Babsi Jones

scrivevo fuori dalla Storia, prima. Poi è cominciata la guerra, e da allora vado raccontando i miei reiterati itinerari nel Labirinto-Jugoslavia, Jugo-Atlantide, ex-mondo infranto, perduto ad un passo da me. E' di questo che scrivo, ora. In italiano, in inglese, in serbo-croato. Avrei voluto avere la bellezza d'acciaio di Sartre, la disdetta sensuale di Nin, l'inconsolabile estro di Dostoevskij. Invece, ho avuto soltanto la guerra. Un dramma che non cessa di andare in scena. Ecco: forse il mio è teatro.

JEDAN

Il casino che era l'Europa, l'impostura che era, dentro cui ti cercavo, e cercando guardavo. Tutte quelle Rivoluzioni d'Ottobre in quei giorni andavano in tavola tempo massimo venti minuti, un copione già scritto: degeneravano in governi coglioni, in un rumore bilioso, di cancro, che ammorbava i polmoni. Ma rapido.

Nel casino dentro cui io ti cercavo, sempre così uguale a se stesso ed al mio sgomento isolato, ogni volta ritornava il silenzio. Si faceva sentire, il silenzio: ampie pause di dimenticanza fra un rumore da cani ed un altro.

Un silenzio violaceo e duro: una cavità opaca, una macchia di nero nel tempo. Il buco era l'anima stessa del silenzio colloso, che si gonfiava e gonfiava. Io cercavo di guardare attraverso.

Fuori fuoco, fuori dalla loro piccola storia e dal corpo della Storia mondiale, alcune piccole immagini fluttuavano a istanti, come spruzzi d'intorno, che tenevano il tempo di un battito delle mie ciglia. Poco meno di un decimo di secondo: una scheggia, una scaglia, una briciola del mio respiro.

Nel casino che era l'Europa, l'impostura che era, dentro cui ti cercavo, io guardavo cercandoti. Il Migliore dei Mondi Possibili cedeva e retrocedeva sulla soglia del veduto, da vedersi di nuovo: extra-corpi in esubero, ad esempio, provenienti da stra-terre coloniali, rovesciati in procinto di morte ai margini delle carreggiate imperiali. Densi e blu di cianosi, molli e neri di botte: profughi. Non racconto che quello che ho visto. Non racconto che i brevi conati d'immagine che arrivavano a lampi, a mazzi di lampi, e dentro me si fermavano: rimanendo incollati. Extra-corpi morenti, appena sbarcati in Europa, rimanevano a boccheggiare sulle guglie degli scogli vellutati di muschio. Quelli bianchi di fame e verdazzurro di rabbia nella notte erano morti.

Nel casino dentro cui ti cercavo e cercavo me stessa, io guardavo le guerre trapassare come aghi da ricamo d'acciaio il corpo sfinito della Storia. Ogni gugliata era un rapido fiotto di sangue. Si cucivano addosso un vagone cariato di innominabili morti; poi prendevano a cangiare, a mutarsi, le guerre: trasformandosi in tregue bugiarde. Le chiamavano "pace".
(E pensavo, cercandoti, che per la pace non esiste un plurale; singolare invariabile; cosicché, per tante guerre venute e passate, per altrettante a venire e in arrivo, non c'è che una sola e singola pace: la stessa. Spugnosa di cloroformio e anestetica, turpe, forse, catartica, marcio lascito delle guerre di ieri, breve anticipo delle guerre future. Così piena di bandiere purganti, di vittorie e sconfitte annunciate, di silenzi di cancro e notturni).

Il sangue pareva si fosse d'un tratto coagulato altrove, in un rosso-mattone o di ruggine che ricopriva le bocche delle donne già tese a sorridere. Ed i morti trascorsi, così innumerevoli, così innumerati, poiché senza nome mi parevano sempre gli stessi. Mi pareva che tutti digrignassero i denti su un volto che era il tuo, che cercavo e cercavo e cercavo nel casino che era l'Europa.

E guardavo, restavo a guardare quel che non raccontavo a nessuno. Ad i cani sfiniti dal rovistare insensato. Alle piazze, le finestre e le porte trapanate dall'acne giallastra delle bombe a mazzi ed a grappolo. Risalivo e riscendevo l'Europa, come un fiume ammalato, camminando e parlando da sola: ed in ogni città in cui dormivo, mi pareva cominciasse l'assedio. Uno specchio di tempo! Certi stati d'assedio anteriori sembrava che si riflettessero in ipotetici stati d'assedio venturi, la cancrena che cardava le terre e le strade con le sue dita a pettine, Sarajevo diventava lo specchio, per cornice l'Europa e la sua grande menzogna.

Non racconto che quello che ho visto venendo a cercarti: un continente che faceva di sé lazzaretto e prigione, il suo endemico assedio come fosse una porta durevolmente richiusa, ultima stanza dell'inferno globale. Ti cercavo per dirtelo, che l'avevo veduto. Ma tu eri impalpabile e liquido, in esilio, illegittimo figlio di un nessunissimo dio: un angelo in mezzo a questo casino. Scampato per un pelo o una piuma, atterrito e nascosto, ed attonito, ansimante e invisibile, dentro quell'impostura che era l'Europa nella quale io venivo a cercarti.