Alberto Ghiraldo

ho 21 anni. studio storia e conservazione allo IUAV a venezia. tra un esame e l'altro scrivo racconti per ora pubblicati su Addictions, il foglio letterario e il foglio clandestino.

Passa Paperino

Tempo di affrontare tutta la paura
Tempo di giocare, tempo di avventura
(Estra – Perché?!)

Luglio. Ancora e sempre e solo luglio. Luglio. L’afa di luglio. E il sole, il solleone torrido delle due di pomeriggio di giovedì 12 luglio 1972.

Luglio. Ginocchia sbucciate. Sudati, tutti. Sudati e buttati a terra nel marciapiedi in ombra.

Mani appiccicate che non si asciugano nemmeno sulla canottiera rossa col numero uno davanti.

Luglio. Estate. Scuola finita da un mese. Tutti qui. Insieme. Carlo, il figlio del bidello con la gamba di legno, Luca, mio cugino di terzo grado, Giulia, la figlia della lattaia, Samuele, che si è trasferito a Casalserugo da poco ed io. I magnifici cinque. Inseparabili. Ore e ore a giocare a calcio nel parcheggio del quartiere di via S. Antonio. Domeniche intere a scorrazzare in bici per gli argini del Bacchiglione. Pomeriggi eterni a fare i compiti per il giorno dopo.

E adesso tutti qui.

Stanchi.

Sudati.

Vecchi di tutti i nostri dieci anni.

Tutti qui.

Seduti sul ciglio di porfido bollente di questo marciapiede miracolosamente in ombra.

Sgomentati all’idea di ritornare ancora una volta nel campo del signor Bottin. Quello vicino alla vecchia casa colonica.

Bloccati da 30 gradi all’ombra e da un’afa insopportabile che ci incollava a terra. Che ci schiacciava inermi.

Non fiatava più nessuno anche se era già passata un’ora da quando eravamo lì, quasi volessimo far tesoro di tutto il fiato recuperato dopo quella interminabile corsa.

Il primo a rompere il silenzio fu Samuele:

"e adesso che si fa? Secondo voi lo dobbiamo dire ai grandi?"

"già i grandi" stavolta era Giulia, con una voce irriconoscibile "che capirebbero mai loro? Ci diranno che siamo matti, che ci inventiamo le cose"

Poi più niente. Tutti in silenzio. Un silenzio nuovo però. Un silenzio che si dava da fare, che cercava una soluzione.

Mi feci avanti io, con tutto il mio coraggio ritrovato: "secondo me dobbiamo ritornare lì. Dobbiamo prenderlo prima che qualcuno lo nasconda per sempre e portarlo in un posto sicuro, che conosciamo solo noi. Poi lo andiamo a dire ai grandi, e se non ci credono li portiamo a vedere coi loro occhi"

"tu sei matto Alberto! Io là non ci torno manco a morire!"

"e allora che pensi di fare? Dimmela tu una soluzione migliore!"

"Samuele ha ragione, non possiamo ritornare fino al campo, è troppo pericoloso, dobbiamo studiare qualcos’altro"

Carlo e tutta la sua saggezza.

La mente della banda.

Il secchione della classe.

Il più prudente.

Il più buono.

Il più bello.

Il più bravo a pallone.

Il fidanzato di Giulia.

"va bene avete ragione voi. È troppo pericoloso, ma allora che si fa? Non possiamo lasciarlo là così!"

Luca intanto non parlava più, lo sguardo perso nel vuoto. Sembrava quasi più alto, invecchiato, con lo stesso sguardo perso di suo padre.

"ho un’idea, sentite bene: tre di noi vanno a dirlo ai grandi, magari alla mamma di Giulia che è quella che si arrabbia di meno e al signor Bottin, che il campo è suo. Gli altri invece ritornano lì. Nel campo. A fare la guardia aspettando che arrivino i grandi. Cosa dite?"

"si, questa è già una soluzione migliore, ma come ci dividiamo?"

"io direi che si fa la conta per vedere chi ritorna al campo, tranne Giulia che deve andarlo a dire a sua mamma"

L’idea della conta mi faceva tremare le gambe, anche se non lo davo a vedere il pensiero di ritornare al campo mi faceva morire. Se solo avessi potuto rimangiarmi quello che avevo detto prima lo avrei fatto senza nessuna esitazione. La sola speranza che avevo era di non venir fuori, ma io e la fortuna abbiamo sempre avuto un pessimo rapporto.

"la conta la fa Luca che non ha mai aperto bocca"

"io?"

"si si, dai falla"

"va bene. Faccio Passa Paperino. Chi viene fuori va al campo. Passa Paperino con la pipa in bocca guai a chi la tocca tocca proprio a te uno-due-e-tre! Carlo."

"ok. Rifalla di nuovo"

"passa Paperino con la pipa in bocca guai a chi la tocca tocca proprio a te uno-due-e-tre! Alberto."

"merda!"

"va bene. Finché io e Alberto ritorniamo là Giulia va da sua mamma mentre tu e Samuele andate in cerca del signor Bottin. Mi raccomando fate in fretta, che prima arrivate prima finisce questa storia"

"andiamo Alberto"

"si si, andiamo…"

Ancora quella strada. Solo al contrario. A piedi perché le bici le avevamo lasciate a casa di Samuele che erano quasi tutte fresche di promozione e non volevamo che ce le rubassero finché erano nuove.

Carlo camminava svelto, sicuro come se stesse andando a messa. Io non sapevo cosa dire, ero sicuro che se avessi parlato mi si sarebbe bloccata la voce e avrei cominciato a balbettare. Il mio coraggio funzionava solo se eravamo tutti insieme o quantomeno più di due. Carlo sembrava pensare ad altro, chissà forse a Giulia. Non parevano neanche fidanzati, ma la cosa era sicura perché il giorno prima di finire la scuola si sono scambiati dei bigliettini con fare misterioso e poi all’intervallo Carlo ha regalato la sua merenda a Giulia.

A me Giulia è sempre piaciuta, ma non ho mai avuto il coraggio di dirglielo. Ho sempre avuto paura che si mettesse a ridere e che lo dicesse a tutti gli altri che così mi avrebbero preso in giro per sempre. E poi non avevo speranze. Carlo era più alto, era sempre vestito alla moda, non c’era una cosa che non sapesse fare e soprattutto sapeva imitare benissimo le voci degli attori del cinema facendo sempre ridere tutti.

La strada per il campo, dopo via Ca’ Ferri, diventava una specie di sentiero di terra battuta. A destra campi di grano, a sinistra un piccolo fossato e poi ancora campi. Era così fino a sbucare nella proprietà dei Berti, una famiglia di contadini che vendeva vino abusivamente a tutte le osterie del paese e della zona. Passata la casa dei Berti si prendeva una carreggiata che portava dritta dritta al campo del signor Bottin.

Quell’estate era incolto. Niente grano. Solo erbacce che avevano bucato la terra secca e piena di crepi. Ci piaceva quel campo perché immaginavamo che fosse il territorio di Marte. Passavamo interi pomeriggi a giocare agli alieni, a fantasticare su invasioni di extraterrestri e battaglie stellari.

Ora invece il campo pareva stregato. I nostri incubi più nascosti avevano preso forma. Non c’erano più orchi nell’armadio e uomini neri sotto il letto. Erano tutti là ora. Tutti nel campo del signor Bottin.

E la nostra era diventata una specie di guerra. Una missione. Dovevamo scacciarli tutti quegli orchi. Dovevamo eliminarli se erano capaci di fare cose come quella. Se erano capaci di ridurre così un bambino. Un bambino della nostra età.

Il primo a vederlo era stato Luca. Sembrava un fagotto. Buttato lì pancia a terra in mezzo alle sterpaglie. Pareva uno spaventapasseri caduto per il troppo vento. Luca si era avvicinato per vedere meglio convinto fosse un fantoccio pieno di paglia con dei vestiti da bambino. Appena gli si inginocchiò vicino urlò a pieni polmoni rimanendo immobile. Paralizzato. Bloccato.

Tutti gli altri si avvicinarono, solo io rimasi un po’ disparte, forse perché intuivo che c’era qualcosa di sbagliato in tutto questo. Chiamiamolo pure sesto senso. Subito alla paralisi iniziale incominciò un fuggifuggi generale. Mi investirono dalla fretta di scappare. Solo allora lo vidi chiaramente. Era un bambino.

Un bambino più o meno vecchio come noi.

Con la faccia piantata a terra come se la stesse divorando vinto dalla fame.

Con la faccia piantata a terra ricoperta da un sudicio cappelletto di paglia.

Da un sudicio cappelletto di paglia imbrattato di grigio.

Di una sostanza grigiastra e lucida che pareva colla di pesce.

Le braccia lunghe.

Distese come in croce.

I piedi spuntavano da un paio di pantaloni troppo lunghi per la stagione.

Senza una scarpa.

Vidi tutto questo in un attimo. Appena il tempo di rendermi conto che quello che avevo intuito era vero. Che quello che non volevo pensare era veramente successo. Che in quel campo buttato per terra col viso nella terra bruciata dal sole c’era un bambino. Un bambino morto ammazzato.

Solo il tempo di capire tutto questo. Solo un attimo. Un istante soltanto e poi via. Via più veloce di tutti. Via a scappare con gli altri. A ritornare indietro. Via sperando che quando ci saremmo fermati fosse tutto finito. Sperando che fosse tutto un incubo. Solo un brutto sogno.

Invece no. Niente di più vero. Di più reale.

E ora eravamo lì di nuovo.

Io e Carlo.

Lo vedevamo ancora.

Lì.

Disteso.

Il cuore batteva a mille. Sudore. Gocce di sudore grandi come pioggia ci scendevano dalla testa. Giù per il collo. Lungo le tempie. Ad appiccicare la canottiera alla schiena. Eravamo di nuovo lì. Nel campo del signor Bottin. A pochi passi dal bambino.

"e adesso che si fa?" domandai a Carlo con una voce che mi pareva venisse da chilometri e chilometri di distanza

"dovremmo avvicinarci. Sederci lì vicino"

"fare che cosa?"

"sederci lì a fare la guardia"

"ma sei matto? Quello è morto stecchito. Io non mi siedo vicino a un morto!"

"e allora cosa vuoi fare? Tornare indietro?"

Eccolo: Carlo il coraggioso, Carlo cuor di leone di fronte ad Alberto il cacasotto. Non potevo essere da meno. Giulia cosa avrebbe detto poi?

"va bene, però io non lo tocco"

Ci avvicinammo lentamente. Ogni passo pareva durare ore intere. Facevamo piano. Silenziosi come se il più piccolo rumore potesse svegliarlo. Carlo portò lì vicino un grosso sasso e vi sedette sopra. Io mi misi un po’ più in là, direttamente sulla terra bollente cercando di non guardare il corpo di quel poveretto. Cercando il più possibile di dargli le spalle anche se mia mamma mi aveva insegnato che dare le spalle alla gente era da maleducati.

Eravamo di nuovo immobili. Non parlavamo. Ognuno intento a pensare a qualcosa di incredibilmente meraviglioso per dimenticarci quello che stavamo facendo.

Non so a cosa pensasse Carlo in quei momenti. Io mi immaginavo più grande, a vent’anni. Fidanzato con Giulia. Mano nella mano con lei mangiando un ghiacciolo al limone in mezzo ad un prato bellissimo pieno di fiori. Mi immaginavo i denti che mordevano il ghiacciolo fino allo stecco di legno. Il profumo dello shampoo alla camomilla di Giulia. Le sue dita intrecciate alle mie. E poi mi immaginavo di baciarla. Con un bacio da grandi. Un bacio di quelli veri con la lingua. Come quelli che si vedono nei film di innamorati. E il cuore mi batteva forte. Più forte di prima. Non mi importava più niente del bambino, poteva anche svegliarsi di colpo come uno zombie ed andarsene di corsa. Non me ne sarei accorto minimamente.

Ad un certo punto, quando ormai la mia immaginazione si faceva sempre più viva Carlo mi strattona per un braccio

"sono già passate due ore da quando ci siamo divisi dagli altri e ancora non arriva nessuno"

"forse non hanno trovato la mamma di Giulia e stanno cercando qualcun altro"

"non credo, la mamma di Giulia è sempre a casa e poi c’è pure il signor Bottin"

"forse non gli credono. Penseranno che ci siamo inventati tutto"

"già, lo sapevo io! Bisogna fare qualcosa, non possiamo stare qui in eterno"

"proviamo ad andare noi a cercare qualcuno"

"si e qui chi ci sta? Magari arriva qualcuno e porta via il morto!"

Un po’ alla volta non era più il bambino. Non era neppure il bambino morto. Ora era diventato soltanto il morto. Non vedevamo più il bambino di prima con la testa fracassata coperta da un cappello di paglia. Vedevamo solo il morto. Poteva essere qualsiasi cosa: un uomo, una donna, un animale… per noi sarebbe stato soltanto il morto.

"cosa vuoi fare allora? Portarlo via?"

"si"

"cosa? Sei diventato tutto scemo? Io ti ho già detto che quello non lo tocco"

"non ho mica detto che dobbiamo portarcelo via in braccio"

Tutto d’un colpo Carlo era diventato freddo. Cinico. Stava calcolando mentalmente il modo per portare via quel corpo con una calma strabiliante.

"e come vuoi fare per portarlo via? Bisognerà pure prenderlo su in qualche modo"

"lo trasciniamo"

"che? Trascinarlo? Significa prenderlo per le braccia o le gambe e tirarselo dietro, ti rendi conto cosa vuol dire?"

"scemo, mica voglio tirarlo per terra fino a casa. Dobbiamo trovare qualcosa tipo un lenzuolo, metterlo sopra e poi tirarlo"

"si e il lenzuolo dove lo troviamo?"

"alla base interstellare"

La base interstellare era dall’altra parte del campo. Era una baracca fatta di assi di recupero inchiodate su quattro pali che usavano i cacciatori in autunno. Noi quando giocavamo agli alieni nel campo del signor Bottin facevamo finta che fosse una stazione della polizia planetaria, la base interstellare appunto.

Questa baracca dentro era piena di sacchi di juta e bottiglie di birra. Da quando i cacciatori avevano smesso di usarla dentro c’era finito anche un materasso portato da chissà chi.

"lì non ci sono lenzuola, ma possiamo prendere dei sacchi di juta e aprirli"

Detto questo Carlo si avvio verso la base.

Ero rimasto solo. Io e il morto. Ora che non pensavo più a Giulia avevo di nuovo paura. Era pieno di mosche lì. Mi ronzavano intorno fastidiosamente per poi posarsi sul bambino. Al solo pensiero che quelle mosche si posavano indifferentemente su me o su quel corpo senza vita mi veniva un forte senso di nausea che mandavo giù a stento.

Dopo qualche minuto Carlo era di ritorno con in mano un sacco di Juta.

"ho trovato solo questo. Se lo apriamo non basta per trasportarci sopra il morto"

"allora ce lo mettiamo dentro e poi tiriamo"

"già buona idea"

La cosa più schifosa è stata quella di sollevargli un attimo la testa per infilarci il sacco. Mi ricorderò per sempre quegli occhi senza espressione fissi nel vuoto. Quella bocca sporca di terra e il viso pieno di graffi e chiazze bluastre. Tenendo a freno lo schifo lo infilammo dentro al sacco, solo i piedi spuntavano fuori un po’. Dentro era come piegato su sé stesso.

Io e Carlo prendemmo ciascuno un lembo del sacco e incominciammo a tirarlo.

Pareva di essere Babbo Natale col suo aiutante. Peccato che non avevamo la slitta, avremmo fatto di sicuro meno fatica.

"e ora dove lo portiamo?"

"non so. Bisognerebbe portarlo alla caserma dei carabinieri"

"si, gli diciamo che era qui nel campo e siccome nessuno ci credeva abbiamo deciso di portarglielo"

"già così poi diventiamo famosi e ci fanno parlare coi giornalisti per raccontare come sono andate le cose"

"mi vedo la faccia degli altri… chissà cosa diranno!"

Era di nuovo un gioco. Un gioco come tanti altri. Avevamo finito la nostra parentesi di maturità. Eravamo di nuovo quei bambini che giocavano agli alieni o che leggevano i fumetti del Corrierino. Quei bambini che passavano ore a tirare calci ad un pallone facendo finta di essere ai mondiali di portare la maglia dell’Italia. Di nuovo bambini.

Dimenticando che nel sacco avevamo un bambino come noi. Non pensando neppure per un istante che in quel sacco avremmo potuto esserci tranquillamente noi al posto di quel bambino.

Ignari di essere stati più fortunati di lui.

Più fortunati di lui che la sera prima eravamo già a casa alle otto per la cena. Che non ci trovavamo da soli come Giacomo Calore nel campetto di via Roma a fare trenta palleggi di seguito su un piede solo.

Che non siamo saliti in macchina con un signore mai visto prima che a Giacomo aveva detto di essere l’allenatore della Juventus.

Che non siamo finiti a pancia in giù in un campo come Giacomo quando ha scoperto che quel signore non era un vero allenatore.

La caserma dei carabinieri era proprio nella piazza. Davanti alla chiesa. Ormai la vedevamo già. Eravamo vicini. Per strada non c’era nessuno. Solo nella strada principale passava qualche macchina che non si accorgeva nemmeno di noi. Chissà dov’erano Luca, Samuele e Giulia. Chissà se a loro avevano creduto. Chissà a noi cosa diranno.

Arrivati davanti al cancello verde della caserma Carlo si asciugò le mani sudaticce sulla maglietta, poi, come se fosse al portone di casa sua, suonò il campanello.