Nino Corrado

giovane impegnato nel mondo dell'associazionismo e del volontariato politico e civile.
La scrittura è la possibilità di ricercare e raccontare pensieri,passione e persone,siano esse protagonisti o comparse di quel gioco che gli uomini chiamano vita.

MARINA

Atto I

La terrazza della mansarda si allungava sul golfo di Napoli , una terra di venti e colori in lotta con il tempo, un terra che avanza con passo lento , si ferma, riflette, torna indietro per poi correre nel tentativo estremo di recuperare i ritardi, le occasioni perdute.

E intanto il mare respira e osserva questo disordine capace di essere regola di vita; immagini vere e belle e seducenti mi portavano a dimenticare chi ero stato, chi ero, chi avrei voluto essere.

A volte ero invaso da ricordi della mia infanzia, altre pensavo a ciò che avevo fatto il giorno prima, le cose dette, le pose assunte, le mani strette, pensavo anche al domani ma ero lo spettatore attento di una vita che non riconoscevo come mia .

Una sorta di incapacità profonda di identificarmi con il mio vissuto e con i miei sogni; sulla terrazza morivo per rinascere come luce di tramonto, come mare visto dall’alto, come vento sicuro e dolce.

Ero una piccola porzione di quel paesaggio e volevo solamente vivere.

Da pochi mesi abitavo nel cuore malato di una città del sud, un cuore sporco e stanco con i vicoli segnati dal tempo ed i palazzi graffiati dall’incuria.

In quelle vene non scorreva il sangue della modernità, una tradizione in decomposizione marciva lentamente, eppure una cattiva magia stregava quei luoghi rendendoli irreali: un labirinto onirico dove cercava una via d’uscita la cattiva coscienza dell’uomo, una via di scampo tra palazzi caduti e cumuli di rifiuti, una via di scampo tra bambini dal carattere felino e gatti che mimano bambini, tra mamme con le braccia nude appesantite dalle borse della spesa, una via di scampo tra odori antichi come quelli del ragù e della morte.

Tre piazze erano le porte d’accesso per il labirinto delle cattive coscienze: piazza Orologio, piazza Municipio, piazza Fontana Grande.

Avevo scelto la prima per entrare nell’inferno, forse perché lì c’era il vecchio porto ed un bar, pescatori con le facce segnate dal sale , tavoli di legno di forme diverse, un bancone realizzato con il relitto di una barca , alle pareti come parati le reti utilizzate anni prima per la pesca, e poi c’era una donna.

I suoi occhi erano neri e curiosi e spietati , in lei avevo visto l’icona del meridione: la rassegnazione in lotta con la voglia di vivere, il sorriso venato dalla malinconia, la pelle profumata e dura, in quel bar c’era una chiave ed io decisi di prenderla.

Capivo di essere straniero e questa consapevolezza aumentava man mano che salivo per le viuzze, gli sguardi senza volto gridavano la mia origine, i miei privilegi, la mia diversità.

Con il passare dei giorni l’ingresso divenne normale, già tutti sapevano tutto di me: il nome, la mia età, cosa facevo nella vita.

Avevano capito che non ero pericoloso, potevo scivolare tra la gente e mi sentivo meno straniero anche se sapevo che la strada da percorrere era ancora lunga, con tante curve e non sempre illuminata.

Quando ero piccolo avevo deciso che da grande sarei stato un grande pittore, mi piacevano i colori, i pennelli, l’odore pungente delle vernici, mi piaceva il mondo ed i suoi abitanti e pensavo che sarebbe stato bello dipingere la vita.

Non sono un pittore ma dipingo la vita con le mie fotografie, sono un fotografo e ho fatto un compromesso alto con il mio sogno e qualche volta sono felice.

Non so perché e quando presi la decisione di vivere in questo luogo sospeso nel tempo e quindi a-temporale , forse volevo incontrare un’umanità non macinata dagli stereotipi della modernità, forse la decisione la prese l’obiettivo della mia yashica stanca di morire nelle miserie umane sepolte sotto tonnellate di sorrisi insensati.

Per mesi non scattai una foto, mi dedicai alla mia casa, alla mansarda ;iniziai a bagnare le pareti con colori forti: l’azzurro, il rosa, il verde, il giallo, ogni angolo aveva un suo vestito e così una ad una le immagini fermate anni prima sulla carta si riversarono sulle pareti e la mansarda prese a respirare prima lentamente e poi sempre con più forza e calore, il legno dei mobili si impossessò del pavimento e la luce delle candele avvolta dal fumo dell’incenso diede voce alla mia creatura.

Non ero più solo, avevo una compagna pronta ad abbracciarmi e a condividere il viaggio in quell’inferno stregato.

Lentamente assistevo alla mia trasformazione, la scelta di osservare l’altro mondo attraverso la lente di un obiettivo esperto si rivelava debole, sentivo crescere un irrefrenabile senso di coinvolgimento; la mattina iniziai a guardare il mare diritto negli occhi e poi giù per scaloni di strade profumate e interminabili, la musica gocciolava dalle lenzuola bianche affacciate ai balconi, riuscivo a capire la loro lingua fatta di suoni e gestualità teatrale ed estrema.

La cattiva magia di quei luoghi mi aveva stregato e mi innamorai di quel degrado che come cenere nascondeva lava vulcanica capace di eccitare il corpo ed il cuore.

Finalmente ero pronto a dipingere con una pellicola in bianco e nero le mie emozioni.

Passavo intere giornate a rubare volti, luoghi, odori, tutti prigionieri rinchiusi nella camera oscura della mansarda guardata a vista dal mare; poi una notte accadde qualcosa di stupefacente e il corso della mia vita cambiò senza che io potessi opporre resistenza.

Era una notte fredda di venti in lotta tra loro, avevo da poco lasciato il bar del porto e salivo pesante verso casa quando sentii una voce profonda, vagamente umana, mi girai e vidi solo un vecchio specchio di legno, circondato da rifiuti; il vetro era spezzato a metà, mi avvicinai di istinto e lì la mia immagine riflessa iniziò a sbiadire e a deformarsi, una lama di coltello sprofondò nel cuore e una mano fredda mi accarezzò i capelli e la paura.

"Devi morire per rinascere" furono le ultime parole che sentii nella mia prima vita. Avevo 27 anni.

 

Atto II

Nel 1980 in via Cognulo alle fratte nel centro antico della città di Stabia nacque una bambina, le fu dato il nome di Marina; in quell’anno, non ricordo se prima o dopo la sua nascita, ci fu un violentissimo terremoto che portò morte e distruzione in tutta la zona, colpendo soprattutto i palazzi più vecchi e logorati dal tempo.

La casa di Marina in seguito al sisma riportò numerose lesioni alle pareti, ma la sua famiglia non lasciò l’abitazione, era tutto quello che aveva ed è in quella casa che Marina iniziò a camminare.

Cinque fratelli, tre stanze, un bagno; era un ambiente normale, una famiglia normale per quei luoghi.

Eppure quella figlia del centro antico riusciva ad attirare l'attenzione dei vicini, dei perenti, era bellissima e vivace.

Sin da piccola esercitò un fascino inspiegabile, sembrava vivesse di luce, gli occhi illuminavano il viso suo e quello delle persone che la tenevano in braccio, occhi verdi pronti a mischiarsi con il grigio in un gioco di luci che diventava un urlo di vita.

Marina fu molestata dal padre per la prima volta quando aveva 13 anni.

Aveva un corpo che nascondeva una donna, un corpo giovane e profumato.

Le mani le accarezzarono i capelli e poi scivolarono sulla schiena per stringersi sui fianchi appena nati.

Marina non disse una parola, era consapevole dell’affetto assassino del padre e non si oppose, gridò il suo silenzio al cuore e divenne donna.

La tortura durò per tre anni, ogni sera apriva le gambe per soddisfare il desiderio degli uomini; all’inizio i volti erano diversi l’uno dall’altro poi lei iniziò a vedere solo gli occhi della prima volta, quelli del padre.

Alfredo Esposito divenne tutti gli uomini cattivi che uccisero la figlia del centro antico, la bambina del terremoto.

Marina si separava dal suo corpo, fuggiva lontano con la mente, un giorno tutto sarebbe finito e lei si sarebbe unita a se stessa, un giorno gli occhi si sarebbero tuffati nel presente.

La mattina era il momento più bello della giornata, c’era da fare la spesa, ricevute le istruzioni dalla madre, usciva felice e si fermava a giocare con i bambini.

Non rideva ma si sentiva meno sporca, stava lì ferma e ricordava i giochi con i fratelli, con il più piccolo.

Salvatore amava la sorellina, avevano quattro anni di differenza, lui era più grande e quegli occhi preziosi erano il suo tesoro, lui li avrebbe difesi da tutto il male che cresceva nella loro casa.

Ma il destino di Marina era scritto e il destino non si cambia.

"lo deve fare per la famiglia" ripeteva il padre e ancora :" lo deve fare per la famiglia, sono tutte persone amiche di papà, le donne aprono le gambe, la mamma apre le gambe e Marina ormai è una donna e le donne sono degli uomini."

La mamma prepara il ragù, quattro lunghe ore di cottura e il profumo del sesso rubato si mischia al sapore della domenica, era tutto così normale, le cose normali sono le cose accettate.

Salvatore ogni giorno moriva, il suo sangue sposava l’oblio in un cilindro di plastica, il viaggio verso l’assenza di turbamenti durava giorni e ogni volta era più lungo; mentre per il ritorno la strada era breve, bastava aprire gli occhi.

Ma una notte Salvatore si allontanò troppo e non riuscii più a tornare a casa, lo trovarono dopo due giorni, i topi avevano leccato le ferite, il livido del laccio era una collana di corallo e sul corpo c’erano le tappe del suo pellegrinaggio.

Era un bambino e non accettava la normalità di quei luoghi, pagò il conto ed uscì dalla vita.

Marina adesso era davvero sola, ma non seguì il fratello, voleva vivere, voleva combattere, la sua luce non si era spenta.

Seguì il carro funebre senza lacrime, bella e assente, lontana da tutti anche da se stessa .

Era una mattina di sole e i colori erano veri, si sentiva il sapore del mare , lo sentivi in bocca: salato e sporco.

Una mano sicura afferrò la spalla di Marina , lei si voltò e vide Salvatore che rideva e mangiava un gelato al limone , camminarono insieme fino al cimitero senza parlare mano nella mano come due innamorati ; il maestrale si era alzato , scorreva tra i loro capelli e asciugava il sudore , Salvatore si fermò e con voce dolce si rivolse alla sorella: "lo devi uccidere , lo devi uccidere questa sera , uccidilo e cambia il tuo destino."

E la sera arrivò con le sue stelle fresche a dare coraggio a Marina , Alfredo aveva bevuto e riposava sul divano incurante delle voci del televisore , tutti dormivano , la lama del coltello scivolò senza esitazioni sulla gola gonfia di quel padre snaturato; Alfredo spalancò gli occhi senza forze e la lama affondò nel cuore , Marina era lì sporca di sangue mentre il suo assassino moriva.

Non è vero che nell’uccidere un uomo si perde la lucidità, quei pochi istanti si dilatarono nel tempo fino a fermarlo.

Giustizia era stata fatta, nell’altro mondo la giustizia si fondava su leggi non scritte, norme di diritto severe e il processo non era ispirato ai principi del garantismo, non c’erano le astuzie procedurali degli avvocati, non c’era appello.

Marina andò a lavare il suo corpo ed suoi pensieri, le gocce d’acqua come una pioggia fitta scorrevano sul quel corpo oltraggiato, violentato che continuava a vivere e voleva vivere.

Il cono di ombre dei suoi ricordi fu illuminato dalla libertà riconquistata.

Chi era Marina? Adesso doveva costruire la sua vita , quante paure e quante immagini da cancellare , tonnellate di rifiuti non avevano schiacciato la sua innocenza, lei era la figlia del centro antico, la bambina del terremoto.

Occorreva cacciare gli incubi che le ricordavano la sua condizione di puttana, bisognava tenere testa agli occhi della gente che le ricordavano la sua condizione di puttana, era necessario non riconoscere la sua immagine riflessa nello specchio che le ricordava la sua condizione di puttana.

Nel caleidoscopio della sua vita c’erano pezzi di vetro e le ferite non rimarginate parlavano l’idioma delle cicatrici , la sua carne era sfregiata e lo sfregio è visibile ed è per sempre.

Libera ma puttana , lei che voleva amare ed essere amata.

Litri e litri di acqua non riuscirono a lavare tutti quei pensieri, la giustizia punisce i colpevoli ma non riabilita gli innocenti.

Ormai la notte iniziava a riempirsi della luce del mattino , Marina uscì dal bagno e rivide per l’ultima volta il corpo del padre, gli altri ancora dormivano inconsapevoli .

Cominciò a correre senza una meta, l’affanno cadenzava i passi e le gambe scivolarono verso la sua verità ,la sua bestemmia, la sua eresia; dietro una curva un portoncino aperto, un odore familiare la trascinò fino all’ingresso, dieci scalini e poi la chiave della sua vita.

Si ritrovò su di un terrazzo grande quanto l’infinito, il mare schizzò l’azzurro del mattino nei suoi occhi, il Vesuvio e il silenzio avvolgevano lo stupore, Marina si infilò per una porta in una mansarda e respirò odore di morte.

Era tutto così bello, così intimo, ebbe l’impressione di essere a casa sua , guardò le pareti colorate e camminò con rispetto per le stanze fino ad uno specchio, si fermò e pianse, l’immagine riflessa lentamente si deformava ed il suo volto svanì , dallo specchio iniziarono a delinearsi le mie sembianze, la mia carne, gli occhi, un sorriso rassicurante e pieno di amore.

Marina era il frutto della mia presunzione, anni prima mi ero convinto di avere compreso quei luoghi, quell’umanità, mi ero illuso di rapire con delle lastre fotografiche quei misteri.

La cattiva magia mi aveva condannato , io che avevo cercato di comprendere gli uomini violentati dalla vita divenni corpo corrotto e stuprato, sporco ed ubriaco; dallo specchio che mi custodiva come prigioniero guardai Marina , le sue mani, le sue unghie e la compassione mi liberò.

Entrai lentamente nel corpo di Marina e rividi quel labirinto onirico che tanto mi aveva accecato: i palazzi caduti, gli odori antichi, le mamme, i bambini ed i gatti, la musica e le lenzuola, le pistole ed il sangue, le grida ed i silenzi, l'ansia di vivere mischiata alla rassegnazione, era tutto dentro di me , io ero tutto questo.

In quel preciso momento capii le parole che annunciarono la mia morte, ero rinato non per capire ma per essere miseria e riscatto.

Ero una donna , con le mente invasa dalla paura, con la pelle consumata e arsa dalla violenza, con il grembo stanco e senza lacrime, ero Marina la ragazza del centro antico, la figlia del terremoto.

Avevo 16 anni e dovevo costruire la mia felicità.