Salvo Di Martino

è nato a Palermo nel 1973 d.c. e fa il grafico. E' vissuto a Ferrara e fece l'operaio. E' ancora convinto che la scrittura possa servirgli a qualcosa... Vorrebbe capire se le sue storie sono batter d'ali o semplici piume che non sanno volare.
Passo e chiudo da Alphaville.

Ultimo ricordo da Alphaville

Agli Spartaco di tutte le Alphaville

Il "me" era morto. Il "se" era infranto in minutissimi "loro". Minimizzare la faccenda, insabbiare prove e provini fu più facile del previsto. Ci avevano detto che a dispetto della piega che il caso stava prendendo ne saremmo rimasti tutti fuori...Movimento dietro i pesanti tendoni, qualche luce si estinse nel buio della sala. Lentamente, lo spettacolo, ebbe inizio.

Insegna arte e suoi derivati.
Arabescando l'aria densa di aliti mattutini con essenziali colpi di mano - fruste, gatto a cinque code - richiamo l'attenzione delle fiere; mi pare sia il caso. Già, il caso.
I ragazzotti le ragazzotte: testa a falde larghe, ampie fronde umettate di fissante, biondo platano; veri solo alla radice.
Dichiara apertamente la metafora. Gli è concesso.
Unghia rosicchiate dal tempo che non passa mai e da quello che deve ancora venire, i ragazzotti e le ragazzotte, guardano con apprensione.
E' ossessionato dal tempo, dall'infinitesimo e dagli istanti che passano. Ma non sa neanche cos'è, il tempo.
Prima o poi salterà sulla cattedra, metterà un collare omologato MGM e ruggirà per l'ultima volta.

Quella mattina era afa d'agosto e il sole aveva fatto sciogliere gli occhi all'iguana di Naila, studentessa-casalinga in economia domestica.
Mentre scrive, ride, e vorrebbe far partecipe anche il lettore di quella che lui ritiene un'interessante giustapposizione di termini.
Naila seppellisce le spoglie del sauro domestico nel vasetto di piante grasse, sopra il davanzale, conficcato nel palazzo, innestato nel sottosuolo - livello 7. Rissa. Chiamare 2° unità -, incastrato in una regione, disegnata su una mappa di un pianeta che non conosciamo.
Dove non-siamo. E' proibito.
"Che le tue squame durino per l'eternità e le tue viscide spoglie scivolino quiete verso la pace eterna," la sentii mormorare timidamente, mentre risistemava una lapide spinosa sopra il fu rettile.
Il sole doveva essere alto, lassù, nell'azzurro artificiale del cielo: una piccola folla di nuvole sintetiche resisteva eroicamente: piovve cenere da una terrazza, all'n-esimo piano. Lui parla dal quinto, seduto sulla Poltrona Dei Ricordi a ripensare a qualcuno; a qualcosa che ricordi qualcos'altro.
L'avvocato C, al secondo livello, rilegge l'epica battaglia fra A e B per due metri quadri di terreno.
Tutti e tre affogavano nel caldo, con gli occhi ancora incrostati di sonno residuo. Pensai, socchiudendo le palepebre, ad un amore passato; pensai che gli occhi dell'iguana non avrebbero più goduto dell'ebbrezza del sonno che arriva e dell'amore che passa.
Il portiere svuotò rumorosamente il secchio d'acqua, nel chiusino, al centro del cortile.
Ora ascolta un lartare lontano e corregge la parola "lartare" con "latrare".
Riflettei ancora due minuti, proprio dentro la tazza di caffè ormai freddo, sulla solenne semantica della preghiera di Naila. Poi, lasciai che l'abitudine mi vestisse, aprisse la porta di casa, quella dell'ascensore, salutasse lo svuotatore di secchi e silenziosamente m'inoculasse nel traffico del mio livello. Via Ovai.
Divertito da questo gioco di parole, procede oltre; decide che è ora di fare una breve pausa.

Gli appelli continuavano inesorabili fino al 10 agosto: io e qualche altro sparuto gigante ci intrattenevamo in complicati rapporti - non paritetici - con altre forme di vita, al fine di stimarne il grado di incompetenza: Esame.
'Non si finisce mai di imparare,' pensai più tardi, ciondolando la testa sul collo. Decise se era il caso di sciorinare qualche spicciolo di competenza in storia dell'arte: raccolse due o tre nomi che conosceva e girò il cucchiaio di legno dentro la testa.
Appresi che Michelangelo aveva da pochi mesi restaurato la Cappella degli Scrovegni; che Munch amava dipingere Gala, sorella di Dalì, davanti le bellissime scogliere di Cadaquès. Le Corbusier, - soprannominato, appresi, "le modulor"- appariva l'artefice delle rampanti e ossute arcate di Notre Dame. La giostra di nomi lo soddisfece e procedette oltre...
C'erano state molte vittime quel giorno; certamente, nessun monumento ne avrebbe degnamente onorato la memoria. Pensai: 'E' agosto, fa caldo; se gli occhi delle iguane si sciolgono perché non i cervelli?'.
Era vero tutto questo; ma era altrettanto vero che non potevo continuare a tollerare quello scempio.
Non volle essere complice, recidivo, del sacrilegio: i maestri, grandi, artisti, lo guardavano severi e contegnosamente indignati: non volevano morire in quel modo.
Ne paventava la venuta notturna con gemiti, sussurri e grida, che l'avrebbero lasciato insonne, al centro del letto, con il pollice fra le labbra e l'attesa di un bicchiere d'acqua fresca, il pretesto per accertarsi che mamma c'è e ci sarà sempre.
Sentimento. E' proibito.

"Eeee...dunqueee...comeeee... le dicevooo...professoreeee...". Mi diceva? Se non allungasse le 'eeeeeee', 'uuuuuu', 'ooooooo', sarebbe anche lontanamente possibile tollerare le pause fra una parola e l'altra. "Lei ha mai sentito parlare del neogotico?". L'espressione del fanciullo attraversa quattro lunghe stagioni di terrore, carestia e miseria, morte e pestilenza. Mentre cavalieri medioevali cominciano a molare lunghe spade, ancora incrostate di linfa nemica, e abbassano la celata in segno di sfida, il popolano, con il destino che gli muore negli occhi dice:" Mai...mai sentito," pausa supplichevole "...professore".
Esagerazione. E' proibito. Falsa identità.
"Il neogotico!" esplodo, sollevando di un'ottava il tono della voce. "Non hai mai sentito parlare del neogotico!" abbassando l'apparato bifocale sul viso e sfidando a singolar tenzone il villico in similpelle. Che si rannicchia dentro il collo e scompare nei pressi del duodeno. Chiedo al collega, appassionato di archeologia e affini, di organizzare una spedizione e avvisare i familiari che l'allievo si è perduto al suo interno. Forse cercava se stesso; ma non ora, diamine!
Non ha senso. Tutto questo non può averne. E' proibito il non-senso.
Negli anni che seguirono, bivaccai, di tanto in tanto, nel dubbio che l'allievo avesse inteso "nevrotico" e non "neogotico". Sorrisi del malinteso, alzai le spalle e abbassai le palpebre su un altro ricordo...Buio in sala.
Si alza, accompagnato dall'effetto sonoro di sedia che stride, chiusura registro, chiusura penna, valigetta portatutto, porta, portiera della macchina, contatto del motore. Indignato, direzione dimora.
Seguire Kvranz. Professore? Massima attenzione.
E' proibita la falsa identità.

"Papà dammi dei soldi...".
"Chiedili a tua madre...".
"Mamma!".
"Quanto?".
"Cinquanta...".
"Te ne do cento e togliti dai piedi".
Rimango solo, al centro del salone scarsamente illuminato dalle insegne lì fuori. Il buio è liquido, tangibile: mi pare d'affogarci dentro.
"Sono neogotico!" le dico urlando. 'Nevrotico,' penso, 'volevo dire nevrotico...'. La lavatrice digerisce i panni sporchi che si lavano, meccanicamente, in famiglia. Con un programma qualunque, tanto in televisione fanno sempre le stesse cose.
Retorica. E' proibito.
E' convinto che questo trasfigurare di concetti - programma di lavaggio-programma televisivo - possa calare il lettore nel clima familiare che renderebbe tutto più semplice e...familiare. Inorridito dalla semplicità, mette subito le carte in tavola, non ancora apparecchiata perché oggi forse non si mangia. Ricade nella trappola di prima, quella del "clima familiare che renderebbe tutto più semplice", ma non voleva.
"Il nano" dico, visibilmente stizzito "non imparerà mai cosa sono i soldi. E' ora che qualcuno glielo insegni". Continuo:" Numero uno!".
Non alludeva a se stesso, non è il numero uno lui.
Era solo il primo di alcuni punti di discussione, ai quali ne sarebbero seguiti altri. Erano stati sviluppati metodicamente nel giro di due settimane; scelti fra altri grandi temi, ispirati, in parte, anche dal giornale radio, in parte, ispirati, anche, dalla cronaca quotidiana. Dalla lettura di un buon classico nascosto nella presa d'aria.
Proibito.
"Tu lavori?" dice Suzi.
"Sì".
"Io lavoro?" replica.
"SSSì".
Coniugata la prima persona: Albert e la seconda persona: Suzi, disse: "Mio figlio, il nano, ha chiesto i soldi a: ...................". Completare la frase con la parola mancante.
E' proibito. Non-senso. Non-senso.
"....A?" gli faccio io, scrivendo a penna - trema la penna, trema! - la parola mancante.
"A mamma!" allargando le braccia e il sorriso che si spegne dopo 3 secondi esatti.
Che potrei dire adesso?
Notare: qualche rigo fa scrisse "ispirati" e gli venne voglia di scrivere qualcosa sui "pirati". Ma gli sembrava stupido e ricopiò un altro appunto dal taccuino ad anelli, sopra la scrivania: taccuino sul quale, giornalmente, scrive, annota, schizza. Che apre che chiude, che sposta, che allontana, che riapre e scrive. E' proibito.
"Sta' zitto che è meglio, cretino!" divampa Suzi, leggendomi, evidentemente, nel pensiero. Sento movimenti eccitati dentro la stanza, dentro la testa; un prendere borsa, chiavi, cadono dei libri autorizzati, urta i pochi mobili, monetine che rotolano, impronunziabili imprecazioni.
Impossibile. E' proibito.
Vorrebbe che il lettore sentisse questi rumori...Ma lei è già fuori, non c'è tempo. Già via, scappata, fuggita dal un destino noioso, miope e tarchiato, sposato dieci anni fa, tradito qualche volta, commiserato spesso, mai lasciato per opportunità mancata. Fosse questa sera la volta buona, chissà...
Chissà se è il caso di parlarne ancora. Mi chiedevo: è il caso di parlarne ancora?
Non trovò risposta, perlomeno in tempi brevi. Passò l'intero pomeriggio a rimuginare sul da farsi e sul già fatto. Su quello che riteneva essere un bel racconto, in fondo. Ma ancor più in fondo lo riteneva spazzatura, imbellettata, profumata, orpellata spazzatura. Insulsa accozzaglia di parole in picchiata verso la fine del foglio, dirottate continuamente verso altre mete, verso altri "Storiaporti". Non lo convinse molto la parola fresca di conio. Ma si rallegrò del fatto che gli fosse venuta spontanea: e se glien'era venuta una, forse, ne sarebbero giunte altre e altre ancora. Ebbe la piacevole sensazione che le sue dita fossero irresistibilmente attratte dalle 'F', dalle 'I', dalle 'N', dalle 'E'. S'accorse che non era ancora il momento di chiudere il coperchio della tastiera e ringraziare - inchino, studiata riverenza - gli spettatori. S'accorse che c'erano ancora da sperimentare i tasti neri - quelli che non si suonano mai, quelli che sembrano inutili .
E poi la musica cambia, lo senti che cambia. Lo avverti il bemolle, il diesis: sono loro che scrivono la storia. Quel che conta.
Tasti neri. E' proibito.
Continuò così per due lunghissime ore. Non c'era altro da fare, per lui, che picchiettare le dita sulla tastiera - del pianoforte? -, lasciarsi avvincere dalle dolci, scure, note; rischiarate soltanto dalla debole luce sulla scrivania.
Perse, disperse, parecchie idee: geniali alcune - ma era lui a stabilirlo -, déjà-vu altre. Non importava.
Fu mattino, sera, di nuovo mattino. Non importava. Fu notte, giorno, di nuovo notte...Non importava. Il tempo non aveva più l'antico e artificioso potere affidatogli dall'uomo. Scrisse allora delle frasi sul tempo. Gli sembrarono liberatorie.
E' proibito!
Il tempo è il palcoscenico del perché delle cose.
E' proibito!
Il tempo è l'arbitro del nostro umore.
E' proibito!
Il tempo è il buon portiere dei nostri falliti rigori...
Oh! Quantunque potrà sembrarvi folle il mio divagare, sappiate che è l'unica strada per raggiungere la fine di questa pagina: perché il tempo è finito; tutto, fra poco, diventerà memoria.
Sul video, catodico ciclope, comparve la scritta: "Lasciate ogni speranza, voi che uscite".

 

Se lavì...di corna, compagni e cose da dimenticare

Ero stanco. Ero stanco e si vedeva, non potevo nasconderlo che ero stanco e si vedeva che lo nascondevo egregiamente...
In fabbrica dicevano di me:" Lo sanno tutti ormai. Lui fa finta di niente, ma..." Ma... Ma, cosa? Io non facevo finta di niente; sapevo. Non avrei voluto.
E non mi andava, la mattina, di immergermi nello specchio del bagno, nel piscio della tazza, in quella del caffè. Che ci avrei trovato lì dentro?
Nervoso. Ascoltare il pulsare dei muscoli sotto la pelle, tremare come una foglia se la porta si chiudeva da sola. Vento. E freddo.
E' gelida stasera.
"Ma che hai?"
"Lasciami dormire". 'Dormi allora, cretina!...No, non così, scusami, non volevo...'
"No, non così... Ma che ti ho fatto?"
"Non cosi, non così!? Parli da solo, ma che dici? Dormire, voglio DOR-MI-RE..." e si gira, verso la finestra che dà su Via dei Mercati. Passa la volante e l'ambulanza, frenano e ripartono.
Chiudo la tapparella, gli occhi. Li apro durante la notte, tanto le palpebre non fanno rumore. Mi esce dal bianco latte un certo desiderio.
Il sedere tondo, dentro la camicia da notte tesa come un tamburo. Le spalle magre, scoperte al mio sguardo e alle cronache nere del giorno dopo. Rabbia. Pugnalate. Bel servizio.
E servirebbe?
No, non così.
Chiudo le palpebre definitivamente e da qualche parte il cane scampato alla volante abbaia alla luna di domani.

"Ci hai parlato," mi dice Enrico. Lui è un uomo che è alto due armadi circa. Sa cucinare bene pollo e peperoni e vive con la madre, che rischia la vita se non si fa d'insulina.
La sorella di Enrico martedì sera mi chiede di uscire; una pizza, un gelato, e il resto.
Ed io:" Stasera no, domani, domani..."
E mai più.
"Bravo, "dice Enrico "non hai perso niente." Ma è come se fosse dispiaciuto perché quel mezzo sorriso che ha sempre si spegne dopo un secondo esatto. Pacca sulla spalla. E certe passate pacche riemergono dalla schiena. Come pinne di squalo...
Bravo, non hai perso niente, trascinando sull'ultima parola il mezzo sorriso. E gli squali s'allontano.
Lui invece perde: si gioca lo stipendio al videopoker del bar di Bartolo. Nel Viale dei Caduti, vicino al monumento di Garibaldi. Grand'uomo. E' alto due metri e pesa quanto due armadi. Ma ha il videopoker che gli fa difetto.
Grand'uomo Enrico, veramente.
Poi esce dal bar e conta i passi alle donne che ritardano alla cena o a quelle che anticipano le corna ai mariti. Glieli conta scrupolosamente mentre immagini chissà quali avventure.
Ne segue una a sera e dice che il suono dei tacchi sull'asfalto è sempre lo stesso. Anche se piove. E' sempre lo stesso. Anche se hanno fretta. E ' sempre lo stesso.
"E che gli dico?" Guardo il lucernario; l'inverno entra più della luce: "Ogni volta si nasconde dentro il lenzuolo e dorme".
"Fa finta," mi dice senza guardare. "Fa finta perché crepa di paura, coglione."
Crepa, crepa di paura! Crepa anche tu, armadio di carne, coglione genetico. Crepa!
Ma gli voglio bene.
"Devi farle vedere il rovescio della mano. E poi si calma, garantito."
E comincia la storiella della sua vita.
Di quando lui era sposato. Poi lei lo tradiva e lui la picchiava. Lei lo tradiva più forte e lui picchiava più forte. Alle nove di domenica, il paritetico crescendo, viene interrotto da DLIN-DLON.
I vicini chiamano la polizia perché al secondo piano del civico 44 di via Patricolo gridano come i matti e rompono tutto. E lui passa la notte a fissare i muri della questura dopo volontario mutismo davanti alle forze dell'ordine.
E lei passa la notte dall'altro.
Poi si lasciano e lui non gli paga gli alimenti. Avvocato, minacce, avvocato, minacce e altre storie. Ma è un altra storia.
"Quella lì era una puttana. Fai così che fai bene, credimi!" E si esibisce in un rutto da roba gassata.

Vorrei andare in vacanza, lontano...

"Che dico al caporeparto? Mi sono giocato le ferie l'anno scorso." Il rumore del tornio, quello della sega, quello dell'estrusore, coprono la risposta di Enrico. Esatta. Gesticola, mi scosta la faccia con la mano e gira due volte la maopola ocntrassegnata dalla lettera "A". Mi dice, perché parla con gli occhi:" Vai in malattia. Fottitene di tutto e vai in malattia?"
Che m'interessa. Me ne fotto di tutto e vado, vado in malattia.
Arriva il capo; baffi, capelli col riporto e quella sua aria che si confonde con quella della nafta. C'è da pulire per terra. La segatura dov'è?
"Voi due vi devo separare. Parlate troppo. Vi devo separare." Con la testa che gli ciondola sul collo e le dita che fanno "tic-tac" come un pendolo al rovescio.
"Ha ragione. Ci scusi, ci scusi," servile, Enrico.
Ci tratta male questo padrone, è vero.
Che fare?
Enrico si dirige verso il bancone degli attrezzi, estrae la chiave da dodici dal cassetto di metallo; va verso il capo che gli da le spalle. Gli vuole svitare la testa ma la chiave è piccola e i padroni sono immortali.

"Accomodati".
Sua madre è esposta in un angolo della stanza da pranzo, immobile. Tanfo di patate e broccoli. La foto di sua sorella ora m'invita a guardare altrove.
M'invita a cena, Enrico. Non lo ha mai fatto. Deve dirmi una cosa, dice.
"Stasera mangio fuori, mi senti?" Il rumore del tornio fa a gara con quello del compressore. "E allora? Fai pure, io vado da Miriam, a giocare a carte. Buonanotte."
Secca.
Magra, con le spalle ossute.
Non mi aspetta mai a cena perché dovrebbe farlo stasera?
"A che ora vengo?" dico a Enrico.
"Vieni quando vuoi. Ah," mi fa: "Passa da Bartolo e compra un paio di birre. Mi sono finite".
"Due birre."
"Seimila."
"Buonanotte..."
Bartolo dà una passata veloce di pezza umida sul bancone. Mi pare di averglielo visto fare anche prima che entrassi. Mi pare che lo fa sempre. Cancella le impronte, non lasciamo tracce. Le spalle di un altro videopokerista fanno da schermo al ricordo di me che giocavo...Anch'io. Vizio di fabbrica.
Citofono bruciato dai teppisti. "Enrico! Enrico!" Finestra aperta, per fortuna.
Si affaccia dopo una dozzina di "Enrico, Enrico!" e mi fa un cenno con la mano.
"Sali!".
Piano secondo.
Ci sediamo, mangiamo, facciamo finta di ridere, guardiamo la tele, facciamo finta di guardare la tele: quel fesso non sa recitare, lo guardo di traverso e ride di traverso; questo pollo sa di medicinale, quell'altro pollo ci fotte le pensioni e la liquidazione; questa sera sto male. Ci capiamo.
L'insulina ci avvista da sopra il frigo.
"E tua madre come sta?"
"Bene," non mastica più. Ingoia la palla di pollo. Mi guarda. Dice: "Ci hai parlato?"
E' brusco. E' rozzo, grande come due armadi vuoti.
"No."
Enrico stabilisce che ci dobbiamo alzare, andare verso il salotto e parlare.
Non ha ricordi appesi al muro in questa stanza: quadri malfatti, statuine con la faccia da fesso spizzicate dalla noia di spolverarli ogni giorno. La foto di sua madre e suo padre, mal incastrata dentro una cornice in finto argento, è gialla di tempo. E' un ricordo sbiadito...
"Io non riesco a parlarne di questa cosa. E' mia, Enrico. E' mia."
"E' anche mia."
"Che c'entra."
"C'entra."
"C'entra...In che senso?"
Gli occhi hanno lo stesso guizzo di un pesce che sta per scappare dalla rete. Quando mi sembra che la verità che cercavo non può che essere dentro uno sguardo fintamente distratto, proiettato in un punto qualunque che non siano i suoi occhi. Appena al di sopra.
Quando capisco le cose che non vorrei, la pelle attorno alla bocca si secca e mi ricordo di tutto il male che ho fatto in quarantatre anni: Capire è come morire: la vita ti passa davanti in rapida successione: dal parto cesareo alle caccole sotto la sedia della cucina di zia Maria.
Lungo silenzio. Il frigo tossisce, sua madre tossisce. Enrico stappa una bottiglia di birra, se la spara in gola.

La tapparella alzata.
Entra ancora inverno.
L'odore del caffè è buono. Il gorgoglio della caffettiera fa vomitare.
E ora suona la sveglia. Che ho comprato alla fiera dell'antiquariato, un vero affare. Per trentacinquanta euro.
"E' cara."
"Ma guarda quanto è bella!" soppesandola nelle mani, con attenzione. Come fosse di cristallo finissimo.
"E' cara, posala," guardandomi storto.
"E cara, dai!"
"Non mi chiamare così, scemo."
Secca, come sempre. E' a dieta anche di affetto.
La poso. Il giorno dopo ci vado da solo e la compro. La metto sul comò e lei la scopre che strilla alle cinque del mattino. L'inferno.
Due giorni senza parlare. Poi si calma e tutto torna alla normalità. Continuiamo a non parlare per intere settimane.
A saperlo prima. La tovaglia cerata riflette il neon e mi viene voglia di spegnerla. Mi da la schiena. Lava i piatti e le posate, e i bicchieri, li asciuga.
"Perché proprio Enrico?"
Il bicchiere gli scivola dalle mani, rapido gioco di dita. Cerco di acchiapparlo anch'io. Sembriamo due prestigiatori dilettanti. Ma lui è come un anguilla. Cade e non si rompe. E' una magia.
Solo buon vetro industriale.
"Lasciami in pace," raccogliendo il bicchiere "ne parliamo quando torni."
"E non torno, cosa credi?!" Alzo il tono e abbasso la cresta, in fretta. E dove vado?
La porta la sbatto e l'intonaco lo faccio cadere. Fa il suo effetto.
La sento che spara il bicchiere a terra; e lui si rompe in un solo rumore.
L'incantesimo è spezzato.

Con Enrico è come non vederlo. Lo sanno tutti ormai. Certi rumori fanno meno male alle orecchie e certi occhietti zuppi fradici di sfottò idiota mi distruggono.
Che fare?
Ieri mi sono alzato, scappato, da casa di Enrico. Lui:" Aspetta, parliamone, aspetta!". Io: "Aspetto cosa, cosa! Bastardo! Pezzo di merda! Affanculo!".
Cadendo giù per le scale che quasi mi rompo testa, caviglie e il resto. Porte che si aprono, "ma chi è , che cos'è, ma chi è". Ecco. Che cos'è che è rotlato giù dalle scale? Sacco di merda. La porta al secondo piano si chiude per la vergogna e il palazzo mi sputa fuori con un colpo di elettroserratura.
Fuori c'è niente.
Entro dentro il freddo, dentro la macchina, dentro casa mia e sua, dentro il letto.
Lei neanche se ne accorge. Sibila qualcosa fra i denti. E poi dormo, sporco dei miei e suoi sensi di colpa. Nel bene e nel male, ci dobbiamo dividere tutto.

"E fermati! Cerchiamo di parlarne, no?" Per dire che? Enrico io l'ammazzo, l'ammazzo!
Io sono stato brusco. L'ho spinto e lui non si è neanche mosso. E' alto e forte. Ma io ho la rabbia che mi massacra la carne. Vorrei vederlo morto...

Era un grand'uomo. Con tutti i difetti possibili, era un grand'uomo.
Alla cerimonia sono intervenuti tutti i colleghi, il caporeparto, i familiari. Il direttore dello stabilimento ha mandato un telegramma: era in vacanza e non poteva fare altrimenti..
"Gli hai voluto bene?"
"Si...cioè, no....Non so..."
Non sa. Lei non sa. Lui è morto ormai, io sono morto ormai. Storia di corna che sembra più un giallo e lei, ancora, non sa.
Mah....

"No!" ultimo spintone.
Non mi giro e lascio scivolare il suo sguardo dalla schiena ai tacchi, alla strada, alla pozzanghera violetto - solvente speciale, brevetto speciale -, la sua ombra, i suoi piedi e di nuovo la mia schiena. Ma ormai sono lontano e deve venirgli difficile potermi pugnalare per questa seconda volta. E lei, ora, che farà?

Ed io.

Dio...
Casa chiusa a chiave. Non c'è. Entro: "Ci stai? Dove sei?"
Non c'è. Tutto sa come di vuoto che mastica pure la polvere sopra la tele. Trecentosessanta gradi per inquadrare bene tracce di ultimi movimenti: valige, calze di nylon cadute dalla borsa da viaggio, burrocacao esploso in mille pezzi semisciolti.
Telefono.
"Sei tu?"
"Tu chi? Sono Enrico".
E metto giù, e metto fuori posto, e vado in cucina evitando i resti di altri tre bicchieri non magici. La pentola fa da sauna alle mosche e uno scarafaggio aspetta il dolce sopra il tavolo. E quel tanfo di chiuso si confonde con quello di cesso turato.
Mi appoggio alla porta per tutto quello schifo: per quello che c'è e che c'è stato fino a poche ore prima.

La macchina sa la strada e mi porta nel lungomare mezzo desolato.
Dove successe che un giorno, con Enrico, prendendo il gelato della domenica...
Tavolini, bar affollato, tanto rumore di cose raccontate.
"E sua questa sedia?"
"La prenda pure. Aspettavo una persona." E mi siedo alle sue spalle. E cominciano le basse strategie d'abbordaggio di Enrico. E io che gli faccio segno di stare zitto, fermo. Fermo. Poi viene la persona, Bella Donna. Ad Enrico non piaceva però. Le solite due o tre occhiate, le solite frasi, il solito gelato da offrire, perché era estate, l'ho detto. Era l'ora di una bella estate ed in quell'ora che la conobbi.
Solo qualche pescatore, qualche piccolo intervento di manutenzione alla splendida casetta bianca e verde che da sul mare...
"Mi piacerebbe abitarci, qui."
"Quando sarò ricco te le compro tutte..."
"Scemo! Me ne basta una. Magari con un bel balcone..." E nel frattempo Enrico sgomita come un pazzo: "Ci sta, ci sta," dice, sputacchiandomi nell'orecchio. Sembra contento.
Lo guardo. Era proprio quello il balcone. Che schifo. Che ricordi sbagliati...

Ci vogliamo pensare bene?. Io non ti amo, cosa vuoi di più. Ma dopo tutto questo tempo. Le cose cambiano. Le cose e le persone. E tu, perché sei cambiata. Capita. Non dovrebbe. Ma capita. Ma era per sempre. Il per sempre non esiste.
Ho capito.
"Ci vediamo qualche volta?"
Mi guarda. Lasciamo perdere.
E va bene, va bene.
"Se lavì"
Così è la vita?
Come si dice, come si scrive...comunque: così è la vita.
Incontro Enrico dopo un mese che mi sono licenziato dalla fabbrica che sembra una vita. Non per la vergogna, ma per lui.
Lei lo ha lasciato.
"Se lavì" mi dice.
"Così è la vita " gli rispondo rubandogli il mezzo sorriso.
E siamo qui, ancora al bar di Bartolo, a farci cancellare le impronte sul bancone col bagnasciuga e a guardare la bocca della signora Moretti diventare sempre più distante. E poi uscire per strada, seguire i passi "toc-tac-toc-tac", lasciare che la strada diventi sempre più larga: giustificare così, con la prospettiva che si allarga, un rapido "ciao, ci vediamo domani". Poi la strada di ognuno diventa piccola e stretta: più o meno quanto un corridoio. In fondo, comodo, un letto, largo quanto due piazze. E si sta più comodi anche in uno. E domani ho la fabbrica. L'avevo, anzi...Va beh, ci sarà qualcos'altro, dai. E domani non ho più niente io. Ed io, allora? Tu, cosa? Niente, dai, niente... Siamo tutti sopra la stessa zattera rotonda...Fermi in un porto universale...
Troppe parole. Ne bastavano due, quelle che servono. Che vuoi farci...Se lavì.