Alessandro Gabrielli

Le solite note sull'autore o sono noiose o sono banali.
E in entrambi i casi sanno di necrologio.
Posso dirvi solo che ho venticinque anni e dormo poco.
Adoro Jon Bon Jovi e avrei voluto essere esattamente come lui ma, ahimè, la mia voce e il mio fisico non me lo consentono.
Allora ho iniziato a scrivere
.

JOHN IRVING

Voglio proprio raccontarvi una storia.

Ebbene, John Irving era un discreto giocatore di baseball degli Yankees di New York e quel giorno stava giocando, con la sua squadra, la finalissima delle World Series.

Lo Yankee’s Stadium (trecentomila persone reboanti) era letteralmente impazzito per lui quando, nel terzo inning, aveva battuto un fuoricampo che consentí a N.Y. di fare il grand-slam.

La gente urlava il suo nome - JOHN...

Ma la festa non durò molto.

Quei tipi di Frisco non erano degli sprovveduti e ben presto lo dimostrarono.

...

Si era ormai giunti al nono e ultimo inning e i californiani, che avevano finito di attaccare, erano un punto sopra.

Toccava agli Yankees.

I primi due battitori riuscirono soltanto: uno a perdere una scarpa durante la corsa e l’altro a raggiungere la prima base.

Ed ora era la volta di un certo Parker, un nero del Jersey che fu annientato in quarantatré secondi.

Il pubblico, a quel punto, aveva un’unica speranza. E il pubblico, a quel punto, iniziò a invocare il suo cognome - IRVING...

Irving prese posto, fiero, nell’area di battuta.

Era il momento che aveva sempre sognato.

Da lui, solo da lui, dipendeva l’intero campionato.

Si concentrò piú che poté ma non riuscí a colpire nessuno dei primi due lanci di quel mastino della West Coast.

Lo stadio era muto.

Quell’ultimo lancio valeva la stagione.

La palla si avvicinava a lui a novanta all’ora e quando venne il momento lasciò scivolare la mazza, la pose davanti a sé, e cercò di giocare d’astuzia smorzando quel terzo strike.

La palla cadde in foul.

- You’re out - gli urlò l’arbitro dietro casa base.

San Francisco aveva vinto.

La gente montò in collera. Nessuno sembrava capire il dolore e la delusione di Irving che aveva fallito ciò per cui aveva sempre vissuto e per cui, adolescente, era fuggito di casa.

Dagli spalti volarono verso di lui trecentomila monete da dieci dollari (le piú pesanti !) e John, poverino, si buttò al suolo cercando di farsi scudo con quelle stesse braccia che un minuto prima l’avevano tradito.

Quando sentí che anche l’ultimo tintinnio metallico fu cessato si alzò, prese a camminare lungo il diamante e raccolse, una ad una e con fare lento, tutte le monete.

Quando finí alzò gli occhi alle gradinate e con un sorriso ambiguo che gli si dipingeva sul volto girò le spalle e uscí dallo stadio.

Be’, voi non ci crederete, ma da quel giorno John Irving non rimise mai piú piede su un campo da baseball.

LA FIGLIA DI VOLFANGO

Il suo nome era Eine Kleine Nachtmusik. Io, per ovvii motivi, la chiamerò Susanna.

La vidi per la prima volta ad un concerto di Antonello Venditti; mi disse che era lí perché, di tanto in tanto, sentiva pulsare l’urgenza di soddisfare il suo ego vanesio.

L’accompagnai a casa, quella sera.

Per tutto il tragitto non fece altro che parlarmi di suo padre, un certo Volfango o comunque uno di quei nomi lí che fanno pensare a un vichingo oppure a un norvegese.

Mi disse inoltre che adorava l’arte e in particolare snocciolò dei nomi quali John Roussel e Toulouse-Lautrec, Monet e Renoir, Seurat, Degas e Paul Gauguin. Gli dissi che la sua cultura era impressionante e lei si complimentò con me per la mia prontezza di spirito. Non ho ancora capito se alludesse a qualcosa in particolare o se davvero trattavasi di complimento.

Be’, avrete notato che la mia prosa non è poi cosí male.

Iniziai quel che definirei il mio acculturamento di mezza età la mattina seguente. Sapete, volevo essere all’altezza della sua conversazione.

Non sapendo come partire spulciai tutti quei libri che i miei genitori avevano deciso di regalarmi quando me ne andai di casa. In un primo momento fui commosso da tal pensiero gentile ma a breve ebbi a pentirmene, allorché mi resi cosciente della loro speranza reale. Pregavano il loro Dio di farmi immergere nella lettura di modo che, assorto, avrei evitato di andarli a seccare la domenica mattina. Il tutto onde evitare di sporcare un piatto in piú.

Quel giorno la loro chimera divenne realtà. Peccato che erano morti in un incidente stradale( caddero in un chiusino lasciato incautamente aperto da alcuni operai) due anni prima e io avevo ereditato la loro bella casetta.

Ma mio padre sapeva essere davvero puntiglioso quando ci si metteva. I piatti, infatti, li elargí a quelli della mensa parrocchiale.

Comunque, tornando al discorso, vediamo... cosa stavo dicendo ?

Ah sí, optai per un certo Pirandello.

Lasciai scorrere ancora un paio di giorni e poi la chiamai.

Andammo a cenare in uno di quei ristorantini cinesi che sono tanto di moda e Susanna parve apprezzare anche se, alla vista di un involtino Primavera, si dipinse sul suo viso come una nota stonata.

Fu esattamente mentre attaccava un porlo alle mandorle che iniziai a spiegarle quella mia personale teoria sulla molteplicità della personalità umana. Fu a tal punto colpita che quando uscimmo mi invitò a casa sua con la solita scusa di mostrarmi la sua collezione di dischi in vinile.

Io non ero mai stato un bambino vivace. Non avevo mai avuto danni irreversibili alla spina dorsale giocando a football eppure il mio testosterone mi sbucò in gola quando lei, con tono malizioso, mi chiese se avevo accordato il mio strumento.

Immaginate ora voi lo sconforto quando tre ore dopo tornai da me dopo aver ascoltato quarantasette volte " Some day you’ll be sorry " di Louis Armstrong.

Decisi comunque che era il caso di insistere.

Prenotai una suite nel miglior hotel della città e la chiamai chiedendole di uscire. Stavolta però avrei fatto a modo mio e infatti la portai al Luna Park.

Tenne il broncio tutta la serata ma io so che in cuor suo si divertiva. O almeno cosí è come la racconto.

Ad un tratto mi disse se volevo andare nel suo appartamento che aveva piacere di mostrarmi la sua collezione di francobolli.

- Ci siamo ! - mi annunciai.

Tornai a casa quella notte dopo aver passato in rassegna piú di millesettecento pezzi filatelici (ce n’erano anche che provenivano da Marte) come soleva chiamarli lei.

Prima di rientrare, passai per il miglior hotel della città che avevo un conticino da saldare... eeeh, mi dissi, era giunta l’ora di troncare.

Non volli aspettare neanche un minuto; alzai la cornetta e con fare finalmente virile composi il suo numero.

Non c’era.

La segreteria telefonica m’informò che si era trasferita in Francia.

- In Francia ? - non potei trattenere anche se ero conscio che all’altro capo c’era solo una macchina.

In Francia, in Francia - ribatté seccata quell’ammasso di transistor. - Ha deciso di andare a convivere con l’autoritratto di tale Vincent. Parigi, intende ? Jeu de Paume - e riattaccò.

Bene, pensai.

Mi sedetti sul divano ma nella mia testa vagolavano mille tormentosi pensieri.

Riuscii ad ucciderli mandando in cuffia quella splendida Serenata n. 13 in Sol maggiore di Mozart della quale adesso non rimembro il titolo. Ce l’ho sempre sulla punta della lingua... com’è che... be’, quando non mi viene, io la chiamo Susanna.

LA DOLCE VITA

Ero ad uno di quei party con moquette di Armani e tartine al caviale. Sapete quei party pieni di attori, stelle dello sport, gente che coi vips non c’entra niente ma porta una pochette da mezzo milione...

Dunque ecco, io ero lí che sorseggiavo il mio Bloody Mary quando un tizio coi capelli laccati e placcati in oro diciotto carati si avvicina e mi fa - Ehi, il suo cocktail ispira il ricordo di Marx -

Ora, giusto per mostrare che masticavo l’argomento gli dissi che i suoi occhiali somigliavano a quelli di Woody Allen, ma non so perché scoppiarono tutti a ridere.

Fui di colpo al centro dell’attenzione.

Un celeberrimo filosofo di Las Vegas (che poi cosa c’è da essere filosofi a Las Vegas) iniziò uno strano discorso su altri pianeti e concluse affermando che gli sarebbe piaciuto incontrare gli alieni.

Be’, ecco, gli dissi che allora potevo farlo incontrare con i miei amici giú al bar ma lui si limitò a non capire.

Poi tentai di trovare la strada per la toilette ma quella villa era enorme e il semaforo in corridoio durava una vita.

Sapete, devo confessarlo, passai col rosso ma era un caso proprio disperato. Quindi corsi piú che potei pensando con terrore che sicuramente avrei trovato occupato e mi stupii, invece, nel vedere la porta aperta.

- Che fortuna ! - sospirai fra me e me.

Uscendo trovai il capo chauffeur e gli sorrisi per cortesia.

Anche lui sorrise mentre mi porgeva una multa per eccesso di velocità. Ma la cosa piú strana doveva ancora succedere.

Quando questi si accorse che una mia scarpa era slacciata mi disse - I telefoni sono là in fondo. Usi pure quello nero, ma solo se è socio A.C.I. -

Tornando in sala, irato com’ero inciampai in un Picasso poggiato lí in terra e finii lungo e disteso proprio sotto la gonna della padrona di casa.

E’ imbarazzante dirlo ma alzai gli occhi e mi fu subito chiaro il motivo per cui aveva avuto un facile accesso al mutuo.

Mi sentii come svenire.

Quando, a fatica, riaprii gli occhi, la signora non si era ancora alzata.

Voi penserete chissà che, ma vi assicuro che per lei fu un semplice cheek to cheek.

Sono io che, da quel giorno, vado in giro conciato come uno dei Kiss.