Carlo Pilia

Assistente software
pedagogista e art counselor
viaggiatore con la passione della scrittura.

Viaggio in Giordania

Arrivando in Giordania la prima impressione è il clima non molto caldo ma certamente secco anche alle tre del mattino.

Il tassista che mi accompagna dall’aeroporto al centro di Amman, non è molto d’accordo sulla scelta del mio albergo. Io non presto attenzione ai suoi suggerimenti e quell’albergo mi costerà trenta dinari in più.

Il traffico di Amman è simile a quello di una qualsiasi città araba. Un numero incredibile di taxi lascia sulle strade la sensazione di un lungo serpente giallo. E’ sufficiente soffiarsi il naso che tale gesto è interpretato come il bisogno di una corsa in taxi.

Mi rendo subito conto che Amman è diversa dalle altre città arabe, la tipologia edilizia non richiama i motivi tipici di quella cultura, ma le case sono regolari cubi in pietra e tuttavia dal colore uniforme tra il bianco e il giallo ocra.

Il mini bus che mi porterà a Petra non ha orari, parte quando tutti i posti sono occupati. Un viaggiatore nei paesi arabi la prima cosa che impara è che il tempo è una concezione astratta, e la fretta è un termine sconosciuto. Osservo due studentesse che si scambiano appunti dai loro quaderni per me indecifrabili, un ragazzo vedendo che una donna sale sul bus, va a sedersi accanto ad un altro uomo per evitare un contatto con lei. Presto il mini bus si trasforma in un contenitore di fumo, tutti fumano e l’aria diventa irrespirabile.

Percorriamo la desert highway, oltre trecento chilometri d’asfalto, in mezzo al deserto, che attraversa la Giordania in senso longitudinale. Il paesaggio è abbastanza monotono, interrotto di tanto in tanto dagli accampamenti dei beduini.

Arriviamo a Wadi Musa, non lontano da Petra. L’albergo è più pulito di quello che ho lasciato ad Amman, ma la stanza è incredibilmente piccola. Un bizzarro tassista che mi conduce al castello di Shobak a trenta chilometri da Wadi Musa, mi chiede quanto costa pernottare in un hotel con cinque stelle a Roma. Non avendone la più pallida idea, gli lancio una cifra verosimile e lui per tutta risposta canta dei motivi di canzoni italiane del tipo: ti aammmo…… ti aaaammmo…… e contemporaneamente mi stringe delicatamente il mento con le mani.

In un attimo scatto qualche decina di fotogrammi. La luce che si riflette sul castello ha i toni morbidi e piacevoli dell’oriente. La guida del castello, un beduino dagli occhi luciferini, appare divertito quando lo spalmo nella pellicola sensibile.

La mattina del giorno dopo, m’invade una sorta di eccitazione perché sto per entrare nei luoghi sacri dei nabatei. Il siq di Petra si snoda per un chilometro e mezzo fra due pareti rocciose distanti fra loro cinque metri e alte fino a duecento metri. Chissà come doveva essere il momento in cui la terra si è spaccata in due lasciando dietro di sé quel sentiero roccioso dove in alcuni tratti non è attraversato neanche dalla luce.

Al termine del siq l’emozione è molto forte, ho di fronte la maestosità di un edificio scavato nell’arenaria rosa alto più di trenta metri, si tratta di una tomba nabatea chiamata "il tesoro", per via di una leggenda. Pare che dei pirati abbiano nascosto il tesoro nel sepolcro posto al centro del secondo livello. Le pareti interne del tesoro sono degli affreschi naturali e si presentano come tanti arcobaleni dai colori densi e nitidi. Seguo la mia mano che accarezza queste pareti cariche di storia.

L’emozione s’intensifica quando arrivo su una delle colline del Wadi Araba la valle nella quale Petra si è furbescamente nascosta per quasi duemila anni. Incastonato nella roccia a mille metri sopra il livello del mare, il monastero (al-deir), largo quaranta metri e alto quarantacinque mostra i segni della grandezza nabatea. La percezione ottica della valle adiacente e dei numerosi canyon richiamano un infinito abbagliante tanto da sentirmi un minuscolo essere vivente.

Al tramonto mi gusto i colori rosati degli edifici sacri, e la mia anima è più impressionabile della pellicola fotografica che non restituirà mai l’emozione vissuta.

Il giorno successivo la direzione è l’altare del sacrificio. Mi aspettano qualche migliaio di gradini. Arrivo stanco e disidratato. Fortunatamente c’è una capanna dove si trova del thé alla menta, a Cagliari si chiamerebbe chioschetto. Mentre bevo il thé noto due bambini che dal dorso di un asino scaricano diverse confezioni di coca-cola. E’ curioso vedere una lattina di coca-cola con la scritta in arabo. I due bambini hanno l’aria simpatica e sembra che si divertano in quell’attività. Il loro padre sta riposando in un letto di pietra con sopra le tipiche coperte beduine.

L’altare del sacrificio è incredibilmente simile al sito nuragico di Santa Vittoria di Serri, con la canaletta incisa nella roccia per far scorrere il sangue dell’animale sacrificato.

Dall’alto vedo strani esserini in camicia bianca, che come formiche entrano ed escono dal formicaio sacro.

Mi dirigo a valle scendendo lungo la parete rocciosa per vedere la tomba del soldato. Un’altra sosta in un altro "chioschetto" beduino. Mentre sorseggio l’ennesimo thé vedo che un giovane beduino lascia intuire le sue qualità amatorie ad una turista, forse inglese, ma non più giovanissima. Unendo il sacro con il profano si prendono qualche momento d’intimità dentro la tomba del soldato.

Lascio Petra al tramonto, con le sue luci e i suoi colori. Attraversando il siq quando ormai tutti i turisti sono andati via, mi volto indietro e trovo il silenzio, ho la sensazione di chiudere la porta come un custode del tempo.

In albergo a Wadi Musa incontro Kaled, una guida dall’aspetto molto curioso, i suoi piccoli baffi e la fascia rossa sulla fronte mi dicono che posso fidarmi di lui per accompagnarmi nel Wadi Rum, il deserto roccioso della Giordania. Dopo un’estenuante contrattazione, troviamo un accordo e per settanta dinari sarà la mia guida.

Partiamo la mattina successiva verso un villaggio di beduini, all’ingresso del Rum. L’abitazione di Mohammed, l’autista della land rover, è essenziale, ed è il risultato di una capanna trasformata in casa. La moglie ci offre del thé, ma dopo un’ora sono già dentro lo scomodo ma utile fuoristrada. C’inoltriamo per una cinquantina di chilometri all’interno del deserto. La sabbia anche se non finissima, copre metà delle ruote, ma caparbiamente Mohammed conosce tutte le strategie per non insabbiarsi, sgonfiando, con sicurezza, leggermente le gomme per diminuire l’attrito.

Kaled è molto istrionico e i suoi piedi nudi penzolano fuori della land rover.

C’inoltriamo in mezzo a delle gole formate da rocce alte come un palazzo di dieci piani. Ci fermiamo. Entro in punta di piedi all’imboccatura di due gole. Respiro profondamente ed emetto un urlo profondo, lungo, rabbioso, liberatorio. Sentirò il mio urlo che arriva dalla direzione opposta e con la medesima intensità per otto volte. L’aria è secca ma il caldo è sopportabile. In lontananza delle nuvole di sabbia alitate dal vento danno l’impressione che da un momento all’altro si materializzi una carovana di cammelli.

Le rocce al tramonto, assumono un aspetto divino, come se gli déi fossero scesi nella terra per sedersi comodamente sulla sabbia.

Dopo aver valutato la direzione del vento Kaled sceglie un luogo per trascorrere la notte. Ci sistemiamo in prossimità di una parete rocciosa. Con estrema facilità sradichiamo degli arbusti dal terreno, probabilmente non hanno mai conosciuto l’acqua. Il fuoco acceso durerà tutta la notte, per tenere lontano gli animali.

La nostra cena, preparata dal silenzioso ed efficiente Mohammed, era composta da un crema di ceci e patate cotte sotto la cenere con l’immancabile thé.

Il vento notturno del deserto arrivava in forma di brezza leggera come un soffio. Non si può descrivere il silenzio, nel momento in cui se ne parla s’interrompe. La luce delle stelle e della luna proiettate sulla sabbia davano a quel luogo l’aspetto di un paesaggio lunare eppure evanescente, forse qualcosa di più di un sogno.