Mike Ràyery

nasce a Reggio Calabria nel Dicembre 1976. La sua passione per la letteratura sboccia a 14 anni con la lettura dell’opera omnia di Arthur Rimbaud. Nel suo background figurano tutti i poeti maledetti francesi, Dino Campana, oltre agli autori cult e più controversi della letteratura made in USA del ‘900 (Kerouac, Ginsberg, Corso, Burroughs, Bukowski, Selby jr., Miller, Easton Ellis etc.). Esponente del gruppo d’arte poetica Amrion. Suoi racconti e poesie sono apparsi su riviste, ‘zines e webzines underground. Opere principali: “Snapshot Cafè” –Istantanee da una civiltà in implosione- e “Downing Alone” –Liriche dall’abisso-.

CABRIO

 

passerai la serata scrivendo. già da un po' quella che vorresti fosse l’occupazione principe della tua esistenza non ti tiene più il culo inchiodato alla macchina. e sai bene quanto per te scrivere abbia importanza, quanto piacere tu tragga dal rifugiarti in quei dieci metri quadrati scarsi in cui in parte si concentra il tuo essere, e ritrovarti al mattino che le dita ti implorano tregua e la Olivetti ET 116 farebbe anche lei volentieri una pausa che tanto dei tuoi giorni da randagio ti resta ancora troppo da mettere nero su bianco. e per cui stai già versandoti il primo caffè dalla Bialetti formato maxi e hai buttato giù appena due righe che il cordless lì a terra, squillando, ti avverte in ritardo di non esserti ancora del tutto staccato dal mondo.

 

pronto – rispondi.

Michele Ràyery?

mai sentito prima.

 

la voce non ti suggerisce nulla oltre al fatto che appartiene a una donna.

 

in autostima vai scarso.

troppa ti lascia nella mediocrità.

 

le chiedi chi sia e cosa voglia. tralascia la prima. quanto di tuo gira nell’underground ha fatto una sosta anche fra le sue mani. dice di rivedersi un casino nella roba che scrivi e che “siamo uguali te l’assicuro al Glenmore c’è blues ci facciamo una birra mi piacerebbe conoscerti”.

osservi la macchina che ti osserva dal tavolo. è accerchiata dalla Bialetti, da un posacenere che avresti provveduto a colmare coi mozziconi storpiati delle Benson & Hedges e da una pila di fogli dal candore virgineo. forse domani avrai qualcosa in più della tua vita da raccontarle.

 

 

finisci il tuo Margarita. al Glenmore non c’è molta gente, quel tizio continua a ridere come un automa quando gli servono ormai la quarta spina da mezzo. l’atmosfera ti piace. il fatto che la bluesband abbia dato forfait qualche ora prima, molto di meno. se non altro di fondo ti mandano i Soundgarden di “Nothing To Say” mentre sprofondi il tuo sguardo negli occhi di Marta offrendole una Benson. ti ha detto di chiamarsi così prima di cominciare a parlare della sua vita e della sua anima -anche lei- da randagia e dei vinili di Todd Sharpville e Buddy Guy che ha comprato a Detroit e delle visioni acide che le hanno procurato i deliri di Gregory Corso. non hai avuto ragione di dubitarne. trovi strano però che una tipa col piercing forse anche su per il buco del culo, un tribale marchiato a fuoco che le incastona l’ombelico in netto contrasto col nero lucido della pelle che le avvolge le cosce, vada poi in giro col serie 3 cabrio parcheggiato là fuori.

 

“è il regalo di laurea di mio padre (è chirurgo plastico, ti ha detto) . in America c’ero già stata altre volte.”.

 

te la lascia guidare mentre procedete lunga la costa. va che è una meraviglia ma non rinunceresti mai al tuo personale American Dream se te la proponessero come contropartita. Marta trova che queste spiagge riproducano in scala ridotta le immense distese sabbiose su cui ha passato le notti fottendosi di erba anni prima in Florida. sei certo che accetterebbe mandando affanculo ogni motivo di esitazione se le chiedessi di accompagnarti in un tour su per il Nord Europa. la vedi già che balla imbottita di fumo sotto l’influsso ipnotico del ritmo con cui le tue mani martellano le pelli dei bongos in una strada della città vecchia lì a Copenaghen. peccato soltanto che l’unica lei con la quale al momento senti impagabile il bisogno di spartire emozioni e ricordi, in giro sia conosciuta da tutti col nome di solitudine. continueresti a seguire la strada fin dove finisce, stanotte. se solo Albert Collins facesse lo stesso con la sua ”I’ve Got A Mind To Travel” dalle casse del Pioneer. se solo Marta non se ne stesse lì a chiederti di fermarti.

è un piazzale privo di luci, di alberi, privo di suoni, di volti, di senso. non c’eri mai stato e rimpiangi ogni blues che avresti potuto comporre in questo nulla terreno.

 

Perché scrivi? Ti chiede.

Provo a scoprire come si stia nei panni di Dio.

Vuoi dire?

Bè, prima di cominciare una storia t’immagini i personaggi, li pensi, ne modelli l’aspetto, il carattere. Poi quando li hai portati in vita, ti diverti a giostrarne la sorte. Un po’ come Lui fa con noi.

 

vuole farti ascoltare i suoi versi. sono un ibrido dal quale capisci che nel suo background poetico figurano anche la Plath, Edward Cummings e Blake. vuole anche che ascolti quello che a suo parere è il rock blues più grandioso di sempre. dici che OK.

poi senti in crescendo le urla di Morrison in “Love Me Two Times”.

e i gemiti di piacere di Marta che sta su di te mentre la penetri fino a carpirne l’essenza.

e il tono di voce –diresti un pò più che incazzato- di uno sbirro che ti ordina di scendere immediatamente dall’auto.