Euro Carello

nato a Torino, attualmente vive in un comune della cintura cittadina. Laureato in economia, ha insegnato nella scuola superiore. Da qualche anno impegnato nel volontariato, è attualmente responsabile per l'associazione umanitaria Emergency del settore scuola per la zona di Torino.
Scrive ormai da diversi anni e predilige le atmosfere noir, non per facile scelta di tendenza, ma per naturale propensione ad una visione del mondo. Gli spunti vengono dalla cronaca, dalla storia recente, da un film, da un frammento di conversazione colto al mercato, sull'autobus, per strada.
Ha pubblicato diversi racconti su carta (Giulio Perrone, ARPANet, Tabula Rasa) e su riviste e siti on-line (INCIQUID, Progetto Babele e Musicaos, tra gli altri). Una rassegna più completa della sue pubblicazioni è visibile sul sito www.eurocarello.it

- L'ultima notte di Gloria -

Plic.
Plic, plic.

Qualcosa le picchia sulla testa. Qualcosa di bagnato. Acqua, forse. Le scorre sulla fronte e sul naso. Scivola in basso, arriva sul labbro. Istintivamente stringe e assaggia. Dolce.
Quando apre gli occhi vede il verde sopra. Ci mette qualche secondo a capire. Foglie. Un albero. È sotto un albero, e piove. Il ticchettare della pioggia e il fruscio della brezza tra i rami si sommano e si confondono, le gocce scendono dalle foglie inzuppate, le cadono addosso e intorno con uno schioccare molle e ovattato. I rami si muovono piano, là in alto, piccoli spostamenti ondulati aprono sprazzi chiari che le feriscono gli occhi. Ha difficoltà a mettere a fuoco. Riprende lentamente coscienza del corpo, sente qualcosa di duro premere contro la schiena indolenzita. Un sasso, o una radice. Fa freddo, sente un rivolo gelato nel collo. Rabbrividisce. Muove bruscamente la testa di lato e arriva una fitta alle tempie, come una coltellata. Le foglie in alto si mettono a girare, strano. Si muovono ondeggiando, lente, sembrano galleggiare.
Buio.

Solletico. C'è qualcosa che le fa il solletico sul naso. D'istinto soffia e il solletico se ne va. Una mosca, che torna e si posa di nuovo. Ci deve essere qualcosa che la attira. Ci penserà poi. Adesso il problema è la mano. C'è qualcosa che non va, alla sua mano. Brucia. Quando vuole alzarla per vedere, il braccio non si muove. Come fosse di piombo, uno di quei sogni in cui sai che dovresti muoverti, fuggire, ci provi e invece stai ferma lì, sai che il pericolo si avvicina e il corpo non risponde, tu sei terrorizzata, nel sonno ti agiti e gemi, ma il tuo corpo sembra di legno. Una rotella inceppata, un ingranaggio che non gira più, la macchina si è bloccata, e tu stai lì ad aspettare la cosa terribile che arriverà, sta per arrivare, è già qui...
Basta. Questo non è un sogno, il freddo, le tempie che battono, la mano che brucia sono veri. Calma. Adesso si riposa un attimo e poi ci riprova. Se solo non fosse così stanca. Chiude gli occhi un momento e quando li riapre la luce è più morbida, sfocata. Non piove più. Impossibile che si sia addormentata, eppure...
Il freddo è aumentato, sente l'aria gelata percorrerle le gambe, salire fino al ventre. È ora di muoversi. Quando si alza seduta di scatto, con uno strappo deciso alla mano, la memoria le scoppia dentro, un lampo nero che le toglie il fiato quando vede ciò che trattiene il suo braccio. Schegge di immagini sovrapposte le invadono gli occhi, accavallandosi disordinate. La corsa disperata verso gli alberi, le urla dietro sempre più vicine, le spine che mordono le gambe e i singhiozzi che non la fanno respirare. Ricorda gli scatti disperati della testa, gli occhi sbarrati a cercare una via di fuga, l'urto fortissimo e il buio che le piomba addosso mentre crolla.
Poi il risveglio sussultante in quel peso schifoso che si agita sul suo ventre, tra le gambe spalancate nell'erba umida, i grugniti, le mani sulla gola e sul seno. Rivede gli occhi, piccoli e assenti, bianco sporco e venuzze rosse, fissi che non la guardano neppure, guardano l'erba sotto di lei, il chiaro verso l'orlo del bosco, lontano sopra la sua fronte.
E il coltello. Un riflesso lucido nell'aria pallida di aprile, subito avvolto dal fiotto rosso che le impregna i resti del vestito, che le scorre sulle braccia, nel collo, imbeve l'erba schiacciata intorno e sotto di lei.
Ora ricorda tutto. Troppo. Anche il rantolo, il gorgogliare spaventoso mentre con la forza della disperazione spinge lontano il peso enorme che la schiaccia contro la terra bagnata.
Cerca di calmarsi, di respirare adagio, scuote la testa per scacciare le immagini che continuano a vorticarle dentro. C'è un rumore, adesso, un battito forte che continua, si fa strada tra i conati neri dei ricordi, copre il fruscio delle foglie e il ronzare frenetico delle mosche. È un alternarsi disordinato di silenzi e di schianti che la scuotono. Ci mette un poco a capire che sono i suoi singhiozzi.
Si accorge di avere gli occhi chiusi, stretti. Li riapre lentamente, poco alla volta, a scatti tremolanti, sotto le ciglia pesanti di lacrime che le rimandano una visione liquida e instabile. Volta la testa adagio, piccoli spostamenti successivi del collo, allargando progressivamente il campo.
Il corpo accanto a lei è girato sulla schiena, un pupazzo con gli occhi spalancati e due bocche, la seconda è un buco nero nella gola, dove la colata crostosa attira un brulicare nero di mosche, un ronzio sempre più acuto che scava le tempie.
Il gesto è più rapido del pensiero, con uno scatto istintivo allunga il braccio a scacciarle. Nel seguirne il volo testardo che ritorna al banchetto abbassa gli occhi e si vede. Dalla vita in giù è nuda, strisce scure appiccicose spiccano sulla pelle bianca delle cosce. La peluria nera del sesso è incrostata di sangue.
Il cuore le salta in gola, sente rizzarsi i capelli, poi si rende conto che il sangue non è suo e prende a ridere, una mano sulla bocca, sporcandosi la guancia e il naso con ditate rosso scuro. Da principio è solo un accenno a labbra socchiuse, quasi un sospiro che si muta in un ghigno leggero e sussultante, gonfia e si alza e si fa risata piena, sempre più forte, a bocca aperta, sguaiata. Di colpo si abbassa, si lacera in un gemito sommesso. Quando alza l'altra mano accostandola al viso, vede che stringe ancora il coltello, la lama zigrinata scura di sangue rappreso. Lo lascia cadere come se scottasse, con uno scatto che vira il lamento in un singulto spezzato. Resta a fissare la lama in agguato nell'erba schiacciata, lordata dai riflessi scuri, finché qualcosa le stringe il ventre, sale dallo stomaco fino in gola, esplode in un fiotto amaro che la squassa.
Non sa quanto tempo resta ferma, protesa sulle braccia irrigidite, gli occhi chiusi e i capelli che ricadono sciolti verso la pozza giallastra che cola lucida sui fili d'erba piegati, sulla terra grigia.
È indolenzita e sporca. La mano continua a bruciare, una linea rosso scuro percorre l'attaccatura del palmo, sotto le dita, quando tenta di aprirle il bruciore aumenta.
Cercando di usare solo la mano sana sfila quello che resta del reggiseno e lo usa per ripulirsi il collo e il braccio, raschia via le strisce schifose dalle gambe graffiate.
Si alza a fatica, quando è in piedi si rende conto che è molto debole, fa qualche passo barcollando e si appoggia ad un albero, cercando di non guardare il corpo disteso, la pozza scura, il riflesso cangiante del coltello che occhieggia nell'erba.
Appoggiata con la schiena al tronco, cerca di rimettere insieme come può il vestito lacerato. Una spallina è strappata e lascia intravedere il seno, il rosa grinzoso del capezzolo che spicca sulla pelle bianca. Rabbrividisce, sistema la stoffa strappata a coprire le gambe e si avvia traballando.
Quando arriva al limitare del bosco li vede.
Sono quattro, con i cani, tutti vestiti uguali. Oddio mi cercano, pensa in un singhiozzo soffocato, mi prenderanno. Ricorda tutte le storie che ha sentito, i corpi ritrovati in un dirupo, tra i rovi, gettati via come bambole rotte. Al villaggio si sapeva, che poteva succedere. Le mamme hanno smesso di lasciare andare i bambini troppo lontano a raccogliere la legna, o i funghi. Troppa paura. Si morde un pugno a sangue, tremando. Deve scappare, subito. Torna muovendosi più in fretta che può sotto l'ombra protettrice degli alberi, si getta in ginocchio sull'erba bagnata, a spiare dai cespugli.
Gli uomini si spostano in fretta, trascinati dai cani, chiacchierano, si vede il fumo delle sigarette salire dalle labbra socchiuse. Si fermano un momento, uno passa agli altri una bottiglia, bevono e parlano forte.
Deve andarsene subito. Se riesce ad arrivare al torrente forse i cani non sentiranno l'odore, forse riuscirà a fare il giro e tornare al villaggio, e nascondersi. Ma se arrivano al... al morto, non si fermeranno più, finché non la trovano. Stringe gli occhi per scacciare il pensiero di quello che potrebbero farle.
Ha violato le regole, lo sa. Era previsto che lasciasse fare, e tutto sarebbe finito lì. Con uno schifoso ricordo in più, da scacciare ogni volta che appoggia la testa sul cuscino, ogni volta che un uomo la tocca o semplicemente la guarda. Avrà sempre davanti il bianco sporco di quegli occhi iniettati, che non si degnano neanche di guardarla, mentre è inchiodata a terra, ridotta a un buco dove scaricare la voglia.
Corre come può, tenendosi chinata, barcollando e scivolando sull'erba umida. Non sente neppure più il dolore alla mano, e cerca di non fare caso alle fitte là in basso. Ogni qualche passo volta indietro la testa, a spiare se arrivano. Il torrente è vicino, sente già il rumore, ce la può fare, forse ce la fa.

Il barbaglio lucido dell'acqua irrompe di colpo dietro il sipario scuro degli alberi. È un piccolo torrente, poco più di un ruscello, scorre veloce infilandosi tra i sassi bianchi e grigi con un borbottio ininterrotto che copre il rumore dei passi sulle foglie marce e sui rami caduti.
Si toglie in fretta le scarpe ed entra di corsa nell'acqua fino ai polpacci, reggendo il vestito alto sulle cosce con la mano sana. Il freddo le toglie il fiato, ma si costringe a continuare. Se continua a muoversi dovrebbe sentirlo un po' meno. Tiene l'altro braccio allargato per mantenere l'equilibrio, i sassi rotondi sono lisci e scivolosi.
Cammina in mezzo al torrente per una ventina di metri, più veloce che può, rischiando a ogni paso di scivolare, fino a una piccola ansa, il sospiro freddo dell'acqua che le morde il ventre, sale su per le gambe, fino alla schiena. Si accorge di battere i denti, rabbrividisce con scatti violenti che la scuotono tutta.
Dal folto del bosco esplode improvviso il latrato furioso dei cani, l'eco delle voci alterate. Non distingue le parole, ma sente il tono delle urla. Hanno trovato il corpo. Adesso scioglieranno i cani, la troveranno!
Si guarda intorno disperata, muovendo la testa a piccoli scatti, paralizzata in piedi nell'acqua gelida. Le urla si fanno più nitide. Si avvicinano. Si morde le labbra a sangue, guarda indietro con il terrore di vederli spuntare tra le colonne scabre dei tronchi, poi di nuovo avanti. Fa qualche passo, indecisa. Appena più in là dell'ansa, sull'altra sponda c'è una piccola zona di acqua calma, sotto un grosso masso grigio ricoperto di muschio.
Attenta a non scivolare, sposta i piedi quasi insensibili per il freddo da una pietra all'altra, raggiungendo la pozza. Dagli alberi i rumori di rami spezzati e le voci sono sempre più vicini. I cani non sono ancora qui, vuol dire che non li hanno sciolti, per fortuna.
Di fianco al masso, dove l'acqua cede il posto a una fanghiglia grigiastra, un tronco caduto coperto da un intrico di rampicanti forma una nicchia scura. Si avvicina in fretta e solleva freneticamente i tralci di rampicanti, scosta i rami umidi ad allargare l'apertura, trattenendo i singhiozzi che le premono in gola. Si accovaccia e si infila dentro, facendo attenzione a non impigliare il vestito nei moncherini dei rami o nelle spine, rannicchiandosi contro la parete rocciosa. Quando lascia la presa, i rami si richiudono dietro di lei, resta soltanto una fessura chiara che lascia intravedere l'acqua che scorre e una porzione dell'altra sponda. Con la mano attira verso di sé altri rami e foglie a chiudere l'ingresso, cercando di non strapparli. È seduta con le gambe chiuse sul petto, i piedi freddi e lividi nel fango molle, abbracciata alle ginocchia. Appoggia sfinita la testa all'indietro, contro la roccia umida, e aspetta, cercando di controllare il tremito.
È passato appena un minuto, che dall'altra sponda arriva un trapestio affannato, sovrastato dall'abbaiare dei cani, dagli incitamenti rabbiosi degli uomini.
Si rannicchia ancora di più, gli occhi sbarrati al triangolo lucido dell'acqua oltre il viluppo scuro dei cespugli. Stringe le mascelle per non farsi tradire dal battito dei denti, spinge la schiena tremante contro la roccia, l'umido che si allarga sulla pelle, sui capelli sparsi.
La voce maschile è forte e roca, sembra vicinissima, urla ai cani.
<<Cerca, cerca! Prendila, dai!>>
Urla e imprecazioni sempre più vicine, rumore di rami spezzati, tonfi di sassi e di corpi nell'acqua coprono per un momento il rotolare della corrente. Di colpo, una massa scura riempie la fessura davanti al rifugio, a non più di tre o quattro metri. Bassa, pelosa, sente il puzzo caratteristico del pelo bagnato. Un cane. Una scheggia di pensiero: se lei sente l'odore vuol dire che è sottovento, c'è una speranza. L'odore di lei nell'acqua non si dovrebbe sentire, invece. Cerca disperatamente di ricordarsi se ha appoggiato la mano con le scarpe sulla roccia per arrivare a rifugiarsi sotto il tronco. Forse questo sì, i cani lo possono sentire. Oddio, no.
Il cane è ancora al guinzaglio, per un attimo riesce a vedere tra le foglie il laccio di cuoio che gli tira il collo, la lingua rosa tra i denti aguzzi. Stringe i pugni e aspetta, trattenendo il respiro. Non può più fare altro.
Dopo un momento che le sembra eterno, il cuoio teso trascina l'animale fuori della sua vista. Intorno, le voci continuano ancora per un poco, sovrapponendosi, spostandosi di continuo, poi si fanno via via più fioche. Se ne vanno. Sente lo scalpiccio sui sassi e sui rami spezzati,il risucchio molle delle suole sul fango dell'altra sponda. Il guaito di un cane raggiunto da un calcio arriva appannato dalla distanza.
Abbassa le spalle che aveva contratto senza accorgersene, sente il sollievo entrarle dentro come un respiro caldo che le gonfia la gola.
Frena l'impulso di scappare via subito, di gettarsi alla disperata tra gli alberi, verso il sentiero. No. Deve aspettare ancora un po', per prudenza, poi potrà uscire e cercare di tornare a casa. E anche in fretta. Sono inferociti, sanno che erano troppo pochi per una battuta seria, torneranno. A casa la daranno per persa, ormai. Una delle tante.
Aspetta qualche minuto, fissando negli spiragli tra le foglie il triangolo d'acqua che le scorre davanti. Lo sciacquio incessante e il fluire monotono della corrente la calmano un poco.
Esce strisciando da sotto i rami incurvati, le scarpe in mano, sentendo sulla pelle nuda del collo lo stillare delle foglie smosse. Barcolla. Si appoggia a un tronco umido, coperto di muschio freddo. Ha la schiena indolenzita per l'immobilità, i piedi freddi e infangati. Alza una mano stanca a ravviare i capelli sparsi, ruota il collo con gli occhi chiusi, lentamente, aspirando l'odore di acqua e di marcio che sale dal terreno imbevuto.
Quando riapre gli occhi lo vede. La sta aspettando in piedi, tranquillo, appoggiato con la spalla a un albero. Ha un giubbotto chiaro, i capelli biondi e lo sguardo buio fisso su di lei, e sorride, ma solo con le labbra. Si stacca lentamente dal tronco e le viene incontro adagio, con le mani aperte.
Dice <<Ciao, Gloria>>
Lei si blocca in piedi, l'acqua che continua a scorrerle indifferente alle spalle, resta impietrita a guardarlo avvicinarsi, i passi calmi nelle chiazze di luce che scendono tra i rami. Come una bambina sorpresa a disubbidire, ha le labbra che tremano, il respiro affannato. Si piega in avanti, cade in ginocchio, le spalle contratte e i pugni chiusi sul ventre, tutto il dolore del mondo che le scava dentro. Geme, piano.
Gli altri arrivano da dietro. Hanno traversato il torrente in silenzio, dopo aver portato via i cani. Li sente quando è troppo tardi, ormai le sono addosso, alza la testa e li guarda con gli occhi sbarrati. Stringe le mani sulle tempie, i gomiti piantati nel ventre, apre la bocca e comincia a urlare. È una nota che inizia bassa e poi si alza, lacerante tra i tronchi scuri, tra i rami dei cespugli piegati verso l'acqua che continua a mormorare. Urla mentre il cerchio si chiude, alle facce stravolte e paonazze, alle mani protese verso di lei. Urla mentre il primo si siede sulle sue gambe e un altro le blocca la testa stringendola al collo, mentre le tengono ferme le braccia, mentre l'ago entra nella vena provocandole un sussulto disperato, lo scatto dell'animale in trappola. Qualcuno le mette una mano sulla bocca, ma lei morde e scuote la testa, rovescia gli occhi, si divincola, continua a gridare. Ora è quasi un guaito, poi un ringhio rabbioso che di nuovo cresce e si muta in ululato, un suono incoerente che continua ad uscire dai denti scoperti, dalla bocca rossa spalancata, ancora e ancora, appena interrotto dal singulto delle pause per prendere fiato. Quando rinunciano a farla tacere, si lascia caricaresulla barella senza più reagire, tutta la forza concentrata nella voce, nel grido che si fa stridulo, poi roco, si abbassa in un rantolo altalenante e prolungato da bestia ferita.
Appena l'iniezione fa effetto le si annebbiano gli occhi, resta un belato esile che si interrompe bruscamente. Si ripiega su se stessa, si lascia andare, cadrebbe a terra come un pupazzo se uno degli uomini, con uno scatto, non fosse pronto a sostenerla.
<<Uff. Era ora. Faceva venire i brividi>>, dice quello più alto.
<<Mai sentito nessuno urlare così>>
L'uomo dai capelli biondi ha gli occhi stanchi. Si aggiusta un ciuffo ribelle sulla fronte, la guarda dall'alto, distesa scomposta come una bambola rotta dimenticata sull'erba, poi si volta verso gli altri, un cenno del mento con le mani in tasca.
<< Forza, portiamola giù. Bisogna chiamare la polizia, stavolta non sono piatti buttati per terra, o morsi e graffi come al solito. Stavolta ha ammazzato un uomo>>.
Guarda gli altri che sistemano la barella.
Uno tira le cinghie e stringe i ganci con rabbia, dice <<Poteva toccare a me, dottore, o anche a lei>>
<<Lo so>>. Poi, più piano, in tono assente: <<Lo so.>>.
Continua a bassa voce, parlando tra sé.
<<Era un bravo infermiere, Giovanni. Solo troppo giovane. E ingenuo. Non ci poteva credere, che era capace di farlo, che l'aveva già fatto un'altra volta>>.
<<Già, chi lo direbbe, eh? Sembra una santarellina, anzi, una bambina. Ma com'è possibile, dottore?>>
<<Non ha mai superato il trauma. Essere violentate è brutto sempre, ma se chi ti violenta è tuo padre è ancora peggio. E se mentre lo fa lo ammazzi, è una cosa che ti sballa per sempre>>
<<Sì, ma...>>
<<Posso solo fare delle ipotesi, è qui da poco, in fondo, la terapia è solo all'inizio. Secondo me c'era già qualcosa di storto prima, quand'era ragazzina, da quello che ho sentito di lei e della famiglia. Poi, con quello che è successo le è scattato qualcosa dentro. Da allora, ogni uomo per lei è uno stupratore. Se poi qualcuno è gentile, le sorride, le parla, magari arriva a sfiorarle una mano, o la guancia...
<<Come Giovanni>>
<<Come Giovanni. Capisci? La dolcezza, la cortesia per lei diventano la prova. Rivive quello che ha vissuto, magari arriva a convincersi non solo che quello la vuole stuprare, ma che l'ha già fatto, quando era piccola, e non si poteva difendere. Quindi lo deve punire>>.
<<É per questo che si strappa i vestiti, si graffia o sbatte apposta contro i muri? Per fabbricarsi le prove?>>
<<Certo. E sono sicuro che sente dolore, dolore fisico, che ha fitte e bruciore, dentro, come se l'avessero violentata davvero. Magari è anche convinta che le tracce di fango sulle gambe siano sperma>>
<<Ma il coltello, dove l'ha preso?>>
<<Non hai visto? È uno dei nostri, della cucina, con tanto di timbro. Dio sa come ha fatto a procurarselo. E a nasconderlo. Qualcuno avrà dei guai seri, per questo. Per non parlare del fatto che ci hanno messo due ore ad accorgersi che è scappata, se no col cazzo che arrivava fino qua, dall'ospedale è un bel tiro. >>
<<E intanto Giovanni è morto>>
<<Già>>. Sospira. <<Gliel'avevo detto di non partire da solo, a cercarla, di aspettare gli altri, che poteva essere pericolosa>>
<<Ma Giovanni era fatto così, lui si fidava>>
<<Già, lui si fidava>>
Mentre i due con la barella attraversano il torrente, il biondo la guarda allontanarsi e mormora qualcosa.
Uno degli altri si volta a guardarlo con aria interrogativa.
<<Diceva, dottore?>>
<<Niente, niente. Andate pure, io arrivo>>
Accende una sigaretta e fissa i riflessi cangianti nell'acqua, l'intersecarsi delle impronte nel fango, un piccolo mulinello dove una foglia gialla ruota sempre più veloce e viene risucchiata giù. Lascia che anche gli ultimi due uomini si allontanino e si guarda intorno con occhi assenti.

Gloria, Gloria, cos'hai combinato. È tutto finito, lo capisci? Niente più turni di notte nel tuo letto, niente più pastiglie nel latte, niente più occhi pesti e mal di testa al mattino. È finita. Adesso ti porteranno via, e un'altra come te non la troverò più.
Lo so, è colpa mia, dovevo controllare, ma tutte le altre volte eri stata brava, avevi buttato giù il tuo latte senza fare storie, tenendo la scodella con due mani, con gli occhioni piantati dritti nei miei.... Era sotto il cuscino, la pastiglia, povera stupida, credevi che non l'avrei trovata. Dopo, quando ho riacceso la luce, me l'hanno detto i tuoi occhi, che non l'avevi presa, ma lo sapevo già da prima. Le altre volte non tremavi, stavi ferma e muta sotto di me, senza piangere, senza respirare, sentivo solo il cigolio della rete. Lo sapevo, che era l'ultima volta.
E ci mancava anche quello stronzo di Giovanni. Deve averci visto, o sentito. Voleva inzuppare il biscotto anche lui, ma ha scelto il posto e il momento sbagliato.
Alla fine mi hai fregato, ma ti sei fregata anche tu. Ho paura che ne avrai un bel po', da urlare, d'ora in poi.

Si scuote e getta il mozzicone nell'acqua, lo guarda scomparire nel gorgo. Allunga un calcio svogliato a una pietra piatta coperta di muschio, che si rivolta e ricade con un ploc molle, in un brulichio di vermetti biancastri.

 

- È STATO UN INCIDENTE -

L'uomo in divisa si raddrizza e si appoggia al manico del piccone, asciuga il sudore con il dorso della mano e chiama, uno scatto di sbieco della testa che sposta i capelli di lato, facendoli ricadere mollemente sul colletto in un'onda color paglia sporca.

- Sergente, l'abbiamo trovato!
- Un altro negro?
- Non si capisce, spunta solo un braccio, con tutta questa polvere sembrano bianche anche le scimmie. Da solo non ce la faccio, però, bisogna alzare una lastra, questa è pietra, mica terra.
- Voi due, andate a dargli una mano.

Altre due divise si avvicinano. Più in là, una piccola folla di curiosi cerca di allungare il collo oltre la recinzione del cantiere, sotto l'occhio distratto di due poliziotti con l'aria annoiata.
I tre si accosciano e spostano a mano i pezzi più piccoli, buttano dietro le spalle e di lato pezzi di legno, schegge di intonaco e mattoni. Hanno i capelli incipriati di polvere e un fazzoletto sulla bocca per riuscire a respirare. Ogni volta che gettano un pezzo più grande, il colpo crea una nuvola di polvere che si distende lentamente, sfumando i contorni delle facce sudate.
Il sergente si sposta qualche passo più in là, mentre lentamente, tra le assi spezzate e i calcinacci, prende forma il corpo rattrappito di un uomo, le gambe storte in un angolo innaturale, un braccio allargato ad abbracciare le macerie. La testa e una parte della schiena sono ancora sepolte sotto una grossa lastra, piantata nell'incavo della spina dorsale spezzata.
Uno degli agenti sbuffa e dice:

- Per me è un negro, guarda che mani grosse che ha.
- Se quello che dicono è vero, non sono le mani che devi guardare. È qualcos'altro che hanno, di grosso.

Sghignazzano.

- Secondo me è una balla, ce l'hanno uguale a tutti gli altri.
- Be', un modo per saperlo c'è, chiediamo a tua moglie, lei lo sa di sicuro.

Un pezzo di legno, accompagnato da una manciata di polvere e calcinacci, atterra sulla faccia dello spiritoso, che lamentandosi e bestemmiando cerca di ripulirsi gli occhi alla bell'e e meglio con le mani e un cencio sporco cavato dai pantaloni.
L'altro aspetta con le mani sui fianchi e lo guarda torvo.

- Non si scherza, su certe cose.
- E che cazzo, era solo una battuta, perché devi…
- Mia moglie la lasci fuori dalle tue battute del cazzo, okay?

Il sergente si avvicina e si piazza tra i due uomini che adesso si fronteggiano, tesi. Li guarda fisso, prima uno e poi l'altro, finché entrambi abbassano gli occhi, poi sibila:
- Adesso basta. Pensate a lavorare, che non voglio stare qua tutto il giorno. E tu, vai a chiamare il capocantiere, urla voltandosi verso l'agente in attesa due metri più in là.

- Subito, sergente, ma dov'è?
- Mah, tu che dici, sarà a un ricevimento, no? O a prendere il tè con il sindaco. O magari è andato a pescare. Idiota, dove vuoi che sia? In quello schifo di baracca che fa da ufficio in questo schifo di cantiere, dove gli ho detto di aspettare quando siamo arrivati! O sei anche sordo? Guarda là, lo vedi il cartello? C'è scritto uf-fi-cio. Sai leggere o no?
- S-sì, sergente, ma...
- Idiota.

Mentre l'agente si avvia verso la baracca, voltandosi di continuo per sbirciare sopra la spalla, i tre si sono rimessi al lavoro, lanciando occhiate sbieche al sergente dritto in piedi che li sorveglia da vicino.

- Uno, due, tre! Oh, dai!

La lastra di pietra è molto pesante, le facce degli uomini sono paonazze. Spostano i piedi di pochi centimetri alla volta sul terreno accidentato, rischiando di scivolare su un mattone traditore, su un asse che di colpo si muove. Hanno i denti stretti e le nocche bianche per lo sforzo di non perdere la presa, i muscoli del collo in rilievo, tesi come corde di violino. Quando lasciano ricadere il carico poco più in là, sotto lo strato biancastro spunta una testa, o quello che ne rimane, un impasto rosso cupo e grigio di polvere e sangue. Riccioli scuri sopra un buco slabbrato dove qualcosa di viscido è uscito e si è sparso sul collo, sulla camicia strappata, fino sulla spalla dove il bianco netto dell'osso spicca contro il grigiastro della pelle impolverata.
Uno degli uomini si drizza di colpo, si lascia sfuggire una specie di singulto strozzato, guarda il corpo e poi si guarda una mano, gli occhi atterriti, la striscia molte volte sul frammento di un asse con movimenti isterici, sempre più veloci, ansimando, la guarda e continua, non riesce a ripulirsi da quella marmellata schifosa appiccicata alle dita. Ad un tratto si piega in due e vomita, un fiotto violento di liquido giallastro che non riesce ad essere assorbito dalla polvere e diventa una fanghiglia oscena tra le scarpe inzaccherate, mentre gli altri due lo guardano e sghignazzano, dandosi di gomito.

- Stomaco debole, il ragazzo, eh? Coraggio, bamboccio, vedrai che ci sarà di peggio.
- Devi vedere cosa succede quando a uno gli sparano nella pancia.
- Per non parlare delle coltellate. Le coltellate sono brutte sempre, ma da un po' di tempo ci sono certi che hanno preso l'abitudine di darle alla gola. Non avevo idea di quanto sangue c'è in un uomo, eh, socio?

Strizza l'occhio al vicino e:

- E ti ricordi l'anno scorso, il cinese? Aveva tutte le budella…

La voce del sergente arriva da dietro le spalle, puro acciaio.

- Adesso piantatela, fuori dai piedi. E portate via questa mammoletta.
La risposta esce appena sussurrata, ma non abbastanza da non farsi sentire anche dal sergente.

- Hai sentito, mammoletta? Vieni, andiamo da mammina, andiamo a dirle che hai la bua al pancino.
- Basta, ho detto!

Mentre i tre uomini si allontanano, arriva di corsa il capocantiere, pantaloni sformati e una camicia a quadri tesa sulla pancia gonfia del bevitore di birra, la faccia preoccupata, gli occhi che si spostano veloci dal sergente al fantoccio incrostato di polvere. Si gratta la grossa testa rotonda con le dita pelose, le unghie sporche sbucano tra i capelli unti come teste di vermi grassi. Il sergente accenna al cadavere con il mento e ringhia.

- Allora, chi è?

L'uomo getta uno sguardo rapido al poco che si vede di profilo.

- Non lo so, giuro. Mai visto prima. Io ho tre cantieri in piedi, in questo momento, non posso essere dappertutto, se non approfittiamo della primavera per andare avanti col lavoro, poi col cattivo tempo…

- La smetta che mi viene da piangere. Non l'ha neanche guardato in faccia, e mi sta dicendo che questo stava qui a spaccarsi la schiena portando mattoni e secchi di sabbia su e giù per le impalcature e non sa se lavorava per lei?

Si avvicina al cadavere e prendendolo per un braccio lo rivolta sulla schiena. La testa sbatte contro un asse con un tonfo sordo. L'altro si sposta di malavoglia un passo più avanti, getta un'occhiata rapida al viso graffiato, agli occhi sbarrati pieni di polvere, alla bocca ancora aperta in un urlo silenzioso, e distoglie subito lo sguardo.

- Lo giuro sui miei figli, sergente, non l'ho mai visto. Non lo so, chi è.

Il capocantiere è piegato in avanti, la testa piegata sul collo grasso, proteso verso la divisa impeccabile dell'altro che lo ascolta con aria seccata. Gesticola imbarazzato, non sa dove mettere le mani, suda. Sul faccione mal rasato scorrono gocce di sudore. Quando si passa una mano sulla fronte lascia uno sbaffo grigio.

- E poi lo sa anche lei, questi sono tutti uguali, i capelli ricci, la pelle scura, è difficile distinguerli uno dall'altro. Loro lo sanno e ne approfittano. Magari un giorno uno non può venire, o non ha voglia di lavorare, lo sa anche lei come sono, e manda il fratello, un amico, il cugino. Sono tutti cugini, questi. Tanto, chi se ne accorge? Poi c'è il fatto che se non finiscono il lavoro in tempo hanno una multa sulla paga, e lo sanno. Così, se si trovano indietro capita che invece di lavorare in quattro magari per un giorno o due sono cinque o sei, e non avvertono nessuno. Lo fanno spesso. Così finisce che il cugino si fa male e nelle grane ci vado io.

- Infatti si vede, che è sciupato. Gliel'ho già detto, di non farmi piangere.

Gli dà un colpetto secco sul ventre teso con il dorso delle dita, facendolo sussultare.

- Guardi che se pensa di farmela bere, si sbaglia di grosso. Io dovrei credere che nel suo bel cantiere pulito pulito, dove lei ha assunto cinque persone, naturalmente tutte in regola, ci lavorano in sette, otto, o magari dieci, eh? Ma lei non ne sa niente, poverino. Un angioletto. Dica un po', ma mi ha preso per scemo?

La voce è bassa e calma, ma fa venire i brividi. Ha una specie di vibrazione, una rabbia contenuta, come il ringhio basso di uno di quei cani da combattimento che non abbaiano mai, attaccano e basta, e quando attaccano sei morto, ti ritrovi sdraiato a guardare il cielo con un torrente rosso che ti esce dalla giugulare.
Mentre parlava, ha allungato una mano verso la camicia del l'altro, all'altezza del colletto, e gli ha spazzato via granelli di polvere inesistenti. Poi si volta, e accennando al morto con un cenno del capo chiama l'agente che sta impalato ad attendere ordini un paio di metri più in là.

- Visto che sei qui almeno renditi utile, vedi se ha dei documenti.

L'agente si avvicina al cadavere, lo rivolta di nuovo sulla schiena e cercando di non posare gli occhi sulla testa devastata fruga nelle tasche dei pantaloni macchiati di sangue e di calce, tira fuori un portafoglio e un passaporto sgualcito. Si rialza a fatica e passa tutto al sergente.

- Va bene, puoi andare, vedi se puoi renderti utile all'ingresso, i curiosi cominciano a darmi sui nervi, mandateli a casa.

Il capocantiere spia di sbieco il sergente, che picchietta sovrappensiero il passaporto contro il mento, guardando l'agente che si allontana verso la recinzione. Si avvicina cautamente, fermandosi a meno di un passo dall'uomo in divisa e dice qualcosa a bassa voce, guardandosi intorno.

- Cosa? Parli più forte, non ho capito.
- Ho detto: possiamo accomodarci nel mio ufficio e parlarne con calma, se crede.
- E dopo che ne abbiamo parlato?
- Non so, possiamo vedere di trovare un modo…
- Un modo per cosa?

L'uomo si fa coraggio e tira fuori la voce, continuando a tenere d'occhio l'altro per valutarne l'espressione e potersi correggere in caso di bisogno.

- Vede, sergente, questi sono fatti come sono fatti. Voglia di lavorare ne hanno poca, perché al loro paese non hanno mai fatto un cazzo. Vengono qui, gli hanno raccontato chissà che storie, che i soldi si fanno facile, che tutti possono diventare ricchi…
- E allora?
- E allora, fino a un certo punto a noi ci sta bene, li facciamo lavorare nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi. Fanno i lavori che noi, i nostri figli non abbiamo più voglia di fare, lavorano dieci, dodici, anche quattordici ore al giorno, si prendono la loro brava paga e ne mandano un po' al paese. E fino qui, tutto bene. Finché stanno al loro posto. Finché non pretendono di essere uguali a noialtri, a lei e a me…
- Ma lei fa il capocantiere o il giornalista? Perché mi sta a raccontare tutto questo?
- Solo per dire che se si viene a sapere cos'è successo, gli amici e i parenti piantano su un casino, vanno da questo e da quello, mettono di mezzo i preti, che quelli sono sempre pronti a farsi impietosire, parlano con i giornali...
- Quindi?
- Quindi, stavo pensando, non vorrei che ci fossero delle conseguenze gravi. Per esempio, delle proteste in piazza, uno sciopero. Sarebbe gravissimo, uno sciopero, bloccherebbe tutto, cantieri, fabbriche. Non possiamo fermare il progresso p-per… un incidente. Perché in fondo è stato solo un incidente. E poi, proprio adesso, che siamo in un momento così delicato per l'economia, che c'è bisogno di andare avanti, di costruire. Non crede?
- Questo è vero. Quindi, cosa propone?

Lo guarda di sottecchi, incoraggiato.

- Ecco, se lei fosse d'accordo, potremmo arrangiare la cosa in un altro modo.

Lancia un'occhiata rapida per spiare l'umore dell'altro, attento a cogliere una contrazione delle palpebre, un lampo di consenso negli occhi azzurri che lo fissano senza espressione. Si lecca le labbra nervosamente, prima di proseguire, poi prende fiato e continua spedito, mangiandosi le parole.

- Potremmo portarlo via, che ne so, sotto un ponte qualunque, penseranno che è caduto, dopotutto è caduto davvero, magari era ubriaco, questi bevono tutti, quando arrivano qui. Diamo quattro soldi alla vedova e tutto va a posto.

Il sergente ha voltato la testa di lato, sta in piedi immobile, lo squadra fisso con gli occhi ridotti a due fessure. L'altro si affretta a proseguire, chino in avanti, continuando ad alzare e abbassare gli occhi nervosi tra la divisa e le macerie ai suoi piedi.

- Certo, mi rendo conto che lei non ha tempo da perdere, ha già dovuto sprecarne anche troppo, è venuto fino qui per niente, so benissimo che con il suo lavoro è una persona molto occupata. Sarebbe un onore per me poter contribuire con un'offerta, non so, al Fondo per gli orfani, o a quello che vuole. Una grossa offerta. Così, nel caso, potrebbe spiegare anche ai suoi superiori…

I secondi sgocciolano lentamente sul brusio di sottofondo della folla che si allontana, accompagnata dagli agenti che ciondolano i manganelli con aria indolente.
Una mosca dispettosa si posa sulla striscia di sudore che cola dalla fronte del grassone, che la scaccia con un gesto nervoso, in attesa.
Alla fine il sergente apre la bocca e sputa in terra, la saliva scurisce la polvere davanti alle scarpe del capocantiere. I baffoni neri sembrano vibrare nell'aria secca, mentre si volta lentamente, il lucido delle grosse scarpe nere appena velato da uno strato impalpabile di polvere chiara. Fissando gli occhi in quelli dell'altro sibila a bassa voce:

- I miei superiori non vogliono certo essere disturbati per queste sciocchezze.

Poi, schiarendosi insistentemente la gola, alza il tono e prosegue:

- Ha qualcosa da bere, in ufficio? Con tutta questa polvere mi è venuta sete.
- Certo, sergente, certo, come no, venga!

Si piega ossequioso e fa per avviarsi verso la baracca, quando vede che l'altro non si è mosso. Il sergente si è reso conto solo ora di avere ancora in mano portafoglio e passaporto del morto. Il portafoglio non è di pelle, sembra di tela grossa, tutto macchiato e liso ai bordi. Gli dà un'occhiata distratta e apre il passaporto.
Aggrotta la fronte, contrariato, poi inizia a leggere, muovendo le labbra in silenzio, sillabando sotto i baffi che si muovono lentamente. Distoglie lo sguardo, disgustato.

- Che cazzo di nomi hanno questi.
- Ha ragione, sergente, nomi assurdi, pieni di lettere e di suoni strani, diversi dai nostri. Ma sono tutti strani, questi, mangiano schifezze che neanche si immagina. Dormono in dieci in una stanza, tutti insieme, i maiali. E fanno tutto, come gli animali, con i figli lì a sentire, magari anche nello stesso letto. E qualche volta anche peggio, mi capisce, non è che fanno grandi distinzioni, a chi tocca tocca...

L'altro alza gli occhi e lo guarda senza parlare.

- Davvero, fanno così, glielo giuro. Ho un amico che gli affitta qualche alloggio, giù vicino al porto, così, per fare un'opera buona, e li ha visti, come vivono. Dice che di notte è tutto un muovere, le molle del letto che cigolano, sospiri, lamenti. Poi ci credo che si moltiplicano come conigli. Scommetto che tra qualche anno saranno più di noi, questi. Quelli che stanno al governo sono troppo molli, gliele danni tutte vinte, ne lasciano passare troppi, glielo dico io.

Da sotto la visiera gli occhi del sergente si fanno più attenti, fissano l'altro che continua a parlare, sempre più concitato.

- Senza offesa, eh? Lo so che lei non fa altro che eseguire gli ordini. Sono sicuro che se al governo ci fosse gente come lei le cose andrebbero diversamente. Ma io sono pessimista. Vedrà, sergente, vedrà. Vuole scommettere? Guardi, le faccio una proposta. Facciamo così: una cena nel migliore ristorante, contro... una sigaretta, okay? Diciamo... vent'anni da oggi. Io sarò vecchio e in pensione, e lei magari sarà capitano, eh?

Un'occhiata per vedere se l'adulazione è andata a segno, poi prosegue con lo stesso tono untuoso.

- Oggi è il 5 aprile. Vent'anni esatti da oggi, ci ritroviamo e vediamo se ho avuto ragione, okay? E vedrà se questi stronzi non saranno più numerosi di noi. Se non facciamo qualcosa in fretta, ci metteranno sotto, quant'è vero Dio! Perché non sanno stare al loro posto, è questo il punto. Vengono qui, rubano, portano malattie, e sul lavoro bisogna insegnargli tutto perché non sono capaci di fare un cazzo. Finirà che ci fregheranno le donne, ci ruberanno il lavoro, e verrà anche il giorno che i nostri figli dovranno dirgli sissignore e nossignore, a questi. Vedrà.

Dietro, hanno portato una specie di barella di tela e stanno caricando il cadavere. Un braccio insanguinato penzola di lato, dondolando ai passi incerti degli uomini sulla superficie sconnessa delle macerie.
Il sergente, prima di muoversi verso il capocantiere che lo aspetta, lancia un'occhiata distratta al panorama. Strade piene di gente e di traffico, dappertutto cantieri e case in costruzione, sempre più fitte, sempre più alte. Sospira. È il progresso.
Laggiù, verso il mare, la statua con il braccio teso si staglia netta contro il cielo sottile, sembra indicare qualcosa in alto, tra le nuvole solenni che sfilacciano via.
Dà un ultimo sguardo al passaporto ancora aperto tra le dita, scrollando la testa. Prova a sillabare di nuovo, a bassa voce.

- SOL-VEI-TOU-RI IS-POU-SAI-TOU.

Legge la data del visto d'ingresso. Gennaio 1886, neanche tre mesi fa.
Poi il paese. Italia. Italy.

Mangiaspaghetti di merda.

 

- IL CAMPO -

Il dito. Il dito mignolo sulla piega zigrinata del metallo freddo, appena sotto l'orlo. Il pollice a reggere il peso e le altre dita ben larghe, a circondare e tenere in posizione. È un momento. Il clac dello scatto a vuoto gli dice che è ancora vivo.
Fatto, dice piano alzando il mento, e il sospiro di sollievo di Marc gli sembra di sentirlo, anche se è a cento metri.
Anche questa volta è andata. Alza lo sguardo e lo vede, Marc, in piedi dietro i sacchetti di sabbia, che gli fa segno con il pollice alto verso il cielo azzurrogrigio. Anche oggi la giornata ce la siamo guadagnata.
Solleva la mina ormai innocua nella mano, la soppesa nel palmo come un frutto, poi la infila nella borsa impolverata.
Si alza in piedi lentamente, gambe e spalle anchilosate per l'immobilità. Decide di tenere il casco, anche se comincia a dargli prurito sulla nuca. Raccoglie la busta con la mappa appesa al paletto col teschio e la sbatte sui pantaloni per ripulirla dalla polvere giallastra. Un piede dopo l'altro si avvia tra le strisce biancorosse che delimitano il campo.
Ci vuole una birra. Adesso sì.
È molto rigoroso, sul lavoro. Mai bere se il giorno dopo sei sul campo. Mai, se ci tieni alla pelle. Troppi, ne ha visti fare baldoria, whisky e birra e sigarette e donne fino a tardi. Gonfi e arroganti, i gomiti appoggiati al bancone nelle belle divise stirate, l'occhio teso a rastrellare le poche ragazze. E il giorno dopo sul campo. Finché va bene.
Ma viene sempre, il giorno che gli occhi bruciano per le poche ore di letto, e i bicchieri della notte si insinuano nel leggero tremore delle dita. In quel momento li maledicono, i bicchieri di troppo, e giurano che se stavolta va bene, a nanna con le galline, quando il giorno dopo c'è da lavorare. Ma se la sfangano davvero, alla sera eccoli lì. Già dimenticato tutto, paura e giuramenti, fino al mattino dopo e a quello dopo ancora. Fino alla volta che gli occhi bruciano nel momento sbagliato, che il tremore delle dita non è più così leggero.
Così, alla sera le divise sembrano ancora più nuove, quando le mani si alzano per il brindisi, davanti al posto vuoto. Parlano più forte, per coprire la voce che trema e lo schianto che non se ne vuole andare dalle orecchie. E lo guardano storto, perché lui non brinda, perché non ha una divisa come loro, perché guadagna in un mese quello che loro prendono in un giorno. Perché è diverso. Perché non lo fa per i soldi.
Se volesse, potrebbe averla anche lui una bella divisa stirata con lo stemma troppo colorato di qualche società con la sicurezza nel nome. Ponti d'oro, a uno con la sua esperienza. Corpi speciali, poi l'Africa, poi la Bosnia. Mica facile trovarlo, uno così.
Quello che proprio non riescono a capire è come ha fatto, con la sua storia, a finire lì, a scavare mine tra sassi e serpenti praticamente gratis, quando poteva fare i miliardi. Magari mettere su una bella società anche lui, e far lavorare gli altri. Rischi zero, e il conto in Svizzera che s'ingrassa come un vitello.

Lui se lo ricorda, come ha fatto. Il giorno esatto, e anche il nome. Perché ha un nome, quel giorno. Si chiama Maria. Si chiamava, per essere precisi. Il nome gliel'hanno detto dopo, naturalmente. Sul momento c'era solo l'odore del fumo e quel dolciastro che prende allo stomaco e ti chiude la gola. E la stoffa a fiorellini rosa sotto la massa informe rossastra sulla strada grigio lucido dell'alba. Si ricorda tutto, come una fotografia. La calzina un tempo bianca scivolata sulla caviglia. La fibbia arancione della scarpina. Il ginocchio sbucciato da una vecchia caduta. Più sopra no, non c'era più molto da ricordare.


Pensare che ne aveva visti tanti, non era certo la prima. Tante volte si è chiesto il perché, cos'è che ha fatto scattare la molla nella sua testa, proprio quella mattina. Anche a non voler contare i militari, c'erano stati i bambini della scuola in Africa e le donne dell'ospedale, quel vecchio col carretto, le ragazze al mercato. E troppi altri.
Invece niente. Fino a quel giorno niente. Una bella sbronza, magari una canna di quello buono, e la mattina dopo via come nuovo. Magari persino un salto in chiesa, la prima domenica disponibile, in piedi nell'odore di incenso a cercare di ricordare le preghiere, con i discorsi del cappellano così gonfi di onore e valore e patria e pace. Già, pace. Tutto da ridere.
Ma la bambina no. Lei era diversa. Non che la conoscesse, mai vista prima. Sarà stato il grembiulino, o quello che ne restava sotto la marmellata sanguinolenta. Il tessuto rosa pallido che aveva anche la sua sorellina, tanti anni fa, e come ne andava fiera, lisciandoselo con le mani mentre marciava impettita verso la chiesa. Ma la sua sorellina era cresciuta, il grembiulino regalato o divenuto straccio per la polvere, e lei aveva due figli, ora, un maschietto già grandicello e una femminuccia appena arrivata. Maria no, era ancora piccola. E ora di crescere aveva finito. Solo una macchia scura lavata dal selciato con la pompa da giardino.
Ecco, era cominciato così. Da quella mattina basta. Semplicemente, non ce l'aveva più fatta. Dopo il congedo, dopo la bottiglia e le giornate a guardare il soffitto crepato sopra il letto, aveva conosciuto Marc, per caso in un bar. Cercava lavoro, e gli è sembrato uno sberleffo al destino mettersi dall'altra parte, stavolta. A toglierle, le mine, per cambiare, invece di stare con quelli che le mettono. E in quattro anni ne aveva tolte un bel po'.
Aveva paura, certo. Ogni volta, aveva paura, però gli piaceva, lo faceva stare bene, dopo. L'avrebbe fatto anche senza i pochi dollari dell'associazione. Ma il rosa del grembiulino dopo quattro anni era appena un po' sbiadito.

Mentre pensava si è fermato, la cinghia di tela che gli pesa sulla spalla, i capelli appena mossi dalla brezza che viene dal fiume. Si stringe nelle spalle senza accorgersene, riaccende il cellulare, cerca nel taschino una sigaretta e si incammina tra i nastri biancorossi che ondeggiano piano. Il fumo azzurrino scivola via, lo guarda disperdersi nell'aria sottile. Fino a domani è finita.

La bambina avrà tre anni, forse meno, qui non si sa mai, con il poco che hanno da mangiare. Il vestitino di colore indefinibile è rattoppato in più punti e ha un nastro sbiadito tra i capelli scuri. La vede appena passata la curva, due o tre metri dentro il campo minato, accovacciata sui talloni, i piedini magri divaricati nei sandaletti da povera, a cercare tra i sassolini. Gli sembra di sentirla canterellare, nel silenzio immenso della pietraia, mentre sceglie i ciottoli con la concentrazione assoluta dei bambini.
Senza pensare. Un salto ed è dentro, la striscia biancorossa e i cartellini col teschio dalla parte sbagliata della schiena. Atterra pesante sugli scarponi impolverati a un metro e mezzo dalla bambina, ingobbendo per istinto la testa tra le spalle, gambe semi piegate, braccia larghe a cercare l'equilibrio. Solo quando sente il crac dei sassi sotto gli anfibi e il contraccolpo nella schiena si rende davvero conto e resta immobile. L'urlo strozzato di Marc gli trapassa i timpani.
In fondo al campo, sullo sfondo grigiastro delle prime case, c'è un vecchio che sembra il nonno ma deve essere il padre. Stringe in una mano la cavezza dell'asino, l'altra a tormentare i radi capelli come volesse strapparseli. Ha la barba grigia e gli occhi puntati aguzzi su di lui.
Distoglie lo sguardo dal vecchio e chiama la bambina davanti a lui, piano per non spaventarla. Le sorride. Si immagina la smorfia che deve venirgli fuori, un omone con il casco grigio e la visiera luccicante nel sole impietoso. L'unica speranza è che dovrebbe essere abituata alla sua presenza, sua e di quelli come lui. Ce ne sono ormai parecchi che girano, nella zona.
Infatti la piccola gli lancia un'occhiata distratta e torna a concentrarsi sui suoi sassolini, le caviglie magre che spuntano sotto la stoffa solleticata dal vento.
Deve trovare il modo di non farla muovere. Parlasse la sua lingua sarebbe più semplice, potrebbe metterla sul gioco. Le belle statuine, lo chiamavano, quando lui era piccolo, ma così, come si fa? Continua a parlare, a bassa voce, e intanto esplora con gli occhi il terreno, attento a non muovere di un centimetro i grossi scarponi gialli di polvere. Non sa come fare, e allora le parla in italiano, lentamente, il tono più dolce che riesce a trovare, quasi una cantilena.
Una cantilena, ma certo! Com'era quella… le civette… ecco! AMBARABÀCCÌCOCCÒ TRECIVETTESULCOMÒ… gli viene istintivo allargare le braccia, mentre parla, e gesticolare a ritmo. Ondeggia a destra e a sinistra sul tronco, il sorriso forzato e la testa che dondola di qua e di là. I fianchi oscillano appena, le gambe sono immobili nel panno impolverato, le mani aperte rivolte alla bambina. È riuscito ad attirare la sua attenzione. Ha lasciato cadere i ciottoli dalle manine sporche di terra e adesso lo guarda concentrata, un orco in tuta che muove le braccia come un matto.
Con la coda dell'occhio vede la tuta grigia e i capelli biondi di Marc che si avvicinano a passi misurati ma veloci sul sentiero stretto. Un soffio di j'suis là gli dice che è arrivato.
La bambina sta diventando irrequieta, la novità l'ha già stancata.
Quando si alza in piedi il NO strozzato di lui le ingrandisce gli occhi scuri e la blocca, le labbra semiaperte, incerta se lasciarsi andare al pianto. Sorridere, subito. Di più. La voce bassa e suadente, non deve spaventarsi. L'ondeggiare delle braccia di lui si fa frenetico, si mangia le parole della filastrocca che diventa un mantra incomprensibile. Gli viene l'idea di farle cenno di alzare le braccia, sempre muovendosi a tempo, la voce arrochita sull'AMBARABÀ… Tende le braccia in avanti, sempre cantando, sempre con l'improbabile sorriso tirato sulle labbra secche. Le mani con i palmi rivolti verso l'alto si tendono verso la piccola che ora imita il movimento dell'uomo, tendendo le braccine ossute verso le mani grandi di lui. È un attimo. Alza il piede nel sandaletto di corda. Mentre sta per appoggiarlo e fare un passo avanti lui riesce ad afferrarle i polsi e a tirarsela addosso di peso. Sente sul petto il contatto dello sterno magro. La stringe per non farla cadere, per un'eternità terribile oscilla all'indietro, il corpicino di lei è una piuma ma lo sforzo l'ha sbilanciato. Riesce a mantenere l'equilibrio piegando le ginocchia e allontanando per un momento la bambina dal corpo. Vede la paura negli occhi di lei. Il labbro inferiore le trema, sta per mettersi piangere. Le fa una rapida carezza sulla guancia biascicando parole che spera rassicuranti, se la sistema meglio in braccio e con una torsione secca del busto la scaglia con tutta la forza che riesce a trovare oltre il nastro di plastica, dove Marc attende, le braccia aperte e una smorfia tesa.
La bambina adesso piange, è scivolata dalle braccia di Marc e ha sbattuto un braccio sui sassi. Qualche stilla rossa le macchia il vestito. Guarda tra le lacrime il gomito sbucciato e quest'altro uomo che le tende le braccia.

Non sa come, è riuscito a mantenere fermi gli scarponi sulla terra gialla. Torcendo il collo all'indietro sibila a Marc un vas t'en vite ringhioso. Sente lo scricchiolio degli scarponi che si allontanano, quando è avanti nel sentiero lo vede. La bambina in braccio sembra una bambola, tende le braccine al padre che le corre incontro con la veste grigia che striscia per terra.

Sembra un secolo, ma saranno passati pochi minuti. L'orologio al polso sinistro dice quattro. Si rende conto di colpo di quanto ha rischiato. Si accorge del sudore sotto il casco e sul collo, del respiro accelerato, del battito violento del cuore.
E non è finita. Adesso il problema è uscire. Marc da lontano gli urla attends, ma non vuole aspettare, non vuole mettere di mezzo altri. Lui ci si è messo, lui deve venirne fuori. Gli fa cenno di no con la mano, di restare dov'è.
Si guarda intorno, muovendo la testa e il tronco con cautela, i piedi sempre immobili. Sembra tutto a posto, almeno in superficie. Come se contasse qualcosa. Chissà cosa c'è, qualche centimetro sotto i sassi scottati, sotto la polvere giallastra che ricopre tutto.
Poi vede la mina. Dietro uno dei rari cespugli, seminascosta dalle foglie e da un asse di legno tarlato probabilmente messo apposta come esca. Gli spuntoni che fuoriescono dal cilindro color terra si mimetizzano dietro i rami. Sembra un grosso sasso, come ce ne sono tanti nella pietraia spaccata dal sole. Avrà sette o otto anni. Sono longeve, le mine. Brevetto italiano, ottimo prodotto, molto efficiente. Maledizione.
Vabbe', l'ha vista. A questo punto è improbabile che ce ne sia un'altra proprio lì vicino. Però non è detto, ha imparato che con le mine può succedere qualsiasi cosa. E poi non è con il calcolo delle probabilità che ti salvi la pelle.
Mentre osserva la mina in agguato, proprio di fronte nota un leggero movimento, come un brivido d'aria tra le punte e il terreno, un riflesso chiaro. Un filo. C'è un filo che va dalla mina a un sasso quasi dietro di lui, sul bordo del sentiero bordato dal nastro.
Lentamente, molto lentamente si piega sulle ginocchia e si appoggia sui talloni, attento a non spostare gli scarponi pesanti e a non toccare il terreno con le braccia. Un altro filo. E un altro. Si dipartono dal metallo brunastro e si perdono tra i sassi. Si accorge con un brivido che uno dei fili gli oscilla lievemente tra le caviglie. Se non si fosse abbassato non l'avrebbe visto. Saltando nel campo ci è finito proprio in mezzo, come una mosca nella ragnatela. Dieci centimetri più in là e addio. Sente il sudore scendergli sulla schiena, inzuppargli la camicia. È in trappola, una trappola coi fiocchi. Se si muove, bum.
Pensa alla distanza che doveva esserci tra i sandaletti della bambina e il filo quando l'ha alzata da terra e l'ha lanciata a Marc. Potevano lasciarci le penne tutti e tre. O una gamba, o qualcos'altro.

Guarda di nuovo la mina. È proprio davanti al piccolo spiazzo dove stava la bambina, non più di settanta centimetri, appena un po' spostata sulla destra del cespuglio. Va bene. Manteniamo la calma. Dopo tutto è il tuo lavoro, no?
Un lampo freddo gli ghiaccia la fronte. La borsa. L'ha lasciata sul sentiero. Non ha attrezzi, niente di niente. Basterebbe un pezzetto di fil di ferro, una forcina per capelli, maledizione!
Si fruga con metodo nelle tasche dei pantaloni, nel taschino della camicia zuppa di sudore, muovendo le braccia lentamente, senza sbilanciare il corpo. Sigarette. Accendino. Telefono. Portafoglio. Niente, cazzo! Spinge le dita più in fondo alle tasche della tuta. Fazzoletti di carta. Una caramella. Nel taschino sinistro qualcosa che punge. Infila tutta la mano, sente la consistenza sottile, lo scivolare del metallo tra i polpastrelli. Afferra tra pollice e indice. Una clips, di quelle grandi da ufficio. Il sollievo è una vampata che sale dal collo a incendiargli le orecchie. Adesso forse si può fare.
Per prima cosa la spezza in due, piegandola più volte, attento a non farsela sgusciare di mano. Tra i sassi e la polvere non sarebbe facile ritrovarla. Ecco. Tenendole tra i denti, piega prima una e poi l'altra metà a formare una sorta di uncino. Ora gli attrezzi ci sono. Speriamo bene.
Per disinnescare una mina come questa bisognerebbe stendersi per terra davanti a lei, è la posizione migliore. Quando sei lì, i gomiti ben ancorati a terra e la punta degli scarponi che raschia il terreno, la mina è enorme, davanti ai tuoi occhi. Copre l'orizzonte, oscura anche il sole. È l'unica cosa che puoi vedere, lungo sdraiato in terra col naso a venti centimetri dalla fine. Però lui non può sdraiarsi, con quella ragnatela mortale che lo circonda.
Prima di cominciare si guarda intorno, uno sguardo circolare lento ad abbracciare quel poco di panorama. Le case grigie in fondo al sentiero, dove il vecchio è ancora fermo in piedi vicino all'asino, con la bambina in braccio. Le montagne scure laggiù, dove tra qualche ora tramonterà il sole. Chissà se lo vedrà, il tramonto. No, scacciare il pensiero. Marc, piuttosto, dietro ai sacchetti di sabbia, col binocolo in mano. Grande esperienza, Marc. Ha capito e sa che non può fare nulla, per ora. Sente lo sguardo amico carezzarlo dietro il riflesso delle lenti che si accendono al sole. Il vento per fortuna si è calmato, in quelle condizioni basterebbe un soffio per muovere un rametto del cespuglio e farlo finire su uno dei fili. Strano che sia così allo scoperto, però, la mina. Probabilmente la pioggia e il vento. Abbastanza forte da portar via la terra che circondava il cilindro, ma non abbastanza da spostare i rami? Boh. Magari il cespuglio è cresciuto dopo, chissà.
L'unico modo è accovacciarsi di nuovo, senza muovere troppo il corpo, soprattutto senza spostare i piedi. Le ginocchia si piegano adagio, attente a non sfiorare il filo chiaro che oscilla pigramente nell'aria calda che sale dalle pietre. Si appoggia sui talloni, cerca bene l'equilibrio prima di spostare lentamente le braccia in avanti.
I ferretti sono sottili tra le dita. Muove le braccia adagio, gomiti leggermente piegati, pollici e indici bianchi per la stretta e la paura di perdere la presa. È difficile. Deve piegarsi in avanti e per farlo deve alzare i talloni, ma soltanto un poco, altrimenti rischia di perdere l'equilibrio. E tenere la gambe ben allargate per non toccare il filo in mezzo. Cerca di assestarsi con le suole spesse nel terreno, ma è duro e non riesce ad affondare come vorrebbe. Porta avanti entrambe le mani insieme, allungando il collo per cercare.
Tre millimetri per non morire. Due forellini di tre millimetri, uno da una parte e uno dall'altra. Eccoli. Deve piegare il collo e spostare la testa di qua e di là, lentamente, per vederli entrambi. Uno sembra ostruito dal terriccio. Se è così…
Niente se. Andare avanti e verificare.
Avanti piano.
Adesso è come essere ciechi, gli occhi non servono, servono le dita. E mani ferme. Basta un tremito o uno starnuto, e bum. Pollice e indice sono a due o tre centimetri dal foro, un braccio bilancia l'altro ai lati del cilindro scuro. La schiena è tesa, i muscoli del collo cominciano a fargli male nello sforzo di tenere la posizione.
Ancora avanti.
Calma, non può fare errori. La mina non fa errori, aspetta che li faccia tu. È molto paziente, la mina. Lei non ha niente da fare, nessuna fretta. Tanto lo sa, che prima o poi arriverai. E se non tu, qualcun altro. Per lei è lo stesso.
Muove delicatamente pollice e indice per aumentare la sensibilità dei polpastrelli, fa ruotare leggermente il ferretto sulla pelle. È il momento di entrare. Piano. Un millimetro per volta. Meno. Una frazione. Eccola lì, la fessura, il nero che spicca sul bruno sporco del metallo. Avanti piano.
Piano.
La punta di ferro ormai è davanti al foro. Entrata. Adesso deve cercare a tentoni, insinuarsi e trovare la strada, vedere e sentire con le dita, spingere adagio fino all'altro foro, fino…
Qualcosa di nero si muove tra i sassi a sinistra, all'altezza del suo polso. Venti, venticinque centimetri. Lo scatto della testa è istintivo, ma riesce a mantenere fermo il braccio. Solo uno scarabeo. Uno scorpione sarebbe stato peggio, però intanto si è distratto. Il movimento è stato minimo ma gli ha fatto perdere la concentrazione. Guarda allarmato il pezzetto di metallo, ma non è successo nulla. È riuscito a non farlo uscire dal foro, la punta grigia è ancora dentro. Ora il ferro è caldo tra le dita, il sole scotta. Lo sposta in avanti adagio, senza forzare. Potrebbe chiudere gli occhi, sono le dita che lo guidano, ma fissa lo sguardo sulla superficie liscia del metallo. Sul filo annodato a uno degli spuntoni. Ha le altre dita sollevate, soltanto pollice e indice stretti sul ferro. Accarezza il metallo col metallo, trova la via. Una spinta leggera ma decisa.
Clac.
Fatto. E uno.

Si accorge di essere coperto di sudore. Le braccia costrette per tanto tempo in avanti iniziano a fargli male. Ha bisogno di riposare, prima di attaccare l'altro foro. Bilancia il peso del corpo spostandolo sui talloni.
Ferma.
Si alza lentamente in piedi e porta le braccia lungo i fianchi, aprendo e chiudendo le mani, ruotando i polsi e le dita in una caricatura di saluto perché non perdano sensibilità.
Marc laggiù continua a sorvegliarlo, gli fa segno col braccio. Risponde a mano aperta, un arco che scende piano fino alla stoffa ruvida della gamba. Accanto al vecchio con la bambina ora ci sono altre persone. Anche i suoi colleghi. Non si stupirebbe se facessero scommesse. Chissà a quanto lo danno.
Riporta lo sguardo vicino, al cespuglio e alla mina in attesa davanti ai suoi piedi. È ora. Muove dolcemente le gambe, piegando leggermente le ginocchia in un guardingo surplace, su e giù, i piedi sempre fermi. Contrae e rilascia i muscoli più volte. Mancherebbe proprio un crampo, a questo punto. Si piega sui talloni come prima, trova di nuovo l'equilibrio per portare in avanti le braccia. È in posizione.
Coraggio, metà è fatta.
Ferretto tra le dita, l'altro braccio alzato a bilanciare. La fessura è lì davanti, un grumo di terra che la ostruisce in parte. Aveva visto bene. Deve cercare di togliere almeno un po' del terriccio per entrare, sperando che dentro sia pulita. Solo il pensiero lo fa rabbrividire.
Quando esplodono, le mine formano un cono rovesciato, dal basso verso l'alto, tranciando via quello che trovano. Se scoppia adesso gli porta via la testa di netto. Meglio così, forse. Non sa se ce l'avrebbe, lui, il coraggio di quelli che ha visto qui, sopravvivere senza una gamba o un braccio, o tutti e due, magari ciechi. Quasi tutti bambini, e riescono anche a sorridere e tornare a giocare. Li ha visti lui, con questi occhi. Amputati che giocano a pallone con la protesi. Incredibile. Se lo è chiesto tante volte, come fanno.
E l'altra cosa che si è sempre chiesto, da quando ha cambiato mestiere, ma anche da prima. Come si fa a progettare una cosa del genere. Che stomaco ci vuole a ideare una cosa che deve esplodere a mezza altezza, suppergiù la metà di un bambino, se non è troppo alto. Con la forma e il colore di qualcosa che potrebbe essere un giocattolo, magari. O grigia per confondersi con i sassi piatti del fiume che i bambini fanno rimbalzare sull'acqua scura. Abbastanza delicata da esplodere con una pressione di venti o trenta chili, guarda caso. Qualche volta abbastanza potente da tagliarti in due, se sei vicino, più spesso pensata per renderti invalido. Molto più conveniente, per la guerra.
La guerra ai bambini.
Non è il momento, non deve pensare a questo. Non deve pensare. Solo concentrarsi, adesso. Bilancia tra i polpastrelli il piccolo pezzo di metallo, lo avvicina alla fenditura. Forse meglio dall'alto, così sfrutta la gravità e rischia meno. Deve riuscire a togliere la terra senza toccare il metallo. Il filo di ferro scende lentamente, si avvicina alla piccola protuberanza che ottura il foro. Si passa nervosamente la lingua sulle labbra secche. Ha la gola riarsa dalla sete e dalla tensione. Il ferro è quasi a contatto con il terriccio, basta un piccolo tocco.
Lo squillo assordante lo fa sobbalzare. Il panico lo invade tra le note di Vivaldi che si spargono assurde sulla pietraia. Il filo di ferro slitta sul metallo, scarta verso il basso a toccare il corpo della mina. Per un momento è terrore puro, il cuore impazzisce.
Il telefono.
L'aveva riacceso prima della bambina, e poi è andata come è andata.
La Primavera continua a scivolare via, improbabile tra i sassi scuri. Poi di colpo smette, e il silenzio è così spesso che sembra di poterlo toccare.
Solo mentre sente il sibilo del respiro liberato si rende conto che lo scatto involontario provocato dalla suoneria non è stato sufficiente a far scattare il detonatore. Qui non c'entra l'esperienza. Questo è culo. Bastava poco, un millimetro, forse uno e mezzo. Se suonava due minuti prima, mentre stava infilando il ferretto nell'altro foro…
Chiude gli occhi per calmare il cuore e il rombo che gli riempie le orecchie, ma li riapre subito per non perdere di vista le dita.
Il sudore gli scende in rivoli sulla fronte, si infila rovente negli occhi. Chiude e riapre le palpebre più volte, con forza, aspetta che sudore e lacrime si diradino e la vista gli si schiarisca.
Il terriccio nella fessura non c'è più. Il sussulto di prima è bastato per farlo cadere, resta soltanto un po' di polvere. Gonfia le guance e con un soffio la superficie vicino al foro è pulita.
Coraggio, l'ultima fatica. Cinque minuti ed è tutto finito.
Il filo di ferro è saldo tra le sue dita, come se il rischio l'avesse rinfrancato. Stavolta è un movimento fluido, senza interruzioni. Alza la mano e con gesto sicuro entra nella fenditura. Un secondo per trovare la strada senza vedere, la vita affidata ai polpastrelli sudati.
Clac.
Finito. Ce l'ha fatta.

Si alza in piedi e finalmente può muoversi un poco, sgranchirsi le gambe anchilosate dall'immobilità forzata. Gli scarponi hanno lasciato un'impronta netta, anche se il terreno è duro. Sullo scuro si stagliano chiaramente le linee regolari della gomma e l'ovale del marchio. Raccoglie chinandosi la mina inoffensiva, strappando via i fili. Adesso può andare. Quella birra lo aspetta ancora. Dal villaggio sente un vociare intenso. Marc si sta sbracciando, saltella di qua e di là. Anche il vecchio fa ballare in braccio la bambina, la piccola folla dietro saluta festosa. Lassù in alto, un falco scivola in cerchi concentrici tra le cime grigie.
Ecco Marc e gli altri che arrivano. Hanno degli assi di legno tra le mani. Uno ha una specie di sedia. No, uno sgabello. In un minuto gli lanciano lo sgabello e lui lo pianta nel punto esatto dov'era la mina. Poi appoggiano l'asse al sicuro sul sentiero e lo inclinano lentamente, passandoglielo. C'è un sacco di gente, intorno, anche se veramente sarebbe vietato, per la loro incolumità. Mezzo villaggio, è arrivato, e anche qualcuno degli sminatori, l'inevitabile lattina in mano. Marc urla a tutti di allontanarsi, ma non ci fanno molto caso. In fondo però gli fa piacere. Anche se è sempre stato un orso, stasera non gli dispiacerà un po' di compagnia. Sa che dovrà raccontare tutto mille volte, che col tempo la mina diventeranno dieci mine, e la bambina cinque, o magari una donna bellissima che poi lo avrà ricompensato come si deve.

L'asse è a posto. Con un ultimo sguardo al cespuglio dove ha rischiato di restare, accende una sigaretta e si incammina sul legno verso il nastro biancorosso, soffiando in alto il fumo. Marc gli sorride oltre la plastica colorata. Uno degli altri gli porge una lattina.
Il crac giunge inaspettato. Sotto il suo peso lo sgabello si è infossato nel terreno, dove solo una crosta sottile ricopriva la buca. Una delle vecchie gambe cede e l'asse si inclina. Allarga istintivamente le braccia, in una mano la sigaretta, nell'altra ancora la mina, ma non riesce a mantenere l'equilibrio. Mentre sta posando il piede lo vede, il bottone di plastica nero che lo guarda cattivo in mezzo alle pietre. Tenta uno scarto disperato, ma è troppo tardi. No, cazzo! fa in tempo a pensare. Che vuol dire così non vale, come fanno i bambini. E poi non adesso, non così. Per favore.
Lo sgomenta l'enormità dell'ingiustizia. Ha ancora tante cose da pensare, Marc che lo aspetta e quella birra e il libro da finire e l'ultima sigaretta prima di addormentarsi e il tramonto, ma non c'è più tempo.
Con l'ultimo lampo qualcosa riesce a vedere: laggiù nel sole di marzo sembra proprio Maria la bambina che saluta dietro la palma. Non ha il grembiule rosa e le calzine giù, ma la manina che sventola è uguale, anche se non l'ha mai vista. Sicuramente era così.

 

- L'ELEGANZA DEL LUPO -

Seduto in terra, la schiena appoggiata allo scaffale, si gratta con furia la pelle delicata del braccio, dove il tatuaggio gli prude. Le unghie squadrate raschiano i numeri sbiaditi che gli hanno salvato la vita mentre cerca di controllare il battito accelerato del cuore.
Se lo ricorda ancora, il freddo di gennaio nella baracca comando. L'Armata Rossa stava per arrivare e qualcuno aveva cominciato a darsela a gambe, un giorno uno, un giorno altri due. Lui no, lui aveva un piano.
La paura si respirava nell'aria, tra i camerati, anche quelli con la doppia s sul bavero, così duri e spocchiosi ancora tre o quattro settimane prima. Una paura spessa come una zuppa che si condensava nel fiato prima di evaporare in alto tra i reticolati e i legni marci delle baracche. Anche il modo di camminare, era cambiato, adesso si voltavano indietro tutti ogni tre o quattro passi, girando la testa di qua e di là come grossi uccelli neri, e la voglia di parlare se n'era andata con l'ultimo dispaccio di Himmler: bruciare tutto, far saltare tutto, fare terra bruciata.
In realtà i forni hanno funzionato fino quasi alla fine, anche se non c'erano più stati arrivi. Per smaltire le rimanenze. Non si lascia un lavoro a metà, e al diavolo gli ordini di Himmler, lui era rintanato da qualche parte a Berlino, non c'era, lì, con mille occhi schifosi che ti scivolavano addosso quando non guardavi e quelle dita scheletriche che potevano alzarsi a indicarti al nemico.
L'efficienza burocratica si è un po' appannata, nell'ultimo periodo, per gli ultimi arrivati era registrato solo l'arrivo, poi più niente, ma lui li aveva seguiti uno per uno, sapeva bene com'era andata. Era molto giovane, ma non era uno stupido.
Quando ha capito che era davvero finita, è andato in ufficio a frugare tra i registri, ha scelto un nome tra quelli degli ultimi giorni, già passati per i forni, così c'era la scheda di entrata e basta. Ha posticipato la data, altrimenti il suo peso e le sue condizioni generali non sarebbero state plausibili, in confronto agli scheletri che si trascinavano nel campo.
Ha scelto uno con il suo stesso nome, così è stato più facile abituarsi: Karl, proprio come Marx. Quanto l'avevano preso in giro, i camerati, a suo tempo. A un certo punto si era persino informato sulla possibilità di farselo cambiare con un più ariano e meno sospetto, Heinrich, per esempio, o addirittura Adolf, poi ha lasciato perdere. Non era così importante.
Questo Karl era austriaco, di un paese del Tirolo vicino al confine con l'Italia, lì parlano tedesco da tutte e due le parti, è stato tutto più semplice. Lui in Italia c'era stato una volta sola, proprio da quelle parti, e non si era neanche accorto di essere fuori del Reich.
Quando ha sentito i tank si è infilato nella prima baracca, quella più vicina, ha appoggiato la coperta sulla faccia agli ultimi due, che lo hanno guardato fino all'ultimo senza capire, non si sono neanche dibattuti molto, erano troppo deboli. Poi si è steso su una branda e ha aspettato. Erano quattro giorni che non si lavava e praticamente non mangiava, non che ci fosse molto di più delle solite patate, ma sempre meglio di quello che avevano loro. Così al momento buono si è infilato gli stracci di un morto, e i pidocchi e le occhiaie hanno fatto il resto. Per fortuna, di natura non è mai stato grasso: avesse dovuto farlo il comandante, quel giochino, sarebbe stata dura. Anche quando l'ha visto che dondolava dalla forca, là in mezzo allo spiazzo sotto l'asta della bandiera, dopo che l'avevano pescato sulla strada del villaggio travestito da contadino, era ancora grasso da far schifo.
Il momento pericoloso è stato quando sono entrati, mitra in mano e nervi tesi. Ha aspettato che abituassero gli occhi alla penombra e scoprissero i corpi dei due, prima di muoversi. Ha tirato fuori un filo di voce roca chiedendo acqua e quelli hanno messo via il mitra e gliel'hanno data, acqua gelata dalla borraccia militare. Ha ringraziato mille volte, gli ha preso le mani e le voleva baciare, così si sono imbarazzati e non l'hanno guardato troppo attentamente. Ha fatto in modo di vomitare di continuo, e anche se non aveva ferite visibili l'hanno evacuato tra i primi, con quelli che non riuscivano a muoversi. Naturalmente lui non capiva il russo, ma quelli indicavano lo stomaco, forse pensavano a qualche lesione interna.
Dal telone del camion, l'ultima cosa che ha visto del campo è stato il corpaccione del comandante ciondolare svogliatamente in un cerchio di straccioni che si stringeva a passetti strascicati. Poi ha chiuso gli occhi e si è addormentato, cullato dagli sballottamenti.
Ha fatto tutto il viaggio rannicchiato su un fianco, con uno straccio avvolto intorno alla testa e davanti alla bocca, non poteva correre il rischio che qualcuno lo riconoscesse, ma è andato tutto liscio. Qualche gemito al momento giusto, tanta faccia tosta e la confusione degli ultimi giorni. Alla prima sosta, è scivolato giù dal camion, ha camminato un po' ed è passato con gli alleati. Meno di due settimane dopo, passabilmente ripulito, con un vestito liso e troppo largo ma dignitoso, era in Italia e cominciava un'altra vita. Sessant'anni fa.
Aveva solo sedici anni, la guardia più giovane del campo, alla fine prendevano anche i bambini. Era già andata di lusso che non l'avessero spedito al fronte, un colpo di fortuna o la svista di qualche burocrate.

Sono stati anni facili, tutto sommato. Nessuno si stupiva che un ebreo scampato ai forni volesse starsene da solo, nessuno se la prendeva se non aveva voglia di partecipare alle cerimonie e alle commemorazioni. All'inizio ha avuto un po' di paura. Non per i parenti, quelli rimasti vivi erano arrivati al campo tutti insieme e li ha controllati lui personalmente: una striscia di fumo dal camino del terzo lotto e tutto risolto. Il problema erano gli amici, i conoscenti, gente che Karl poteva averlo conosciuto "prima", non si poteva spiegare tutto con la denutrizione e i maltrattamenti. Infatti avrebbe voluto proseguire per il sud, Campania a Calabria, magari la costa sud della Sicilia, ma non c'è stato verso, è finito in un gruppo di ebrei sud-tirolesi ed è stato praticamente costretto a fermarsi. Andarsene avrebbe creato domande, dubbi, e attirare l'attenzione era l'ultima cosa che voleva. Comunque, era già dall'altra parte del confine, e andava bene così.
All'inizio ha accarezzato per un po' l'idea di sparire di colpo e andare in Sud America, dove tanti altri suoi ex-commilitoni si sono rifugiati, poi ha lasciato perdere. È prevalsa la pigrizia, e anche il gusto della sfida. Gli dà un piacere sottile e perverso nascondersi proprio nella tana degli agnelli, ancora oggi ha un brivido, quando guarda le facce semite tutto intorno, tutti i Cohen e i Levi che mai immaginerebbero la sua vera identità. Un godimento rinnovato ogni giorno che si avvicina a quello sessuale, la prova provata della sua superiorità di ariano che ha saputo farsi agnello per ingannare quelli che potrebbero perderlo. E non è solo astuzia, o coraggio, c'è qualcosa di più. Eleganza. Ecco, l'eleganza del lupo.

Dopo il primissimo periodo in cui è stato molto chiuso in casa e ogni volta che sentiva chiamare il suo nome aveva un tuffo al cuore, si è adattato bene. Dai documenti del campo risultava che il vero Karl era stato uno studente piuttosto svogliato, nessun titolo di studio superiore, così non è stato costretto a fingere competenze che non aveva in chissà quale campo. Ha cominciato per caso quello che è poi diventato il suo lavoro per quasi cinquant'anni: riparazioni di elettrodomestici. All'inizio quasi soltanto radio, più avanti frullatori, lavatrici, televisori.
È andata bene. Specialmente nel dopoguerra soldi ne giravano pochi, quando qualcosa si rompeva uno che sapeva aggiustarla a prezzi onesti era prezioso. Così si è fatto una clientela affezionata che si è allargata poco a poco, con il passaparola. Nel giro di qualche anno, ha potuto ingrandire il negozio, ha assunto due commessi ebrei e si è fatto crescere una barba lussureggiante che col tempo si è fatta grigia e poi bianca. A volte se la rideva da solo guardandosi allo specchio: era diventato un vero ebreo.
I guadagni non sono mai stati eccezionali, però sufficienti per campare dignitosamente, togliendosi anche qualche sfizietto in accoglienti bordelli oltre confine dove nessuno lo conosceva. Soprattutto da quando in un breve viaggio in Svizzera un gioielliere molto discreto era stato molto lieto di riciclare e fondere il mucchietto di denti d'oro che aveva avuto l'accortezza di accumulare e nascondere a tempo debito, insieme a qualche bella pietra, sottraendolo alla voracità del comandante. Era stato una giovane guardia molto intraprendente e molto svelta, al campo. Non si è mai sposato, nonostante le occhiate insistenti e gli accenni piuttosto espliciti di qualcuna di queste puttanelle ebree. Un'unica parvenza di storia platonica con una parente del rabbino è stata sufficiente a fargli capire che le complicazioni sarebbero state enormi e pericolose. Si è rifugiato dietro l'alibi del passato e ha lasciato cadere sapienti allusioni ai postumi devastanti delle torture subite, che avrebbero compromesso la sua virilità. Nessuna si è più fatta avanti, per un po' ha colto cenni e occhiate di striscio dietro la usa schiena, poi tutto è scivolato tranquillamente nel nulla.
Col tempo è diventato proprietario di un piccolo bar e di tre alloggetti nella zona della stazione, che amministrati oculatamente gli hanno tolto ogni preoccupazione per la vecchiaia. Almeno fino a stasera.

Il flusso dei ricordi si interrompe quando sente i passi pesanti dietro la pesante porta di metallo. Che ironia, l'aveva fatta piazzare per tenere lontani i ladri dalle sue bottiglie migliori, e adesso è diventata la sua cella. Elegante, pulita, a temperatura costante.
Se mi lascia chiuso qui certo non morirò di sete, se mai ubriaco, magari di barolo del '61.
La porta si apre in silenzio, ha cura di oliare i cardini due volte l'anno. La faccia del tipo è come se la ricorda: grassa, rotonda e stupida. Dalla soglia lo guarda ghignando e gli mostra qualcosa con una mano massiccia dove la svastica si staglia netta sulla pelle: il portafoglio dove teneva un po' di liquido per ogni evenienza. Poca roba, duemila euro, ma per questo bifolco devono essere una fortuna.

<<Alzati, ebreo!>>

Che fantasia, questo stronzo. Non ha neanche pensato perquisirlo, il coglione, dopo tutto lui è solo un vecchio ebreo che ha vissuto già troppo a lungo. Neanche il cellulare, gli ha preso. Speriamo che non gli venga in mente ora. Non fosse che in cantina non c'è campo, avrebbe potuto risolvere la faccenda molto più in fretta, e in modo più pulito: 113, sirene, una breve colluttazione e poi lo sdegno e l'ammirazione della Comunità per il vecchio ebreo oltraggiato e coraggioso. Ma ci si può arrivare ugualmente, ci vuole solo un po' di sangue freddo e di pazienza.

<<Vieni di sopra, devi aprire la cassaforte>>

Il cuore fa una capriola improvvisa.
L'ha trovata davvero o bluffa? Se l'ha trovata è un guaio grosso, questa non ci voleva proprio. Attraverso le carte può risalire alla Svizzera, al conto e al gioielliere. Che idiota a non aver bruciato tutto. Una debolezza che rischia di pagare cara. Adesso sì che è nervoso, comincia anche a sudare, ma non deve farlo vedere, deve sforzarsi di restare calmo, o rischia di perdere in un minuto tutto quello che ha costruito in tanti anni.
L'altro lo afferra cattivo per un braccio e lo spinge avanti, facendolo sbattere contro lo stipite della porta. Un colpo secco, duro. Il cellulare, cazzo, proprio lì, dovevo sbattere, speriamo che non si sia rotto.
Sale le scale lentamente anche se potrebbe farle di corsa, due sedute di palestra alla settimana servono a qualcosa. Si aggrappa al mancorrente con la mano ad artiglio, stringendo forte e cercando di far tremare il braccio in modo che il tipo se ne accorga. Deve credere di avere di fronte un vecchio innocuo. Può essere l'ultima partita della sua vita e deve giocarsela bene. La voce è incerta e fragile, quando dice che deve andare in bagno, <<per piacere>>, poi gli aprirà la cassaforte. L'altro ride e dice <<ma è proprio in bagno che stiamo andando, te l'ho detto che l'ho trovata, la cassaforte>>, lo strattona trascinandolo avanti verso il soggiorno dove tutto è sottosopra, cassetti rovesciati sul pavimento, quadri spostati.
Cazzo, l'ha trovata davvero.
Il bagno è lungo e stretto, un mobiletto bianco con lavabo e specchio, bidet e wc, il piatto doccia in un angolo. Lo specchio è scostato dal muro, dietro si intravede il grigio della cassaforte.

<<Muoviti, ebreo, la combinazione>>

<<Ma non la so a memoria, alla mia età... ce l'ho scritta, ogni volta devo andare a vedere>>

Non lo lascia terminare,lo schiaffo lo raggiunge tra la guancia e il collo. Ha mani pesanti, il colpo gli fa girare la testa, deve aggrapparsi al lavabo per non cadere. Una mano che è una tenaglia lo piazza davanti allo sportello chiuso, il tipo ringhia <<Ti ho detto muoviti>>.
Non c'è niente da fare. Recita ancora un po', appoggiandosi con la schiena alle piastrelle fredde, si passa la mano sulla fronte sudata e questa volta non deve fingere, per farla tremare. Dice con un filo di voce <<Mi pare... adesso provo...>>

<<Ecco, bravo, prova, che ti risparmi un sacco di guai>>

Quando lo sportello si apre, l'uomo lo spinge di lato facendolo sbattere contro il termosifone e infila dentro le manacce pelose, comincia a frugare e a gettare in terra carte su carte. Lui si rialza a fatica, sempre tenendolo d'occhio allunga lentamente la mano dietro le colonnine di ghisa, annaspa tra la povere finché le dita si stringono intorno a quello che cerca. Senza perdere di vista l'altro afferra la piccola rivoltella e la infila in tasca.

Il tipo si volta bestemmiando con dei fogli di carta in mano e ringhia: <<Non c'è un cazzo, qui, dimmi dove sono i soldi, ebreo di merda>> e con uno scatto secco nella mano gli compare un coltello dalla lama aguzza e lucida.
Con un gesto rapido, lui prende la rivoltella dalla tasca, toglie la sicura e la punta verso l'altro che si blocca subito.
È un'arma minuscola, gli sta tutta nel palmo della mano, ma fa dei bei buchini graziosi e soprattutto letali.
Lo scimmione fa per muoversi ma un lieve spostamento dell'arma lo dissuade subito. Non è stupido fino a questo punto. La fronte gli si corruga nello sforzo di pensare, mentre mantiene gli occhi fissi al forellino nero puntato sul suo stomaco.

<<Ma checcazzo...>>

È l'ultima cosa che dice. Mentre nell'aria si diffonde il puzzo della cordite, scivola in avanti e cade a incastrarsi tra il mobiletto e la doccia. Il colpo è risuonato fortissimo, nel piccolo ambiente, gli ronzano le orecchie.
Da fuori possono aver sentito, meglio sbrigarsi.
Si guarda intorno e pensa a cosa fare. Adesso che è tutto finito, quello che prova non è paura, è rabbia.
Questo idiota di camerata della domenica.
Lui ha rischiato di trovarsi una spanna d'acciaio nello stomaco, ma ora più che spaventato è quasi offeso.
Tutti questi anni, tutta questa fatica, a rischio di finire nel cesso per un idiota che se va bene del Fuhrer conosce sì e no il nome.
Mentre raccoglie le carte sparse e pensa a dove nasconderle, guarda il corpo riverso e comincia a ridacchiare. Si volta verso il corpo e gli parla, tra una risatina e l'altra.

<<Povero coglione. Credevi di far fuori un ebreo e hai beccato un nazista. Che ironia, se mi ammazzavi. La guardia più giovane del campo, che ti credevi, più di tremila ebrei passati tra le mie mani, e dovevo finire fatto fuori da uno di questi pagliacci buoni solo a rovesciare macchine e alzare il braccio urlando Sieg Heil con il fiato puzzolente di birra.>>
Lo guarda e comincia a ridere, prima sottovoce poi sempre più istericamente, non riesce a smettere, appoggia la mano allo stomaco cercando di controllarsi, finché la risata si trasforma in una tosse convulsa che lo scuote e poco a poco si calma.
Calma, adesso, riflettere. Bisogna chiamare la polizia, fare un po' di scena, recitare bene, magari un piccolo malore per farsi portare al pronto soccorso...
Il suono del campanello lo fa sobbalzare. Si guarda intorno rapidamente, ha raccolto tutto, ficca le carte alla rinfusa nel mobiletto, posa la rivoltella e va ad aprire.
L'uomo sulla porta è alto e grasso, pochi capelli sopra le tempie e basta. Porta degli occhiali di metallo e un impermeabile chiaro sopra un grembiule bianco sporco di sangue. Isaac, il macellaio kasher.
Che fortuna! Proprio quello che ci voleva.
Tira fuori la voce più tremolante che trova.

<< Isaac! Meno male che sei arrivato tu, è successa una cosa terribile, vieni>>

Rientra in casa e lo precede fino al bagno, dove il bestione sembra occupare tutto il pavimento. Sotto al corpo si sta allargando una macchia rosso vivo.
Si volta. Isaac è sulla soglia del bagno ma non guarda il cadavere, guarda lui, uno sguardo fisso, strano.
Che ha questo. C'è qualcosa che non va. Bisogna che gli spieghi.

<<Mi ha rapinato, voleva uccidermi, è un nazista, io...>>

Senza spostare gli occhi Isaac dice <<Ho sentito tutto, Karl, o come ti chiami davvero. Controlla il cellulare>>
Ma cosa dice, questo.
Guarda Isaac senza capire, infila la mano in tasca e prende il telefono. Sul display c'è il numero di Isaac.
Be'? L'ho chiamato per la carne...
Guarda l'ora sul display e in un lampo di gelo che gli fa rizzare i capelli, capisce.
Il colpo contro la porta. Ha replicato l'ultima chiamata. Era già successo, l'altra volta ci ho rimesso tutta una ricarica.

<<Ma no, Isaac, è un equivoco tremendo, hai capito male, lascia che ti spieghi>>

Isaac si china a raccogliere un foglio che spunta da sotto l'angolo del mobile, un triangolo chiaro sulle piastrelle grigie e lo scorre velocemente con gli occhi.
Cazzo, come ho fatto a non vederlo. È l'ultimo estratto conto dalla Svizzera, merda. Anche se è anonimo, persino questo macellaio ebreo è capace di fare due più due.

<<E qui ci sono le prove>>

La voce di Isaac è calma e controllata, ma si sente uno sforzo, una tensione trattenuta e vibrante che potrebbe esplodere da un momento all'altro. Distoglie gli occhi da Karl per un attimo a guardare il foglio ed è quanto basta.
Prima che l'altro possa reagire, Karl raccoglie il coltello del bestione e glielo pianta nel cuore, due, tre volte, spingendo a fondo con le dita ossute. Isaac lo guarda stupito, apre e chiude la bocca più volte ma non dice niente, cade in ginocchio e rimane incastrato tra il mobiletto e la parete, a guardare senza vederlo il manico che gli sporge dal grembiule, il sangue che cola mischiandosi con quello delle bestie che ha scannato.
Calma, non è ancora finita. Adesso ci vuole sangue freddo, basta errori, non posso permettermeli.
Resta un momento in piedi ad ascoltare il cuore che gli tambureggia dentro, chiude gli occhi e si appoggia al mobile, ma scosta di scatto le mani appena li riapre e vede le strisce rosse sul ripiano chiaro. Cazzo! Respira a fondo, stringe i pugni sentendo l'appiccicaticcio del sangue sui palmi. No, no, va tutto bene, è chiaro che ho tentato di aiutarlo e mi sono sporcato. Calma.
Quando estrae il coltello dal petto di Isaac, un fiotto di sangue si aggiunge alla macchia sul grembiule, cola fino in terra.
Senza badare a non sporcarsi, si avvicina al corpo riverso dello scimmione e dopo aver pulito il manico con la carta igienica, gli chiude tra le dita il coltello, stringendo forte. La mano del morto è ancora calda, ma molle, sembra quella di un manichino.
Si rialza. Ahi, la schiena, devo fare qualcosa per questi dolori, la palestra non basta più.
Butta la carta igienica sporca di sangue dritta nell'acqua del water, senza toccare nulla. Si ferma in piedi senza guardare la sua immagine nello specchio, pensa un momento e va in cucina, attento a non calpestare la macchia rossa sul pavimento. Sul mobile vicino al frigo c'è un paio di quei guanti di plastica trasparente per scegliere la frutta al supermercato, rimasti dall'ultima spesa. Li prende e torna in bagno, li infila, si china e inserisce adagio la rivoltella tra le dita di Isaac.
Si guarda intorno calcolando la posizione, solleva sbuffando il corpaccione del macellaio, lo raddrizza a sedere e tenendogli ferma la mano preme il grilletto mirando al muro. Nello spazio ristretto, il colpo è ancora più assordante, l'eco resta sospesa tra le piastrelle e lo specchio.
Così per l'esame della paraffina siamo a posto, e se ci trovano anche le mie impronte è logico, è regolarmente denunciata.
Ridacchia piano, un raschiare sordo che si spegne subito. Adagia lentamente il corpo del macellaio trattenendolo per la spalla, si sfila i guanti sporchi di sangue e li annoda strettamente, fino a ridurli a una pallina traslucida, li getta nel water e aziona lo sciacquone con il gomito per non lasciare tracce, controllando che spariscano con la carta igienica nel gorgo rosato dello scarico. Per sicurezza aspetta la ricarica e scarica di nuovo.
Adesso che è tutto a posto può chiamare aiuto. Prende dalla tasca il cellulare, ma cambia subito idea. Meglio correre in strada a chiedere aiuto, è più drammatico. Un'occhiata circolare alla stanza, apre la porta, sussulta e si blocca con le dita sulla maniglia.
Cazzo, cosa ci fa qui, come ha fatto... Si protende verso la donna che lo guarda dalla soglia con occhi spiritati, allunga la mano per toccarle il braccio carnoso sotto il grembiule bianco. Nota i capelli scarmigliati, il seno pesante che si muove ritmicamente nel respiro affannato.

<<Emma, proprio tu, è successa una cosa...>>

La donna si scosta di scatto con una smorfia di disgusto, lo spinge di lato contro lo stipite e si precipita in casa.

<<Non toccarmi, nazista, dov'è Isaac, cosa gli hai fatto...>>

Un brivido freddo gli sale su per la spina dorsale.
Ma come ha fatto a sapere...
Sul pianerottolo sbucano dal niente due grandi e grossi del Gruppo di Autodifesa, li ha già visti in giro qualche volta, di scorta al rabbino. Uno si precipita dentro dietro alla donna, l'altro resta fermo sulla soglia, le braccia incrociate, il rigonfio sotto l'ascella sinistra del giubbotto chiaro. Karl sente il sudore allargarsi sotto le ascelle, bagnargli la fronte.
Calma, mantenere la calma, non è cambiato niente, devo solo attenermi al copione.

<<Meno male che siete qui, bisogna chiamare la polizia. Isaac...>>

L'urlo da belva ferita di Emma lo fa sobbalzare. Lancia un'occhiata rapida di sopra la spalla: dalla porta del bagno spuntano solo le gambe della donna, in ginocchio sulla soglia.

<<Isaac mi ha salvato la vita, gli ha sparato, ma quello aveva il coltello e... povera Emma>>

L'uomo sul pianerottolo ha una faccia inespressiva, si limita a guardarlo, ma i suoi occhi gli danno i brividi.
Mi guarda come se non mi vedesse, come potrebbe guardare un mobile, o un insetto.
Si accorge di avere ancora il cellulare in mano. L'uomo glielo toglie, armeggia con i tasti e glielo porge, senza dire nulla. L'azzurrino fiacco si riflette sugli occhiali appannati dal sudore. Mentre strizza gli occhi per leggere, di colpo capisce. Sul display compare il numero di Isaac, ma è un numero fisso, quello del negozio.
La segreteria telefonica.
Emma.
Ha registrato tutto.