Andrea Montanari

Ho 29 anni sono di Rimini ma attualmente lavoro e vivo a Bologna. Sono iscritto dal maggio scorso all'Ordine dei Giornalisti di Bologna. Attualmente ricopro l'incarico di Content manager per la società BolognaFiereWeb Srl, gruppo BolognaFiere. In passato per tre anni ho svolto attività di free lance-collaboratore per quotidiani, emittenti radio e televisioni locali. Oltre all'attività di addetto stampa.
Inoltre curo e gestisco il giornale online http://www.notiziedallacitta.it

29

29: un numero, banalmente, semplicemente. Due cifre che si affiancano senza particolare valore. Una via di mezzo. Un traghetto. Un’eterna incompiuta, lasciata a metà, a basculare. Un anno, di vita. Un voto all’università. I punti di un cestista. I giorni di un mese. Tutte "voci" incomplete. A ognuna di esse manca un’unità, un singolo "caso" per far quadrare il cerchio, per arrivare al definito, per centrare un obiettivo, per significare qualcosa, per fare… cifra tonda. Per dar un’immagine di completezza. Per essere qualcuno. Per avere identità certa, precisa, sicura.

29 anni

Tutti devono passare di qua. Da questa cifra anagrafica. Prima o poi. E ti sembra, quando la raggiungi, di non avere nulla in mano. Di non essere ne carne, ne pesce. Di non aver completamente raggiunto la soglia, di essere al di qua del muro. Puoi, mentalmente concederti ancora qualche cosa, una o più chance. Puoi permetterti di fare cose "giovanili". Perché per arrivare ai trenta (cifra tonda) ce ne vuole. Perché, forse, sei ancora scusabile visto che non hai l’età… Perché, banalmente, spaventa. Perché fa paura sapere che in poco tempo si raggiunge il limite valicabile e insormontabile al tempo stesso.

Un limbo vitale nel quale croguolarsi per poco tempo, al massimo 365 giorni. Perché poi l’età del Giudizio arriva. Che lo si voglia o no. Almeno sulla carta d’identità.

Poi tutto deve o dovrebbe, all’improvviso, cambiare. Modificarsi. Dal giorno alla notte. Dalle 23.59 dell’ultimo, fottutissimo giorno alla mezzanotte di quello successivo, quello fatidico. E pensare che è un, ultimo, giro di lancette. Un walzer di secondi e attimi che scorrono lenti.

Non ce li si sente addosso i 29 (anni). Se ne vorrebbero avere ancora 28, perché fa chi, perché è un numero bello, tondo, definito. Ma, al tempo stesso, si desidererebbe averne già trenta. Limpidi, certi, solari, con un loro significato vero. Imponenti, importanti, legittimi, sensuali.

E invece no. Per un lasso di tempo, che ognuno si sceglie quanto voler far scorrere più o meno velocemente nella propria mente, si vive ancora sospesi tra due realtà che sono lampanti. Mentre la situazione, di stallo, attuale non la si riesce a inquadrare, a darle un senso, un volto, un’anima.

Voto: 29

Una presa per i fondelli. Un’immaturità bilaterale: dello studente universitario che sa di non essere completo, di non aver dato il massimo, fino in fondo. Del professore, o docente che sia, che si tiene ben stretto il suo machismo letterario e infierisce sino all’oblio dei sensi didattici.

E’ una sensazione, leggere quel voto sul libretto di incompletezza, di incompiutezza dell’opera. Quasi uno smacco: ecco, essere arrivati lì, alla soglia della perfezione e aver smarrito la pianta del tesoro, aver perso il senso delle cose, della posizione, del sapere. Non sapere guardare, per un solo istante, oltre alla domanda. Non essere riuscito a interpretare fino in fondo lo spirito della prova. Non aver assecondato neppure per un istante il volere del prof che non chiede altro per legittimare il suo successo sugli "avversari". E’ una sconfitta. Una batosta dura da digerire. Cosa costava a quel docente fare uno scatto di magnanimità, un gesto di bontà e regalare uno scampolo di gloria, uno spicchio di successo al povero ragazzo, imberbe seduto dall’altra parte della cattedra? Forse, assolutamente niente. Ma oramai è andata così e non resta che mangiarsi le mani, rodersi il fegato per quel "Bingo" solo per un secondo sfiorato, assaporato. Ritentare: certo, scontato, sicuro. Ma non sarà mai come la prima volta. Il jolly te lo sei già giocato.

E a te, caro professore, cosa costava essere più buono? Tutto, costava. La stima dei colleghi, il rispetto dei sottoposti, la fiducia dei ragazzi. Così non hai voluto offrire niente. Neppure un cedimento, un piccolo scricchiolio. Immobile, impassibile dall’alto della tua posizione non hai ceduto di un sol millimetro mnemonico. Quello sforzo di umanità, compassione, tenerezza l’hai lasciato agli altri. Al prossimo. Che farà come te, per non essere diverso da te. No, non capiterà mai più una prossima volta. Chi è bravo, fino in fondo, merita. Altrimenti… Tutto è un numero. E ognuno ha il suo. La matricola è già ben impressa. E la prossima sarà diversa.

29 punti

Ho giocato sì, a basket (minore). Ho sudato sui parquet di periferia. Ho lottato, gomito a gomito. Ho corso, ho applicato schemi e tattiche per la squadra. Che abbia vinto o perso, il team non importa. Questa (o quella) volta era una sfida personale. Un match con me stesso, con la mia forza, la mia capacità. E l’ho perso. Per un dannatissimo, miserabile punto: un 1. In altri casi, ambienti sarebbe un dato privo di alcun interesse. Un’inezia. Nulla, o quasi. Qua, invece, vuole dire tutto. Era fondamentale. Di fondamentale importanza per diventare qualcuno, per centrare il colpo grosso, per fare il "trentello", per diventare uno del gruppo, per la gioia dei fans, delle ragazzine che chiedono l’autografo solo a chi raggiunge il suo scopo nella vita (sportiva), a chi lascia il segno.

E solo il 30 è un segno tangibile. Vuol dire che sei riuscito la’ dove altri hanno fallito. Significa che (mediamente) hai fatto un terzo del bottino di squadra, che il 33% del profumo della vittoria va a te e il restante se lo devono suddivire in nove. Facendo le (debite) proporzioni non ci sarebbe stato paragone: 30 per uno, il resto diviso 9. Una voragine, un margine incalcolabile.

Peccato: non ci sei riuscito. Ti è mancato il colpo del ko. E così al tappeto ci sei finito tu, con le tue insicurezze, la tua paura (fondata) di essere incompleto. Tutta colpa di un facilissimo tiro libero, un "rigore". Una sfida solitaria: man-to-basket. Un uomo contro un canestro che non fa nulla per non essere centrato. E’ lì, fermo, immobile a 3 metri poco più d’altezza. Non lo sposta il vento, non lo demoliscono le cannonate. Non si sposta. E’ sotto gli occhi di tutti, ma non fa nulla per esserlo. Sa qual è il suo compito e lo assolve in pieno. Tutto il contrario di te che sei lì, con la mano tremante, ma da solo. Con gli occhi di altri nove giocatori che non aspettano altro che lo scoccare del tiro, che seguono la scia della parabola per entrare in azione pure loro e tornare protagonista tutti assieme.

Missione incompiuta. Bersaglio mancato. Obiettivo fallito. Triste finale.

29 giorni

Nessun mese li ha. O li celebra. E’ uno spazio temporale scartato a priori. Eliminato dal conteggio, dalla strategia del calendario. Tutti gli altri numeri limitrofi (28,30 e 31) compaiono, chi più chi meno. Ma lui no. Un tabù. Un divieto, un brutto numero da cancellare, superare, valicare, scorrere. Chissà il perché. Forse davano, come in fondo danno, un senso di vuoto, indefinito. Non hanno un limite temporale certo. Non fanno tornare i conti.

Un accanimento mai visto, inusuale, senza una logica. Ma così è, senza motivo apparente. I calcoli sono fatti di numeri, ma allora perché lui, l’incriminato, l’incolpevole, l’innominato, il mai citato "29" non risulta, non ha un suo spazio, una sua identità? Perché non è protagonista al pari degli altri. Se non a rotazione, ogni tanto. A pensarci bene, infatti, ogni due o quattro anni, fa la sua comparsa. Nel mese di febbraio. Anni bisestili che nessuno è mai riuscito a compreso, nessuno ha digerito. Ce li hanno affibbiati i matematici, gli studiosi e ce li dobbiamo tenere, per il bene nostro e di tutto il calendario. O per le dinamiche astrali.

Ma se voi andate a chiedere a un bambino quale particolare mese dell’anno solare è composto di ventinove giorni, difficilmente troverete una risposta esatta. Del resto nelle filastrocche sui datari non l’hanno neppure citato, non è stato preso in considerazione. C’è (poco) ma non si vede o non lo vogliono fare vedere. Si riscatta sporadicamente, quando gli altri (numeri) se la possono godere o si possono rilassare. Viene fuori quando non c’è bisogno, quando tutte le dinamiche sono passate, quando i giochi sono fatti. Quando, in buona sostanza, non c’è bisogno.

 

Amici perduti

Avete presente quelle sere un po’ così? Quelle sere infrasettimanali, dal lunedì al giovedì, meglio se di mezza estate, tipo (il caso mio) di fine giugno-inizio luglio? Quelle ore dalle 21.30-22.15 che non si sa mai cosa fare? Non si sa se continuare a guardare la tv, tanto di lì a poco sono in programma certi film d’annata… Oppure se prendere la macchina – ma siamo pazzi con sto tempo e ste code in città, meglio di gran lunga il motorino. E allora lascio le chiave della quattroruote, infilo il casco e via… - e raggiungere gli altri, gli amici. Dove? "… Al solito posto, tanto ci si vede là". Avete presente? Sì che lo sapete quali, sono. Vi sarà sicuramente capitato anche a voi, in qualsiasi fetta di globo vi troviate. In special modo se siete sulla trentina, anagraficamente parlando, a ridosso di quell’età – come diceva un tal regista – nella quale "non si sa se metter su famiglia, o partire per il mondo". Bell’età…

Insomma quando siete a quota 30, o dintorni.

Ecco, pensateci (intensamente). Magari se siete single e i vostri amici, che in questo caso specifico si trasformano in nemici - sentimentalmente parlando- hanno tutti (manco uno scapolo) la fidanzata, la morosa, la donna, la sposa ufficiale, quella da pranzo a casa dei suoi la domenica; oppure chi ha la morosa "da qualche mese" e allora deve uscirci sempre "per saldare la coppia"; o chi ha l’amica di una sera con la quale fa da anni le stesse cose (cambiando attrice protagonista ogni 3x2).

Fatte queste necessarie premesse (altrimenti questo libro-sfogo non avrebbe senso): avete, presente, insomma queste serate nate sotto una cattiva stelle e, sicuramente, finite peggio? Che si fa? O si resta in casa, perché a furia di elucubrare, di fantasticare, di arrovellarsi il cervello si sono fatte, come minimo, le 23, oppure si esce ugualmente a caccia di emozioni, tanto prima o poi – è scontato, statisticamente provato – qualcuno che conosco e che non ha morose, fidanzate, donne, amiche, che non deve andare a casa presto perché "domani mi devo alzare all’alba per lavorare", che non ha già sonno "tanto qua si fanno sempre le stesse, identiche cose", che non abbia nostalgia dei film d’annata e allora mentre voi uscite lui sta rincasando qualcuno, in buona sostanza, lo trovo ugualmente.

Ecco, se scegliete (e dovete farlo, altrimenti potete chiudere il libro già dopo la prima pagina) questa seconda opzione, questo divertimento certo, al 100%, (magari) allora uscite.

Per farla breve: avete presente quelle sere di mezza settimana in cui si resta soli per una miriade di motivi che qui non sto a ri-elencare e non sapete dove sbattere la testa? Se non avete presente, fate un piccolo sforzo mentale. Da qualche parte, in un recondito angolo della vostra massa cerebrale spunterà fuori, il ricordo di una serata così, come il più vecchio e obsoleto degli scheletri nell’armadio. E cercate, per favore, di calarvi nella realtà. Altrimenti sarà tutto un delirio.

Allora si parte. Questa sera comando io. Però niente macchina: ma siamo pazzi? Col caldo che fa…. E neppure lo scooter, Con l’afa che c’è il casco mi rovinerà sicuramente. Per non parlare del gel… Uh, mamma mia, quasi dimenticavo il gel sul forno a microonde così domani facevo colazione con la brioche blu e il caffelatte in plastica fondente.

Ma neppure la macchina. Come si fa? Farò sì e no 100 metri e sarò già imbottigliato. Così quando arriverò là (dove?) non ci sarà più nessuno.

Meglio la sana, salubre, salutare bicicletta. Se poi "indossate" quella con il doppio cannone, stile Holland che fa tanto english e un sacco bello, che non va più di moda – non ci sono manco a pagarli oro, argento e mirra, i pezzi di ricambio – tanto meglio. Ne guadagnerete certo in fascino. Perché c’è sempre, è statisticamente provato, che al mondo esista una ragazza retrò innamorata dei piccoli gesti, delle cose dal sapore antico (come la Holland arrugginita). Siete saliti? E allora cosa aspettate: avete voluto la bicicletta? Pedalate. Non c’è bisogno di mantenere, in pista, il ritmo da crono-man, le pedalate da Coppi e Bartali sul Pordoi. Meglio adottare un’andatura compassata, da passista. Da snob della due ruote. Pedalate, pedalate, tanto "qualcuno che mi aspetta là (dove?) ci sarà ancora".

La fiducia, in questi casi, è ben accetta, ben voluta. Ma mal riposta.

Perché gli amici-nemici, che non avete avvertito del vostro arrivo, se ne fottono di voi, se ne strafregano della vostra presenza. Almeno per queste dannatissime – e "speriamo che passino presto" – serate infrasettimanali. Loro escono con la donzella, la ganza, la tipa, la fidanza, la tosa, la mona, la bella. Insomma, con una donna che voi manco vi immagine di avere.

Un filmettino, magari in prima serata (quando voi ancora mangiate, trangugiate) e per finire in bellezza un gelatino, un sorbettino, un succhino. Che non faccia male al pancino, che non alteri il morale (piatto) della coppia. E poi a casa, mano nella mano. Oppure su quel "bel motorino, che va piano" che lei, abbracciata, ha provveduto, nella notte dei tempi, a regalare a lui, perché così "si ricorderà, in ogni istante, di me. Mi guiderà, si siederà sulla mia sella". Bel quadretto eh…? Ma vi piacerebbe viverlo, almeno per un solo istante, anche a voi. Come a me, of course.

Vi rode il fegato? Forse sarà per via dell’abbacchio che mammina vi ha preparato con 28° sulla capoccia. E che voi avete mangiato, tanto poi "lo smaltisco con una pedalata, un caffè, una sigaretta chiacchierando con i miei amici (che non ci sono, badate bene)".

Vi rode il fegato eh? Voi a pedalare senza sosta, alla ricerca del traguardo volante. Loro a sbaciucchiarsi, a farsi le coccole, le carezze, le fusa. Che carini.. Bleah. E voi a guardare le vetrine spente di una chiusa bottega. A dire "tanto io queste cose in pubblico non le farò mai. Che tristezza, che squallida esternazione di amore (il vostro) che non c’è". A dire (ma a non pensare) "tanto io sto bene da solo". E allora restateci da soli. E fatevi gli affari vostri. Non guardateli. Suvvia giratevi dall’altra parte. Non assistente a questo trionfo dell’amore.

Pirla. Loro si divertono si emozionano, amano. Voi, no. Vi mangiate le unghie (che sanno ancora d’abbacchio, che schifo..). Perché siete fottutissimamente da soli. Per questa e per le prossime sere. E loro, la bellissima coppia, possono permettersi persino il lusso di stare a casa "il sabato sera". Con o senza febbre. Tanto mica devono dimostrare niente a nessuno, mica sono a caccia, mica devono essere a tutte le inaugurazioni, come fate voi. Non hanno bisogno di vedere quello, questo, quell’altro. Stanno bene così. Loro...

Ma state ancora pedalando? O vi siete schiantati, a furia di pensare (a loro) contro un palo della luce (cazzo, ma dico io come si fa a non vedere un palo dell’illuminazione pubblica, con tutta la luce che fa), una macchina in coda (vedi che ho fatto bene a non prenderla, con sto traffico), un motorino (vedi che a prendere il casco poi ci si distrae, non si guarda in giro e si finisce in un "busso"…).

Ce l’avete fatta? Siete ancora lì. Ancora!!! E quando mai pensate di vedere i vostri amici con questa andatura da pensatore-filosofo? Bene, allora il viaggio prosegue (minchia le valigie, mi sono dimenticato le valigie da viaggio). La gelateria, il gelato, il cono. Miraggio. O tipico esempio di escalation di mancanza d’affetto. Ma quale affetto? Mi basta il mio, di affetto. Non ne voglio altro. Fa ingrassare e fa venire i brufoli (cosa???). Allora sto gelato arriva o no? Meglio la granita. E’ acqua non fa ingrassare (ingrassare… Ma non sarete mica a dieta. Come no. Altrimenti non mi vanno più i bermuda attillati di Armani che fanno cuccare). La granita, dicevamo. Meglio se siciliana: è più focosa. Macché: hai pezzettoni di frutta fresca dentro.

Come lo yogurt? Esatto.

Accattata la granita, si parte. Finalmente.. Direzione? Boh, dove porta il vento. Il vento? In una serata infrasettimanale tra fine giugno e inizio luglio? Al limite quella brezzolina calda, umida, afosa, stile Garbino, che non sposta neppure le foglie. E dove volete andare con sto vento? Che direzione volete prendere, se non quella del non ritorno?

Andate dove vi porta la bicicletta. Lei, la due-ruote, senza un filo di gas, sa sempre qual’è la strada da battere, la direzione giusta. Per non farvi finire nell’oblio, nel tunnel della solitudine.

Sa sempre quali sono i posti giusti. Sa sempre dove sono i vostri cari amici-nemici: anche lei, la bicicletta, comincia a perder qualche colpo. Ma che ci volete fare.. L’importante è che non si buchino le ruote. Ops, meglio evitare la cabala e tocchiamo ferro.

Cazzo sta bicicletta è più intelligente di me.. Non ci vuole molto, invero, altrimenti saremmo già arrivati a destinazione, avremmo già chiacchierato a lungo con i nostri amici. Saremmo già sul viale del ritorno e non del tramonto, perché è notte fonda. Lei, la bici, vi porta vi guida (e dove si è mai vista una bicicletta, un mezzo che guida un uomo?). Voi, al massimo, fate la fatica di pedalare. E vi assicuro che non è semplice pedalare sciroppandosi una granita siciliana. (Piuttosto: come si fa a sciropparsi una granita siciliana che è focosa sì, ma mica gelatinosa) In mezzo al traffico. Tanto il traffico, in una sera di mezza estate, c’è sempre. Statene certi.

Voi succhiate, succhiate (la vostra granita sarà finita da un pezzo, è un’ora che pedalate e che ve la sciroppate). Meglio succhiare che fare altro. Che avete capito, maliziosi.

Meglio succhiare che tirare sassi dal cavalcavia. Spiegatemi come fate a tirare sassi e a sciropparvi, contemporaneamente, la granita siciliana che se vi cade sul vetro di un macchina fa più danni lei, con i suoi pezzettoni di frutta fresca, di un macigno.

 

La teoria dell’amico-nemico

Parte I (se mai ce ne sarà una seconda)

Fatte le debite, ovvie e, mi spiace per voi, lunghe premesse (ci volevano davvero tre facciate di inchiostro per introdurre un tema vecchio come il mondo?) vorrei provare a spiegare, a inculcare nelle vostre menti (la mia si deve ancora riprendere dalla sciroppatura di cui sopra) la teoria dell’amico-nemico.

Primo: cos’è sta dannata teoria (ma esiste? E chi l’ha mai sentita nominare). Secondo: abbacchio.

Dessert: granita siciliana. Ancora…

Torniamo al primo… Ma non si finisce mai?

Vogliamo tornare a noi?

Semplice: la teoria dell’amico-nemico, o per darle un po’ di senso, enfasi, la filosofia è quella scienza (addirittura??) esatta secondo la quale voi, single incalliti e di mezza età in una serata infrasettimanale tra la fine di giugno e l’inizio di luglio (ancora????) non sapete cosa fare. Sempre e comunque. E loro, i vostri (presunti) amici-nemici (a questo punto più una sorta di nemici infrasettimanali e amici del weekend) a divertirsi con la fidanza.

Ecco qui, scattata l’istantanea della teoria. Ma non era una filosofia?

Allora: la teoria dell’amico-nemico, è fondata su un unico assioma: voi, single (altrimenti non leggete) vi rodete il fegato, mi mangiate le unghie, quelle unghie che sanno ancora di abbacchio siciliano (vi eravate dimenticati la granita eh??) e, dolcis in fundo, affogate il dolore nell’oblio del gelato. Avete preso tutti i vizi possibili e immaginabili: bacco, tacco e Venere. No, quest’ultima no, altrimenti che vizi immaginabili sarebbero… Lei non c’è. Come Laura, se n’è andata via. Chissà magari insieme. E ci hanno messo su pure un complessino rock da far impallidire Nik o come cazzo si chiama.

E loro i vostri amici-nemici che invece stanno abbracciati, sotto le coperte, sotto le gonne, insomma sotto qualcosa della loro fidanza.

"Mi compri questo?". "Ma certo mia cara".

"Cosa ti metti stasera?" "Quello che mi consigli tu, amor mio".

"Uh, guarda che bel divano. Dici che starà bene nel salotto di casa nostra?" "Certo topolina mia, che ci starà bene. L’hai scelto tu quel salotto. E’ bellissimo".

E io devo fare questa fine? Ma non ci penso neanche. Al diavolo la teoria, la filosofia, l’assioma. Passi per l’assi, ma l’oma mai. Manco scannato.

Ma allora tutto questo detto, scritto, fatto finora che senso ha? A cosa è servito. Non c’è un ben che minimo straccio di conclusione della teoria. Non c’è una ben che minima teoria.

C’è. C’è, eccome se c’è. Altrimenti che senso aveva la post-fazione al testo?

 

La teoria dell’amico-nemico

Parte II (visto che ci voleva…)

Per dirla tutta, ma farla breve, secondo la teoria dell’amico-nemico, lui il soggetto in causa se ne frega di voi. Nel momento esatto in cui trova la donna alla quale dare tutto, vi abbandona in mezzo alla strada (trafficata), vi lascia sul lastrico dei sentimenti. Quello che prima era il compagno di sventura ora è il conoscente da sentire o che vi chiama solo per il compleanno (regalo annesso) della propria, di lui, fidanza. Quello che vi cerca, vi chiama, vi chatta, vi messaggia, vi emailizza solo in caso di bisogno. Quando lui, o più spesso la sua lei, ha bisogno di qualcosa. O, peggio, quando la sua lei esce (il venerdì sera) con le sue amiche e concede a lui, il vostro amico-nemico, la facoltà di scegliere: "o stai a casa e mi chiami più tardi oppure puoi uscire con i tuoi amici, ma sappi che io ti controllo, ti chiamerò e a mezzanotte ti aspetto sotto casa mia, perché non si sa mai cosa ti fanno combinare quei bastardi, maiali, ninfomani dei tuoi amici e tu sei un così bravo ragazzo che sta con me solo perché io ho deciso così e solo perché io cerco solo un bravo ragazzo che non esce con i suoi amici…" Oppure (dimenticanza grave): "Puoi uscire perché di sabato sera devo studiare (dove si è mai vista una persona che studia fino alle 2 di mattina di una domenica per un esame? Sono tutte balle, caro mio. Svegliati che questa ti burla) che ho l’esame e domani mattina mi devo svegliare presto che devo andare al compleanno di mio cuginetto di 4 anni". Anzi, "ci vuoi venire?". Ma che due palle, sta donna. Ma chi te l’ha fatto fare?

Insomma: in tutti quei casi in cui, lui, l’amico-nemico deve, per forza, trasformarsi nel vitellone di sempre e dimostrare a voi, scapoli convinti (e sfigati che non trovate una donna come la suddetta) di esser lui il duro della coppia, il decisionista, quello che porta i pantaloni (perché lei ha le gambe più belle del mondo).

Capito, adesso, con che razza di amici, se ancora volete, riuscite a chiamarli così, avete a che fare? Meglio starne alla larga. In parte. Qualche giorno. Di loro, il venerdì o il sabato, potreste sempre averne bisogno. Potreste sempre aver necessità di uno strappo in macchina, di una sigaretta, di un bicchier di birra quando gli sghei sono finiti.

Bell’amico che sei? Riconoscente. Solo nell’ora del bisogno. Allora sta teoria che ci sta a fare…?

 

Conclusioni

Ci siete rimasti male? Peggio per voi. Che state male, che soffrite. A loro, ai vostri amici-nemici poco o nulla importa del vostro stato d’animo. E mettetecelo pure: del fatto che magari a fine serata la vostra splendida, old fashion, english style bicicletta, modello Holland vi ha lasciato a piedi.

Perché, scusate, in fondo a voi di loro che cosa interessa? Che siano liberi il venerdì e il sabato sera (perché la domenica c’è la partita).

Bella razza di amici che siete. Ve li meritate proprio degli amici-nemici così.

 

O(d)dio il posto vacante…

E se crolla tutto? D’improvviso, come la bufera di Ferragosto, sparisce, svanisce ogni cosa. La certezza. La Verità. Peggio, il Sogno. Quello per il quale hai bramato, hai sognato, trepidato, ti sei emozionato. Si è volatilizzato in un batter di ciglia. Zac. Non c’è più nulla. Neppure l’ombra del passato, il ricordo. La sensazione lieve di una gioia temporanea. Assai temporanea.

Pensare che doveva essere il capolinea, la panacea di tutti i mali lavorativi. L’Utopia fatta "poltrona". Il posto (di lavoro) voluto con i denti, conquistato con la forza, abbattendo nemici e avversari sul campo. Demolendo condizioni mentali avverse, barriere costruite da altri, ostacoli esistenziali, muri ideologici. Avercela fatta, contro tutto e tutti, con le proprie, sole, uniche forze, energie, qualità dava forza morale. Una spinta assai forte. Un’adrenalina che dalla spina dorsale infervora la mente, il corpo, il cervello, le braccia. Tutto. Il completamento. La summa dei piaceri. In giacca. E, persino, talvolta in cravatta. Look tipico di chi non esulta, ma suda.

Invece, invece è finito. Amen. Neppure il tempo di capire perché. Per come. Per che cosa. Per quale ragione. Il motivo. E’ durato tutto così poco da non risvegliar neppure il più sveglio dei sognatori. Una frazione temporale così breve e intensa da non riuscire neppure a essere immaginata, pensata a lunga scadenza. Era bello. Era bello davvero. Un paradiso. L’arem di ogni pensiero, l’oggetto al centro della propria vita quotidiana, il travaglio impiegatizio-dirigenziale. L’Eden nel quale non ci sono neppure le mele da raccogliere tanto è perfetto. Non ci sono sirene che distolgono la mente. Ma solo prati fioriti, distese immense di verde. E sole. Tanto sole. Anche nelle giornate più grigie, cupe, buie.

Lo è stato. Lo fu. Chissà se lo sarà ancora? Difficile che si ripresenti un’occasione così…

E’ come per un calciatore (ma sì, mettiamoci di mezzo pure il calcio, lo sport nazionale, il sogno di ogni bambino) che viene prima acquistato dal più grande dei club pallonari che la storia conosca e poi paracadutato, trasportato, messo in tribuna. Lontano dal campo di gioco, dalla contesa, dalla sfida, dalla guerra. Per sollevare il fardello, il peso, gli si regalano spiccioli, attimi, brandelli di finta celebrità facendolo giocare di notte, in partite che nessuno guarda. In sfide già segnate dall’inopportunità, dal disinteresse collettivo. E poi a domanda (lecita) gli si risponde: "Ma come, non lo vedi, ti facciamo pure giocare. Sei dei nostri. Rientri nei nostri piani". Si quelli bassi, gli scantinati. I magazzini. O gli scalini. Della tribuna, da "scalare" domenica, dopo domenica. In alto sempre più in alto fino a finire sul tetto dello stadio. E poi ancora più in là. Fuori, oltre il muro di cinta. In mezzo alla strada. Lì finisce chi tanto volle, ma nulla dimostrò e strinse.

Sipario. Tutto è finito, dunque. Non c’è più quello che c’era un attimo prima di voltar lo sguardo al futuro (breve). Senza saperne il perché, capirne i motivi. Rendersi conto di quello che altri, per giusta causa, hanno fatto, compiuto, detto e, quel che è peggio, scritto. Sul solito foglio di carta, che ora bianco non è più.

Oddio, non facciamo gli ipocriti. Le vittime del sistema. I soliti pessimisti-piagnoni che non vogliono rendersi conto di aver commesso errori, chiamiamole imperfezioni nel loro cammino.

Per questo, parte delle spiegazioni la mente le aveva già, indirettamente, fornite. Segnali, piccoli bagliori quotidiani. Frame da interpretare, analizzare, contestualizzare. In men che non si dica. Prima che tutto accada. Prima che sia (o possa esser) scritta la parola "FINE". Cerchiamo di essere uomini, per una volta. E perfino maturi. Intelligenti, satolli di cultura. E allora, allargando un attimo l’orizzonte, ragionando a mente freddissima, quasi congelata: "lo sapevo. L’ho sempre saputo". Almeno ultimamente. Perché prima no. Non ci avevo proprio pensato. Non me l’ero immaginato. Qualcuno direbbe: non mi è neppure passato per l’anticamera del cervello. Ah, già. Avercelo quello, il cervello. Un elemento fisico, circoscritto all’interno di una fetta di corpo. Quella macchina di pensieri che spesso non si inceppa ma che spesso produce figli e figliastri che la matrigna di tutti i giorni non vuole riconoscere. E fa bene. Perbacco.

Ma bisogna dare un senso, un volto, crearsi un’icona. Perché, in mezzo a tutto questo, c’è l’essere umano. La persona catapultata in un contesto che credeva di conoscere, in una realtà che sentiva sua da anni, forse, da sempre. In un ambiente diverso, completamente diverso da quelli del prima. Fatto di persone che forse non hanno il suo stesso Dna, che non sono così fragili come possono sembrare. Anzi, che lottano. E vogliono vincere una sfida che il nostro non ama fino in fondo. Già, perché qui sta la piccola falla, la crepa, la ferita nella quale un normalissimo, banalissimo, insulso, quotidiano coltello s’è inserito e continua, inesorabile, a girare su se stesso fino ad arrivare allo scopo: uccidere l’animo, lo spirito.

L’uomo, un uomo in particolare che all’improvviso ha perso (o sta credendo di farlo) quel piccolo mondo che lo ha circondato, illuso, millantato. E poi, sul più bello, dimenticato, abbandonato, lasciato solo. Mentre il mondo va avanti, nel bene o nel male, con le sue altalene, i suoi vizi e le sue virtù. Che non si ferma (perché non può farlo) per aspettare le riflessioni, i pensieri, i dubbi del singolo, del caso isolato. Non può permettersi di stoppare la catena di montaggio di tutti i giorni perché un minuscolo ingranaggio, una miliardesima parte di esso è uscita dai binari. Deragliando, inopportunamente e involontariamente, sulle strade dell’oblio.

Ce la farà il nostro eroe – un ometto sulla trentina, non attempato, anzi l’unica cosa che non sfiorisce sono proprio i capelli, manco uno bianco, con tanta voglia di fare (ma sono i modi che sono sbagliati), forse troppo esuberante, istintivo, diretto (come un treno che non sa fermare la sua corsa, una volta partito dalla stazione), senza la capacità, o la voglia di fermarsi per cinque minuti a ragionare, a guardare oltre le apparenze, che si fida degli altri, ciecamente. Che ama ciò che fa, ma che non riesce a fare bene ciò per cui non è portato – a uscire da questa impasse? A dire addio al bellissimo sogno? A cancellare il piccolo mondo fatto di piccole cose, ma tanto, tanto care? Un ragazzo, chiamarlo uomo è troppo anche per noi. Un soggetto che forse ha fatto tutto in fretta. Ha bruciato le tappe. Glielo dicevano anche gli altri. Qualcuno degli altri. Amici, conoscenti, colleghi. Insomma: tutti.

Ma lui nulla, non si fermava manco se di fronte aveva l’inesorabile, l’invalicabile, l’insormontabile. Ma a correre troppo, forse, a volte, ci si frega. Si brucia il proprio potenziale. Si va oltre le proprie aspettative che non corrono come la mente, ma giustamente procedono seguendo una filosofia, un iter definito, una strada che a volte è una serie costante, continua di curve e controcurve. Un percorso accidentato che non si lo può percorrere con una fuoriserie, con un bolide. Ma che andrebbe affrontato, dicono i saggi vecchi, con un’utilitaria. Un mezzo adatto al terreno sul quale ci si trova. Per non fare la fine dell’elefante in una cristalleria. D’altronde il terreno "diverso", il terreno nemico può essere ostile, ma non difficile da affrontare, conoscere. Ma spesso, almeno per chi non ha la scaltrezza, la malizia di uno scapestrato, le insidie che si nascondo dietro a ogni sasso, sotto a ogni granello d’asfalto non sono facilmente distinguibili, evitabili, superabili. E non superare il problema vuol dire ritrovarselo, più avanti, più grande ancora di quello che è, di quello che ce lo si era immaginato. E allora sì che diventa davvero dura farcela. Un’impresa, quasi impossibile. Un traguardo che neppure si intravede. Un obiettivo, messo a priori nel mirino del proprio sguardo ma poi sfocato a causa di una distrazione che ha fatto, involontariamente, corregge l’angolo di tiro. E non lo centri più. Lo perdi dal mirino.

Tutto questo si è trovato di fronte il nostro. All’improvviso in un giorno di felici pensieri. Ma tutto questo se l’è creato, vestito addosso. Montato e rimontanto. Smontato e rismontato in men che non si dica. E ora che il cielo nebuloso si è rischiarito, o almeno così ha fatto il primo orizzonte, c’è da affrontare la dura realtà. Il naturale scorrere delle cose. Il fiume della vita. L’humus del lavoro.

E la domanda, ovvia, torna alla ribalta. E’ di nuovo realtà viva e quotidiana. Ce la farà? Riuscirà a valicare il monte? A superare il confine? A sbarazzarsi del fardello? A tornare quello di prima? I primi indizi direbbero di no. Vogliamo seguire le tracce? Vogliamo seguire l’istinto? E, allora, diciamocela francamente: non ce la farà. Ne sono sicuri tutti. Ne è convinto lui. Credere in ciò che si fa deve essere la prima cosa, la molla che spinge, che lancia. Non abbracciare totalmente una fede, non essere un integralista del proprio modus laborandi può provocare strane reazioni. Soprattutto, particolarmente, in special modo, può produrre un "giocattolo" che non è quello desiderato. Del resto se la "scatola" funziona perché è stata intagliata, modellata da sapienti ed esperte mani, non è detto che il "pacco" che in essa è contenuto abbia le stesse caratteristiche.

Di chi è l’errore in questo caso? Di chi confeziona, o lo ha già fatto, il pacco? O di chi, e non per voler toglier colpe giuste e meritate al "produttore", non ha controllato, verificato se, durante il processo produttivo, qualcosa non funzionava? Se la scatola ha un suo diametro è giusto che al suo interno contenga un oggetto fatto apposta per esservi inserito lì dentro. Ma se il prodotto è stato confezionato prima, o è in fase di lavorazione, allora si doveva pensare a priori, a costruire un involucro più accogliente. O no? Oppure hanno sempre ragione gli altri. L’hanno sempre vinta loro? Se è così non resta che un’unica, secca, drastica, inoppugnabile conclusione:

il lavoro nobilita, ma distrugge, l’uomo. E la donna, perché no?