvisato, più improvvisato che ristorantino. Il nostro oste ha avuto la faccia tosta di affogare una ricca parte della nostra pietanza in un fiume di sanguinescente e stucchevole ketchup. La nostra pietanza era costituita da eccellenti freschissimi crostacei, inutile tentare di quantizzare quanto ho odiato quell’uomo.

La mattina successiva sarebbe stato possibile fare un giretto in barca con tanto di immersioni suggestive. Sarebbe stato possibile, dicevo, in realtà il tempo ha volto al peggio. Io e Carla abbiamo optato per dirigerci verso la civiltà. Così ci siamo diretti a Coba.

Coba è stupenda. E’ immersa in un bosco dal quale, come funghi, spuntano le testimonianze architettoniche Maya. A Coba abbiamo subito un’inesorabile doccia meteorologica che ci ha confinato per la maggior parte del nostro tempo sotto un fottuto chioschetto ai piedi della grande piramide, bagnati e senza sigarette.

Siamo fuggiti precipitosamente, decisamente il luogo si era mostrato di un’inospitalità esagerata.

-Cazzo, consideravamo, dal momento che questa è la stagione secca. Domani non può che essere una giornata stupenda-

La notte la passammo a Playa del Carmen con l’intenzione di imbarcarci per l’isola di Cozumel per il mattino seguente. Playa del Carmen è un posto perfettamente uguale a tutti i posti turistici del mondo, occidentali ed orientali, caraibici o mediterranei. E’ un posto senza niente di interessante da segnalare a parte i prezzi alti. Fatto sta che la mattina successiva al risveglio siamo stati alluvionati di nuovo. Non c’era nessuna possibilità di raggiungere Cozumel in traghetto. Ci siamo incamminati per Playacar (abbreviazione da segnale autostradale) in cerca di una colazione e di un impermeabile che appagasse le nostre necessità. E’ stato in quell’occasione che dalla mia fervida mente è scaturito il progetto del ponchos antialluvionale.

L’umore era un po’ sceso. Non ci aspettavamo che il diluvio, in piena stagione secca, pretendesse di sconvolgere tutti i nostri piani. A quel punto abbiamo deciso di dare una botta rivoluzionaria ai nostri progetti. Abbiamo caricato in maggiolone tutti i nostri possedimenti ed abbiamo fatto rotta verso il Golfo del Messico, dalla parte opposta della penisola, destinazione Progreso. Io avevo sentito parlare del posto in un libro di Cacucci, non da lui in prima persona, bensì da un tale che parlava con lui e che esaltava la bellezza del posto. Così Carla ed io con il maggiolone, che a questo punto si era già trasformato in una specie di box da campeggio, ci siamo messi in viaggio.

Il maggiolone traboccava di oggetti. Convivevano panni bagnati che davano all’ambiente odori non propriamente esotici, valige semisbudellate allo scopo di ripescare qualcosa di utilissimo che, erroneamente, era stato disposto nel fondo del contenitore. I due ponchos sgocciolavano allegramente sul tutto e in qualche anfratto dell’auto doveva pur esserci una bottiglia d’acqua ed un paio di pacchetti di tacos. Last but not least di tanto in tanto, negli angoli strategici facevano capolino pacchetti di Marlboro Lights messicane, abbastanza più cattive, ma assai più economiche delle nostre.

Tagliammo, quel dì, l’estremità settentrionale della penisola da una parte all’altra. Ci concedemmo una sosta a Valladolid. In tutti i paesi ispanici c’è almeno un Valladolid. Abbandonammo l’autopista e raggiungemmo il centro della cittadina. Qui abbiamo scorto due mangiatoie. Una del tipo abbastanza europeggiante, l’altro un po’ più sudiciotto e tipico. Io mi sarei fiondato nel secondo, ma mi trovai costretto a subire la coercizione di Carla. Mangiammo nel posto apparentemente, secondo Carla, migliore. Entrato dentro cominciai ad insospettirmi. Cazzo, non c’era un indigeno; erano tutti fottuti turisti. Deglutisco e penso:

-Ora ci stangano-

Invece dal menù traspaiano prezzi accettabili. Non ci siamo, la fregatura dev’essere nella cucina. Infatti la qualità della pietanza è decisamente bassina. Io, come al solito, ingollo la mia porzione come un pitone. Carla ha dei problemi. Lascia congrua percentuale di cibo nella scodella e non digerisce da manuale. Accusa disturbi di varia natura. Il viaggio prosegue in direzione di Merida e, poi di Progreso, con l’accompagnamento delle sue proteste, sia vocali che gastroduodenali tipo notizie dall’interno.

In serata raggiungiamo Progreso:

-Che razza di scherzo è questo?- Il posto è una città di medie dimensioni tipo porto industriale. Il mare è sconvolto dal maltempo e assume colorazioni marroni a causa del fondale sabbioso. L’unica soddisfazione in questo posto, dal mio punto di vista, consiste nella constatazione di essere, insieme a Carla l’ unico viso pallido reperibile. Occupiamo una stanza da cinquemila lire a notte, abbandoniamo l’auto di fronte al portone dell’albergo in modo che non ci venga sottratta furtivamente. Lascio dieci pesos al guardiano per fargli controllare il mezzo e, lo stesso otto secondi dopo sta già dormendo in un sonno tipo coma irreversibile fino al mattino seguente.

Ci concediamo una passeggiata nella cittadina. Tutto sommato a me piace, è un posto vivo, vivo e nient’affatto artificiale. Brutto, ma simpatico, si direbbe rivolgendosi ad un essere umano. Contratto con un commerciante un superbo paio ci sandali da mare e successivamente c’infiliamo in una locanda per cibarmi. Carla, ancora sensibilizzata dai disagi del pranzo, borbotta. Dopo cena ci attende una passeggiatina d’ordinanza prima di tornare in albergo. Saranno appena le undici e il guardiano dorme imperturbabile. Mi ricorda vagamente Rubio del Parque de las Islas di Tenerife. In camera ci concediamo una ragionevole dose di lussuria e ci corichiamo.

Il mattino seguente scappiamo da Progreso in direzione di Merida, la Parigi del Messico. Il soprannome è tutt’altro che casuale, Merida è estremamente elegante dal punto di vista architettonico. Devo dire che è molto ben organizzata anche per ciò che riguarda la viabilità. Sembra uno schema da battaglia navale, o meglio, da parole crociate con gli orizzontali e i verticali numerati. E’ una città grande e molto viva. Oltre alle bellezze architettoniche che potrete riscontrare osservando qualsivoglia deplianto del sito a Merida sono convogliate tutte le principali produzioni artigianali dell’interno. E’ possibile esplorare botteghine di cooperative di artigiani con prodotti tipici in fibra d’Agave. Gli artigiani sono molto amichevoli anche perché, va detto, sperano che tu compri qualcosa. Mi hanno mostrato le foto dei laboratori all’interno della penisola. Tuttavia si sono ben guardati dal riferirmi come raggiungerli.

Abbiamo, io e Carla, approfittato dell’opera di una peluquera. Il negozietto era gremito di Indios che hanno ritenuto divertente la nostra presenza. Una coppia anziana ha voluto essere ritratta in fotografia. E’ venuta stupendamente espressiva. In verità io avevo estratto la macchina solo per immortalare le operazioni di pota. Ho fatto delle belle foto. Io, ho fatto delle belle foto; Carla le ha sbagliate tutte. A parte questo si era creata una bella confidenza coi presenti. Un tizio addirittura mentre aspettavo le ultime cesoiate alla chioma mi ha offerto un giornaletto porno per ingannare l’attesa. Terminato lo sforbiciamento abbiamo guadagnato l’uscita tra strette di mani e abbracci. Abbiamo raggiunto il nostro grintosissimo coche ed abbiamo abbandonato la Parigi messicana in direzione di Chichen Itza.

Abbiamo raggiunto quella che è la più famosa città dal punto di vista archeologico mezz’ora prima dell’orario di chiusura. Abbiamo risolto si attendere l’indomani per la visita. Il guardiano ci ha segnalato la presenza di strutture alberghiere interne all’area di interesse archeologico. Noi abbiamo cortesemente declinato l’invito per problemi di natura finanziaria. Abbiamo trovato rifugio a Pistè, una località vicinissima. Qui abbiamo trovato una stanzina estremamente economica, ma abbiamo dovuto dividerla con un’imponente popolazione di zanzare, fameliche come iene. Il barattolo di Autan serviva solo per tentare di percuoterle tirandoglielo dietro.

Il paese era piccolissimo e tranquillo. C’erano un totale di quattro gatti. La gente con noi parlava spagnolo, ma tra di loro vociferavano esclusivamente in lingua Maya. Abbiamo cenato decisamente presto. Eravamo stanchi, avevamo girato per tutto il giorno. Io ho scelto dove mangiare perché l’opinione di Carla, dopo l’indicazione del ristorante in Valladolid era delegittimata su questo genere di quesiti. Abbiamo consumato cena e in men che non si dica ci siamo rifugiati nello zanzarificio fino alla mattina seguente.

Il mattino seguente ci siamo svegliati decisamente presto, abbiamo raccolto le nostre cose e abbiamo fatto il nostro glorioso ingresso nel parco archeologico di Chichen Itza. Siamo arrivati nel momento dell’apertura e la città museo era praticamente deserta. Qui sì che scherzavano poco, altro che Tulum; una sconfitta al Juego de la pelota voleva dire sayonara, kaput, rien ne va plus, se acabò, the end come suggeriscono i simpatici reperti che mostrano immagini festose di vincitori che tengono ben alte le teste dei giocatori sconfitti. Teste senza il resto del corpo va detto, io penso che il proverbio "sfortunato al gioco, fortunato in amore" sia arrivato molto dopo.

Abbiamo scalato eroicamente "El Castillo". Abbiamo girovagato come anime erranti. Abbiamo deciso di abbandonare la zona quando i Pulman carichi di altri turisti hanno cominciato ad assediare il luogo, ivi scaricando il loro pericoloso contenuto umano. Una volta a bordo del nostro impagabile (perchè siamo poveri) utensile di locomozione abbiamo fatto rotta su Puerto Juarez al fine di imbarcarci per Islas Mujeres. Prima abbiamo cercato un posticino fuori area per acquistar cartoline a prezzi decenti. In effetti un posto non turistico a buon mercato lo abbiamo trovato. Lì delle cartoline però non c’era neanche l’ombra. C’erano un sacco di iguana in mezzo alla strada, ma non è esattamente la stessa cosa. Abbiamo fatto una ricca colazione ed abbiamo levato le tende.

Abbiamo abbandonato il maggiolone a in un parcheggio a Puerto e ci siamo imbarcati per l’isolotto. La traghettata è stata breve ed abbiamo raggiunto meta prima dello sperato. Abbiamo fatto un giro per l’isola con una barchetta a nolo. Credo che si tratti di un giro abbastanza standard, però è stato ugualmente bello. Ho visto quantitativi di pesci che nemmeno al mercato in Bangkok avevo contato. Ho visto l’equivalente ittico presente nella sommatoria dei sogni dei pescatori dal tempo dell’invenzione del filo di Nylon. Allettati dalla visione. subito dopo ci siamo recati in una baracchetta di pescatori a sbaffarci un bel Barracudozzo, slurp. Il posto era favoloso io e Carla vi abbiamo cercato rifugio per la notte, aimè senza risultato. Le camere economicamente abbordabili dell’isola erano state già assediate, maledizione. A malincuore rieccoci sul traghetto, in direzione di Puerto Jarez per, poi, cercare asilo chissà dove.

E lo abbiamo trovato, l’asilo intendo. Il mattino successivo saremmo andati a Cozumel. Cercavamo rifugio nei pressi del luogo d’imbarco, cioè Playacar, e lì lo abbiamo trovato. Senza troppo gioire abbiamo passato la notte in un hotel estremamente costoso. Annesso all’albergo c’era un bunker antiatomico. Io non l’ho visto, non sò se ci hanno pelato quarantatré fottuti dollari per detta tranquillizzante presenza o se hanno dovuto inventare la panzana del bunker per giustificare la fregatura che ci stavano propinando.

La mattina seguente era una bella giornata, meno male. Ci siamo diretti verso l’imbarco. Abbiamo lasciato la valorosa (per il discorso del valore pecuniario, s’intende) Volk in un parcheggio a pagamento annesso al nostro noleggio di auto. Abbiamo raccolto l’indispensabile ed eccoci finalmente sul molo. Un istante dopo ci troviamo a conferire con un tizio che proponeva di presentarci un progetto di multi-proprietà in costruzione-vendita. Non poteva fregarcene di meno.

-Per voi ci sono in omaggio i biglietti per Cozumel se manifestate interesse al progetto, poi potete anche rifiutare. Nessuno vi sottrarrà il presente...-

La cosa alterava il nostro livello di interesse al progetto multi-proprietario; ebbene sì, improvvisamente eravamo curiosi.

In Taxi ci conducano allo stabile. L’esplorazione dello stesso, con guida, ci costa un’ora e mezzo del nostro prezioso tempo. Si sono susseguite tre guide tra cui una specie di Gabibbo coi postumi di sbornia che si atteggiava molto trend e ci stava profondamente sui coglioni. Egli era una specie di medley di Yuppy incrociato con playboy segaiolo a sua volta inquinato geneticamente da dna di venditore scarso. Egli ci ha fatto due palle così. Per partecipare al giochino io e Carla avevamo finto di essere sposati, di avere entrambi lavoro stabile (al momento ero stabilmente disoccupato, ma mi ero finto promettente ricercatore della mia università). Per un attimo siamo stati sul punto di rivelare la farsa e di darcela a gambe. Poi abbiamo resistito. Alla fine abbiamo dichiarato platealmente che la cosa ci interessava, eh se c’interessava. Per il momento avevamo sputtanato i nostri possedimenti e non potevamo farne di nulla. Ma la cosa era interessante.

La nostra farsa c’è valsa il dono dei due biglietti, in ritardo ci siamo imbarcati per l’isola di Cozumel.

Una volta arrivati abbiamo sputtanato tutto ciò che era stato faticosamente risparmiato con un’escursioncina in barca. In realtà non c’erano molte differenze con l’altra isola e l’idea di pagare per un "quasi" doppione poco entusiasmava la componente parsimoniosa di me stesso. Vabbè, Ugualmente il paesaggio era bello e meritava una scorta, specialmente quello sommerso. Si distingueva dall’altra isola per una maggior ricchezza in coralli. La fauna ittica era invece mediamente più scarsa e diffidente. Beh, Cozumel è un posto che verrò a trovare a bordo della mia Rosticceria, mi proponevo. Il fondale risulta assai suggestivo a profondità maggiori. A quanto ho capito lì vale veramente la pena di immergersi con le bombole.

Il paese è decisamente piacevole. Abbiamo girellato fino a trovare una cameretta a buon mercato, per la notte ed un ristorantino dove fosse possibile mangiare pesce buono, tanto e spendendo poco. Abbiamo pernottato ed il mattino seguente siamo andati al mare allontanandoci dal centro. Abbiamo fatto il bagno di fronte ad una scoglierina. C’è passato vicino un Barracuda lungo come me. Sembrava indeciso, ci temporeggiava intorno, incerto se assaggiarci o no. Alla fine a deciso di no, peccato, sarebbe stata un’esperienza singolare. La spiaggetta era abbastanza deserta. C’erano una famigliola simpatica un tizio con prole ed un nippomaniaco. Io e Carla disponevamo di una sola maschera in due, così s’è mi immergevo io restava fuori lei, e viceversa. Quando è stato il suo turno di fare snorkeling il nipponico si manteneva nei, di lei paraggi. Ad un certo punto Carla lo ha scorto sott’acqua ancorato ad una roccia con una manina mentre con l’altra agitava un minuscolo pene praticamente in apnea. Quando, poco dopo, mi ha riferito l’accaduto ho corso il rischio di pisciarmi addosso dalle risate. Il tizio, si muoveva a piccoli scatti e convulsioncine e mi sono immaginato la scena. Avrei voluto immergermi anch’io, ma dubito che la mia presenza avrebbe potuto invogliare la sua attività onanistica, peccato.

La famigliola era simpatica. Ogni tanto piombavano da noi i pargoletti a chiedere in prestito la maschera. Anche l’altro tizio era socievole e curioso, ma il vero pezzo da novanta della situazione è stato il nippo.

Poco dopo siamo tornati a prendere il traghetto per far ritorno a Playacar. Abbiamo dovuto aspettare. Nel frattempo abbiamo confermato la nostra partenza che, aimè, si avvicinava. Raggiunta l’auto abbiamo fatto finta di avere appena noleggiato il mezzo così che è stato possibile svicolare il pagamento del costo di parcheggio. Una volta on the road ci siamo diretti a Cancun che non avevamo ancora avuto modo di vedere. Non avevamo perso molto, dal poco che ho avuto modo di osservare. A parte la bellezza congenita del luogo, quella che gli indio chiamano "Gringopoli" è un’area profondamente devastata dall’azione umana. Vi sorgono complessi architettonici kitsch e barocchi e arabian e scatoloni pazzeschi di città-vacanze. Il posto era un’isola. Artificialmente e contro voglia, per i capricci del Dio Denaro si è lasciata ancorare alla terra ferma e adesso non è niente più che una sorta di paese dei balocchi. Tanto valeva andare a Collodi. Prima possibile siamo scappati da lì e abbiamo trovato sistemazione per la notte in una stanza di Puerto Juarez.

A Puerto abbiamo trovato un posticino eccellente per nutrirsi. Quando un posto è così pieno di gente indigena e tutti hanno un aria così soddisfatta credo che sia possibile fare a meno della guida Michelin. Siamo andati a letto di buon ora ed il giorno dopo, previa restituzione dell’auto ci siamo imbarcati, maledizione, sull’aereo.