Carlo Ruggeri

Sono nato a Milano nel 1963, ma ora vivo a Cetona, in provincia di Siena.
Ho scritto articoli per alcune pubblicazioni, giornali, monologhi teatrali,
alcuni racconti sono stati diffusi su quelle riviste specializzate che trovi
solo in libreria, nello scaffale in basso a sinistra, quelli che comprano
solo chi ci scrive.
Ho diretto e recitato per alcuni spettacoli teatrali, poi ho incontrato
Francis Phardelian (Odin Teatre), che mi ha insegnato a camminare sui
trampoli.
Ora mi occupo di IT come libero professionista.
Ascolto R&B.
L'unica cosa di eccezionale che ho fatto in vita mia, sono due figli, Lucio
e Greta, ma non ero da solo.

Il bagatto, è il mio ultimo racconto.

IL BAGATTO

Era il 1984, quando l'incontrai per la prima volta.
Al tempo, abitavo la mansarda della Contessa Cristina Luchòvic, una nobildonna Ungherese con ancora abbastanza carattere e soldi da meritarsi il rispetto dei mezzadri locali.
Vivacchiavo leggendo le carte e scrivendo temi astrologici, integrando così, il piccolo gruzzolo ricavato dalla recente vendita di un'attività di serigrafia e stampa e caldo.
Dopo aver respinto tutte le mie coscienti obiezioni, l'esercito mi aveva cortesemente comunicato l'ubicazione della mia prossima primavera.
Il sottotetto era piuttosto accogliente, soprattutto quando la qualità del kerosene non lo ammorbava d'ossido.
Un'ampia stanza accoglieva la mia vita quotidiana ed i clienti, che una volta seduti sul divanetto ottomano, chiedevano sempre la ragione della scala che conduceva alla camera da letto, circondata a giorno da una ringhiera di legno, a mò di balconata sul soggiorno.
Sarei partito militare di leva, in febbraio.
Il fatto in sé non mi preoccupò più di tanto, ma mio malgrado, mi aveva confinato in un limbo pigro e senza progetti.
L'antro dello stregone era perfetto.
Non mi richiedeva nessuna dovizia di volontà, nessuno chiede perché agli stregoni.
Rajà, il mio bombay nero con mezza narice era morto di gastroenterite e Tabata, il gufo selvatico delicatamente consegnatomi da un bambino, era stato affidato ad un centro di rieducazione rapaci, a Parma.
Bengasi e Kundalini, meriterebbero una storia più lunga di quella che normalmente si dovrebbe assegnare ad una coppia di bengalini, ma comunque, non vivevano più con me.
Ero solo, pronto e a fuoco, come si dovrebbe essere ad ogni viaggio.
Quel giorno non era un giorno, era un lungo pomeriggio piovigginante, di quelli in cui il rumore delle ruote sull'asfalto bagnato segna il ritmo dell'esistenza.
Non mi ricordo che attività stessi svolgendo, probabilmente nessuna, come si dovrebbe fare ogni volta che sta per succedere qualcosa d'importante.
Gettai un'occhiata su di un appunto preso sul retro di una rivista, diceva "Lucilla e Rosa, 14 circa."
Quasi contemporaneamente suonò il campanello e senza rispondere al citofono premetti il pulsante per aprire, battute da mago o no sapevo già chi era.
Aprii la porta e presi le carte, calcolando mentalmente i cinque piani di ascensore.
Entrarono chiedendo permesso e lanciai un accomodatevi, dalla mia scrivania.
- Piacere, Cosè
- Lucilla
- Io sono Rosa
- Prego, accomodatevi.
Le feci accomodare sul solito divanetto, e mentre accendevo dell'incenso sul tavolo, girato di spalle, pensai di non avere nessuna chance.
Pensai che fosse una turista o un'amica di qualche residente, perché pur abitando da circa due anni in quel piccolo paese, non l'avevo mai vista prima di quel giorno.
Era bellissima.
Bionda, con i capelli lunghi sulle spalle dritte che rendevano evidente la forma fresca del suo seno sotto il dolcevita, minuta, perfettamente proporzionata, con il culo più bello che avessi mai visto.
Il viso rotondo e gli zigomi leggermente sporgenti servivano perfettamente l'incastonatura dei suoi occhi.
La bocca carnosa, perfettamente disegnata da una sottile linea di matita, sapeva cos'era la seduzione, ma non se ne serviva più di tanto, sembrava onesta.
Con una bocca come quella, la seduzione non serve, pensai.
Lanciando un'occhiata a Rosa, capii immediatamente che l'amica di fortuna, serviva solo per l'imbarazzo, bene pensai, avrei letto le carte solo per lei.
La guardai e capii che avrei potuto parlare di lei per ore, senza nemmeno toccarle.
Purtroppo, pensai, il pubblico pagante ha diritto a tutti gli atti della commedia, senza sconti di pena.
Così iniziai il mio solito gioco, di non ricordo-più-quale marchesa francese.
Rosa cercava un contegno nelle mie stampe tibetane di carta di riso, cercando di non mostrarsi scettica o interessata.
Recitai la mia solita overture.
- Non incrociare le gambe e taglia questo mazzo, con la sinistra.
- Non dovrei fare delle domande o roba simile?
Alzai lo sguardo, abituato a prendere il controllo di quei frangenti e dissi:
- Qui le domande le faccio io, taglia.
La pioggia continuava a cercare di dimostrare la realtà delle cose, e i tarocchi, dissero la stessa cosa.
Gli predissi che avrebbe chiuso una storia con un militare e che avrebbe avuto due figli.
Sarebbe andata così.
Rosa cercò di mostrarsi interessata, più per Lucilla che per me.
- Quello che mi stai dicendo è un futuro prossimo?
- Si, è roba fresca, qualcosa è già cominciato.
Mi osservò un attimo, senza dire nulla, soppesandomi, per dare una giusta collocazione alle previsioni.
- Quanto ti devo
- Ventimila.
- E per l'oroscopo?
- Un po' di più, dipende se lo vuoi scritto, odio scrivere.
Ci salutammo non molto convinti, aleggiando nell'aria la scusa di un prossimo consulto.
Fuori continuava a piovere, ma non abbastanza perché le automobili potessero rallentare i passanti con i loro spruzzi.
Era sciocco iniziare una relazione prima di un lungo viaggio.
Il giorno dopo, l'aspettai senza che ci fossimo dati appuntamento, in un posto qualsiasi, vicino alla piazza.
Pioveva ancora, nello stesso identico modo del pomeriggio precedente.
Il tempo a volte, batte solo per chi lo vuole udire.
Venne, io avevo un ombrello, lei una cinquecento bianca.
Ci scorgemmo senza dire una parola, lei si fermò accanto ad un bar, mi abbassai sul finestrino e guardandola, salii.
Parlammo di mille cose.
Per dirla tutta, lei parlò, io ero in un periodo misterioso e dicevo solo cose saggie e strane.
Quella notte non facemmo l'amore perché non conoscevo il suo corpo, ma io non ricordo altro che le sue natiche a forma di cuore e i suoi seni d'arancia.
Giocammo tutta la notte, torturandoci con le labbra, accarezzandoci, baciandoci con il respiro affannoso degli amanti.
Addormentandoci e risvegliandoci, stringendoci, prendendo le misure dei nostri corpi nudi, come architetti di lava.
Aveva degli strani pollici, pensai a quei principi senza un dito per via delle generazioni.
Non facemmo sesso quella notte, forse perché la pioggia rendeva troppo dolce l'intimità di quella mansarda che fronteggiava i rintocchi del paese, forse perché l'amore mi bruciava tutto il fiato nei polmoni.
Non avrei più imparato a fare diversamente.
Ricordo solo che stare con lei mi faceva vedere più luminosi i colori.
Non rammento più bene, fermare il tempo richiede sempre qualche lacuna a debito.
In quella soffitta, lo fermammo, per un'intera settimana.
Poi, partii per giocare alla guerra.
Ci sposammo dopo tre mesi, era il 4 agosto del 1984 e la gente uscì dai negozi per guardare i sogni più colorati del mondo.
Eravamo due frecce senz'arco, in volo, senza musica.

 

CENTODICIOTTO

Non c'erano dubbi, era un tentativo di suicidio.
Il secondo per l'esattezza.
L'immediata comprensione di quel pensiero mi aveva sconvolto. Era come un illuminazione, come nei fumetti, un'idea a forma di lampadina. Ero terribilmente preoccupato ma non volevo darla vinta alla mia fabbrica d'adrenalina.
Piccoli, profondi respiri. Una sigaretta, un bicchiere di Porto.
Va tutto bene, pensai.
Si, era vero, andava tutto bene, nessun ritorno di fuoco, niente rinculo, non sono sulla via di Damasco, pensai.
Eppure era come se, rannicchiato sotto un tavolino, aspettassi la seconda scossa di un terremoto, ero certo che l'angoscia di quell'intuizione mi avrebbe assalito di nuovo.

"La purezza perduta è volata
senza girarsi indietro
come un'anziana gatta tradita.
Come il sole dopo un temporale
senza clamore e senza arcobaleni.
Perduta senza rimpianto
scoperta senza baccano
consumata tranquillamente
come una buona morte."

Tortellini conservati, salame piccante, pane in cassetta, salsa bernese, patatine fritte, cubetti di emmenthal, coca cola, salsa maionese, noccioline salate, cipolla, prosciutto salato.
Due uova sode, una birra.
Cetriolini, germogli di granoturco, sottaceti.
Un'altra sigaretta e un altro porto.
La mia non era una semplice intossicazione alimentare, ma un programma di annientamento, o almeno così mi stava urlando la mia ulcera che-non-sapevo-di-avere, mentre stringevo la sbarra del porta asciugamani, con la testa china sul lavandino.
Benché tutta la cinematografia contemporanea ritragga il conato domestico, romantico o violento che sia, copioso o sottile, dogmaticamente sulla tazza del water, a me non piace farlo lì.

Ho sempre pensato che sia stupido aggiungere fastidio al fastidio.

Sicché me ne stavo tranquillamente a vomitare sul mio lavandino pensando a quel pragmatico neo-realista che, primo nella storia, aveva ritenuto lo scarico del lavandino troppo piccolo e inadatto al servizio.
Liberai tutto quasi immediatamente, e con la solita furia feticista osservai quella strana composizione danzare come una piccola tempesta, prima di sparire definitivamente nello scarico.
Vomitai tutto insieme, sottaceti di tristezza, salsa di solitudine alle cipolline, ogni tanto sputavo un lamento di tortellino e subito dopo una maledizione al prosciutto.
Insieme a quella materia stavo espellendo una legione di veleni.
Tossendo, insieme al formaggio, mi liberai di quella volta che la mia maestra austriaca mi umiliò di fronte all'intera classe perché avevo picchiato il figlio di un noto imprenditore del ramo digestivi.
Con due risate convulse, che valevano un intero ciclo psico-terapeutico, risolsi i miei sensi di colpa nei confronti di tutte le mie amanti abbandonate.
Spaventato, cercai di fermarmi. L'ansia di prima aveva lasciato campo ad una sorta di curioso, isterico, divertimento.
Guardai la mia faccia allo specchio, ma oltre al pallore non trovai nulla di strano.
Un pout-pourrì di patatine e birre mi costrinse a riabbassare violentemente la testa, e di colpo avevo perdonato tutti i miei nemici.
Dimenticai i dissapori familiari mentre sciacquandomi la bocca eliminavo le ultime tracce di formaggio.
Con un pacchetto di noccioline scordai i miei burrascosi passati economici.
Fissando intensamente i resti di un uovo, pensai a tutti i governi comunisti del mondo con la stessa dolcezza di una madre di fronte al figlio più sciocco.
Non c'era più paura, correvo e spiccavo sciocchi e grandi e allegri salti, sorridendo, lungo un dolce pendio di collina, e la valle, come in un ancestrale panorama, si stagliava paradisiaca davanti a me.

Inebetito rimasi a fissarmi nello specchio, senza riconoscermi, fino al momento in cui suonò il campanello.
Era la guardia medica, che avevo chiamato pochi minuti fa, prima di quell'incredibile singulto della mia anima.
Ridendo pensai che se avessi tentato di spiegare l'accaduto, passando dalla lavanda gastrica mi sarei ritrovato in una camicia di forza.
Con l'asciugamano ancora sporco sulle spalle mi diressi verso la porta, aprii e feci accomodare quello che mi sembrava il più sfortunato degli studenti di medicina.
Indossava una sorta di copri vestito bianco, con sopra stampato:
1-1-8.
Mentalmente sommai le cifre, 1+1+8, 10, poi moltiplicai il risultato, 1*0, 0.

Il nulla, l'estasi, Samadhi.

Ancora indorato dalla zoroastrica addizione, tentai di offrigli da bere e di togliergli le scarpe contemporaneamente.
Poi al suo sguardo sinceramente preoccupato ed impaurito, commosso lo accompagnai al portone e lo tranquillizzai spiegando il mio improvviso miglioramento, mentre con cortesia fingevo di ascoltare i suoi consigli.
Poi toccai le sue tempie con entrambe le mani, lo abbracciai e gli dissi che tutti i suoi peccati gli erano stati rimessi.
Rimase lì a guardarmi per un po', poi si tolse gli occhiali, salì in macchina e sparì nella notte.
Risalendo le scale feci la stessa cosa con una signora che mi osservava furtivamente dalla porta socchiusa.
Sul pianerottolo accarezzai il vecchio botolo che dormiva sullo zerbino del signor Kant, mentre mi salutò sbuffando stancamente si accorse che gli era ricresciuta la sua vecchia zampa monca.

Entrando in casa sentii le forze venire meno, ebbi solo il tempo di arrivare al divano e morire sereno.

 

LA FARMACIA

La Farmacia era semivuota, pensai che probabilmente il caldo oltre alle energie toglie anche i malesseri.
Una bella farmacia, arredata con cura: un gradevole accosto fra alambicchi e vasi del passato con i brillanti colori della metaplastica che, se poco hanno a che fare con la farmacopea, senz'altro contribuiscono a colorarne il grigio aspetto e le dolorose esigenze.
Il Dottor Gnoboli oltre ad essere farmacista era il custode della cultura del luogo, pilastro della cristianità post-revisionista nonché promotore e consigliere d'ogni iniziativa pubblica, o almeno così amava definirsi, mi disse con ben più di una punta critica, il gestore di una stazione d'energia, che con un cadenzato minuetto di sintesi oratoria mi elustrò pregi e difetti del posto in trentasei unità nette.
- ... e mi raccomando, prima dei pasti
- Certamente, arrivederci Dottor Gnoboli
disse l'anziano signore uscendo lentamente.
Appena il cliente fu uscito notai l'occhiata critica del dottore alla commessa. Il Dottor Gnoboli doveva averne circa un'ottantina ma il timor di Dio, l'opulenza e le spesse biolenti gliene facevano dimostrare venti in più, le pupille, tanto era miope, dietro a quelle vetrate sembravano due punte di chiodo.
Dietro il bancone s'intravedeva una stanza arredata a studio, e sull'angolo della scrivania al posto della lampada a ioni o del portapenne c'era un cagnolino che sonnecchiava beatamente.
Il caldo era insopportabile e l'intera stanza odorava di chemgrasso squagliato.
- La prossima volta invece del Fulsorin consigliagli la trans-pappa reale che ne abbiamo il magazzino pieno... -
Disse il dottore con la sua vocetta stridula.
- uff... che palle 'stò vecchio spilorcio
Bisbigliò la ragazza roteando le pupille verso l'orologio.
- Il prossimo...
- Signorina... vorrei una scatola di profilattici
Dissi con la solita aria indifferente di chi dimostra il contrario.
- Scelga sullo scaffale
La ragazza sostò dietro al bancone e osservai per un attimo la goccia di sudore che scendeva dal suo collo aggiungersi alle altre sul petto. Appariva chiaro che non era del luogo, e che forse non avrebbe mantenuto a lungo il suo lavoro.
Aveva i capelli corti e apparentemente spettinati, una marcata linea di kajal rendeva aggressivi gli occhi e distoglieva l'attenzione dagli zigomi e dalle labbra asciutte e carnose. Sotto lo spolverino bianco indossava una maglietta nera scollata e senza maniche, una corta gonna di similpelle nera, che mostrava delle bianche gambe tornite dai lacci di sandali modello antico romano.
Con finta aria distratta guardai i contenitori strategicamente coperti da un espositore di rossetti, era la prima volta che acquistavo dei preservativi e rimasi sbalordito dalla varietà di colori e messaggi e vantaggi che avrei potuto avere da una o da qualche altra marca.
"Arlequin" diceva una confezione, "Ritardanti e stimolanti per l'automobilista", "Nullafravouz", mi sfuggì un sorriso quando lessi la dicitura "Tropical flavour"
- Questi
Dissi indicando la confezione meno sgargiante, con gli occhi della signora accanto infilzati sulla schiena.
- Misura?
Disse la ragazza con un tono da controllore di shuttle.
In quel momento ebbi la netta sensazione di aver sbagliato a non frequentare più assiduamente certi luoghi, e che ora stavo pagando il fio della mia beata inconsapevolezza e che comunque vada aveva ragione mio nonno: Da quando è andato su Plutone, l'uomo
ne inventa una nuova al minuto.
- Misura!!?
Replicai attonito, interrompendo la recita.
- Ok. Vada in quel settore troverà il "misuratore"
Il suo petto era come una calamita, avrei voluto essere una di quelle gocce di sudore e scivolarle sul ventre.
Non avevo capito un accidente di quello che mi aveva detto ma il dottore sembrava spazientito con la ragazza ed io per non magnificare la mia incompetenza mi diressi verso le indicazioni della commessa.
Il "settore" era un compromesso tra un bagno e uno di quei séparé che si trovano nei negozi di abbigliamento. Entrai, chiusi la porta e sentii il caldo rovente avvolgermi il viso, come quando si chiude la porta di una cabina comunicativa.
C'erano un sacco di scatole di medicinali che con il calore emanavano un afrore dolciastro e stordente ed appeso ad un gancio vidi quello che con spavento individuai come il "misuratore".
- Cazzo ma adesso ci si misura l'affare in farmacia!!?
Dissi ad alta voce spazientito.
Volevo uscire da quella stanza moschicida, e andare al supermercato dove con l'aria condizionata avrei scelto l'anonima, inaffidabile e senza misura, scatola di palloncini bianchi... Bianchi?
Ma la fuori c'era lei e pensai all'irrimediabile figura e alla sicura rinuncia ad un rincontro.
L'aria cominciava a mancare.
Staccai con decisione il cartoncino forato, varie misure, dal gancio e mi venne in mente la possibilità che non venisse sostituito ad ogni cliente. Dopodiché mi balenò in testa che per conoscere la misura avrei dovuto eccitarmi, già che senso aveva prendere la misura a riposo?
Questo era semplice, bastava pensare alla ragazza e al suo seno gocciolante di sudore. Già ma poi che avrei fatto, sarei uscito e gli avrei svelato le mie misure?
Avrebbe fatto confronti?
Si riproponeva il problema storico del confronto, questione che tormenta e ha tormentato intere generazioni di maschietti.
Cavolo sono normale?
L'aria era finita, cominciavo a vedere palline bianche, la testa mi girava, mi appoggiai al muro con una mano e con l'altra socchiusi la porta della stanza.
- Signorina... ehm... mi scusi potrebbe venire a darmi una mano? -
Le parole mi uscirono di bocca prima di aver formulato il pensiero, sperai solo che i clienti avessero distratto il dottore o che nessuno mi avesse sentito. Richiusi subito la porta e rimasi paralizzato.
Stavo facendo la doccia nella mia adrenalina.
Non succedeva nulla, stavo per tirare un sospiro di sollievo quando la porta si aprì.
Non sopporto gli interminabili momenti, anzi a pensarci bene non sopporto proprio l'intero concetto di interminabilità, ma mio malgrado, con tutto un buon terzo di vita standard vissuta intensamente, ero completamente immerso in un eterno, bellissimo e quanto mai imbarazzante, interminabile attimo.
Lei era entrata davvero e senza esitazione aveva richiuso la porta dello stanzino dietro di sé, poi alzò gli occhi e mi guardò fisso nei miei che imbambolati non si staccavano dal suo seno.
Ero lì con l'interminabilità che bolliva come la stanza, il "misuratore" in mano e un principio di soffocamento per mancanza d'ossigeno.
- Salve!
Dissi con un filo di voce.
- Salve!
Rispose lei e si accese metodicamente una sigaretta senza smettere di fissarmi. Sembrava indecisa fra l'uscire e il cominciare qualcosa, forse le piacevo, intuii, e comunque dovevo pur aggrapparmi a qualcosa.
C'è un momento in cui il disagio si dissolve, è l'irrimediabilità della decisione, qualcosa che spinge all'azione senza più compromessi.
Avevo le mani sul suo petto e finalmente seguivo con le dita il percorso del suo sudore, poi aprii completamente la mano come per tuffarmi dentro di lei che rimase immobile a guardarmi.
Scoprii le sue spalle una alla volta sfilandole prima lo spolverino e poi la maglietta, e la baciai risalendo con la lingua fino al collo.
- Desidera!?
Disse lei vigliaccamente.
Ricapitoliamo.
Io sono in villeggiatura in un amena località, dove non so perché mi ci trovi di preciso ma senza dubbio devo ringraziare qualche amico e la solitudine, siccome sono un tipo previdente e speranzoso la prima cosa che faccio dopo essermi assicurato il ritorno in città è quella di compiere gesti inusuali, per vedere se cambiando la disposizione dei fattori una volta tanto il prodotto cambia.
Mi trovo in un sgabuzzino afoso a quaranta gradi di temperatura, con un esemplare di femmina estremamente attraente, ho sciolto i primi dubbi e lei mi risponde; desidera?
- Non capisco come devo... ehm... prendere le misure...
- ah
dice lei ironica
- lasci faccio io
Metodicamente si chinò, mise la sigaretta all'angolo delle labbra, mi sfilò la cintura dei pantaloni e li calò fino a terra, discostò lo slip e ci infilo una mano poi si rialzò in piedi e cominciò a palparmi fissandomi.
Ero in estasi e non mi importava più del caldo.
Mi chinai, le tolsi la sigaretta dalla bocca e l'appoggiai su di una mensola e cominciai a baciarla appassionatamente.
Lei si staccò e cambiando improvvisamente atteggiamento mi strappò gli slip e iniziò interessata a misurarmi l'affare, trovato il cerchio che meglio mi si adattava mi dette un lungo bacio sul collo sotto l'orecchio che mi stordì completamente.
La vista mi si era offuscata e il sangue mi si stava gelando dentro alle vene, avrei voluto dire qualcosa ma non riuscivo a trasformare i pensieri in parole. Il suo viso era diverso, come illuminato da una strano alone colorato, la vidi spingere una cassa di medicinali con l'intento di fare spazio per noi.
Avevo appena incominciato a rilassarmi per godere di quell'inaspettata razione di sesso, quando all'improvviso il grasso farmacista irruppe nello stanzino. Interminabilità, come ti odio, con la stessa metodicità ti ripeti e ricorri. Il dottore rimase immobile, con la mano che teneva aperta la porta dello stanzino e gli occhi sgranati orribilmente deformati dalle spesse lenti. La ragazza si girò e con un'assordante sguardo indifferente congelò tutti, il dottore, i clienti che assistevano sbigottiti comprese le signore che intanto lanciavano avide occhiate, poi si chinò, mise le mani sui miei glutei e sotto gli occhi di tutti, cominciò a baciarmi.
Il dottore chiuse la porta con un urto che fece cadere metà delle scatole sugli scaffali, io reclinai la testa all'indietro con la speranza di non essere interrotto dalla sorveglianza.

- Devo insistere, la prego prenda i soldi, non vedo perché debba regalarmi un pieno di energia.
Dissi al funzionario della stazione, che ci guardava divertito.
- Non vedi che vuole farci un regalo di buon augurio.
Disse la ragazza, dalla macchina.
- Vede
disse il gestore
- vede, io scrivo..., bè non sono famoso... anzi non ho mai pubblicato nulla, ma a me va bene così.
E' da tanto tempo che sto pensando di lasciare questo posto alle sue miserie e ai suoi sacerdoti, e di andarmene lontano, ma ora con quello che avete fatto..., si, ieri in farmacia..., ho deciso di pubblicare la vostra avventura e di restare qui a godermi uno spettacolo o l'infarto di quel grasso maiale che da anni mantiene questa località in pieno terziario.
Quindi, vede, per come la vedo io, il regalo me lo avete fatto voi.

- Allora grazie.
dissi un po' confuso
- e buona fortuna...
disse la ragazza, ridendo, che intanto si era tolta i sandali mettendo in bella mostra le sue belle gambe color latte, appoggiando i piedi nudi sul cruscotto.
Poi senza dire una parola, salii in macchina e imboccai la strada che riportava all'autovia.
Mi girai verso la ragazza, e le dissi
- E' estate, ti va di andare al mare?
Lei si girò sfilandosi le cuffie del walkman e ridendo disse.
- Mi chiamo Lucilla, e tu?.