Barbara Wilde

scrivo sine die racconti che si smussano da soli. Ne lascio uno esemplare. Saluto i lettori. Se voleste contattarmi, lascio la mia e-mail: barbaraanne.wilde1@tin.it

IL GIGANTE UNIMENSALE

Quando il Gigante si destò, ebbe subito la morsa della fame, proprio come un morso all'esofago e in avvicendamento un grande vuoto e una forte strizzata al piloro. Era il Gigante Unimensale, che si coricava sul bordo flesso dell'universo rappresentato. Solo come un brevetto dimenticato, era occupato da sempre e per sempre nell'esercizio dell'edùle e contava il tempo a modo suo nell'immenso spazio temporale, sommando un nuovo piatto al suo già esteso ricettario. Più che esteso, un nastro infinito che andava dall'infinito alla sua mano; svolazzante tra correnti di vento sabbioso, galvanico sull'elio in combustione e ballerino tra i boati stellari.
Il Gigante, annotava le cose sul ricettario con una penna d'oca titanica che immergeva in un ipercalamaio lordo. Tanto lordo da rivoltare il budello che abbiam tutti (compreso lui), (anche se il suo, tanto per rendere l'idea, più che finire nel retto non finiva mai, come la retta cartesiana). Ma ce la immergeva con graziosità. Sempre con il sorriso sulle labbra. Combinava le sostanze che già conosceva con quelle che non conosceva, data la vastità delle risorse. Questo era talmente importante per il Gigante Unimensale che dormiva pochissimo e vi si dedicava del tutto nella veglia. L'unica interruzione la serbava per la rimozione organica della digestione, durante la quale ammirava l'ambiente per tener conto degli eventi meteorologici, secondo i quali, poteva aspettarsi parecchi dispareggi riguardo agli ingredienti virtualmente godibili.
In ogni modo il Gigante Unimensale sapeva bene dove trovare quel che gli occorreva. Conosceva le coordinate astrali d'ogni dispensa cosmica e tutto l'universo nel minimo dettaglio. Per questo si sentiva perfetto, un autentico gigante autosufficiente, a volte percepiva d'essere il tutto perché il tutto era suo. Oppure acchiappava gli elementi con una destrezza messa a punto nei secoli dei secoli. Li acchiappava mentre gli saettavano accanto, tra le meteore e le comete. Li sbriciolava e li appassiva sul fuoco dei soli. Raggranellava i frammenti, setacciava le polveri, impanava e friggeva i medaglioni planetari, modellava con le dita gli impasti semifusi o se erano sciolti li decantava, condiva con l'ambrosia, crogiolava a fuoco lento e alla fine guarniva con sapienza, speziava con polviscolo stellare che gli frizzava in allegrezza nella strozza. Poi, diuturnamente, inspirava e odorava gonfiando la sua mole e dondolando il capo, a occhi chiusi. Allestiva il desco: ci poggiava sopra un mensale di stelle brillanti e un sovrumano disco minerale in cui alloggiava la vivanda novella. Mangiava con le mani.
Assaporava, ogni volta, un mischio diverso, dressato ad arte sui piani rivoluzionari delle galassie. Gli dava un nome nuovo e lo annotava lì per lì. Se nella copiosità del bolo, lui percepiva nuove armonie di sapori e nuove note aromatiche, le sue papille da gigante si struggevano e la gola si inondava d'acquolina. E facendo da mangiare, soppesava e correggeva gli ingredienti variandoli in quantità magari d'uno scarto infinitesimo, è chiaro quindi che ogni minestra o pietanza o antipasto o dessert si differiva da tutti i precedenti e da tutti quelli a venire. Tra ogni eucaristia passava un tempo senza fine perché a tavola, appunto, non s'invecchia mai. Senza stacchi temporanei a parte il sonno breve e la toilette, il Gigante Unimensale affinava l'arte culinaria indefessamente e amorevolmente. Dai tempi dei tempi. Arrivò a non aver più niente da combinare.

Fu come morto. Si ingobbiva e si chiedeva: "Ma com'è possibile?". Leggeva e rileggeva il nastro-ricettario, tra tutti i + + e gli appena un po' di più e tutte le sottrazioni possibili di misure d'ingredienti, tra tutte le microscopiche variazioni, tra tutti gli infiniti accostamenti. Dava la colpa al tempo, ai rifiuti, alle ozonosfere bucherellate, alle glaciazioni, all'effetto serra, al disboscamento, ai satelliti dimenticati, al consumo insostenibile, alla globalizzazione, allo spreco d'oro blu, no, aspetta, cercava di capire se il tempo atmosferico stesse cambiando drasticamente, cercava una causa e una via d'uscita anche perché stava morendo sul serio, d'inedia ovviamente, ma quella era la cosa che contava meno. Proprio non capiva: come un passato a tergo senza fine, costellato da un'infinità di componenti e di ricette differenti, fosse terminato all'improvviso. Cercava un'altra chance. Un'altra mescolanza, l'ultima, niente di speciale tanto le soddisfazioni erano state tante ma, cerca, e ricerca, niente da fare. Che la cosa finisse così senza senso per lui era alto tradimento, lo abbacchiava. Allora chiuse gli occhi e posò la testa sul dorso delle mani e le mani sulle ginocchie.
Fu lì che gli arrivò la farina. Gli passò addosso come un leggerissimo alito di vento. Gli sollevò la coppa e gli imbiancò la faccia. Gli parve buonissima, un po' per la carestia e un po' per la consistenza che c'aveva in bocca, sciolta con la saliva (molliccia, in realtà, ma per lui deliziosamente soffice). Il Gigante Unimensale fu felice come una pasqua. Con le sue mani enormi ne raccolse tanta e subito si diede a cucinare. Decise di non esigerne la provenienza. Non chiese di chi era o dove stesse andando o se sarebbe mai ripassata. Benedetta farina, che lui chiamò più o meno 'Salvezza e Desiderio' (nella sua lingua qui non è possibile trascriverlo). La impastò col sudore e la mise a lievitare accanto a una stella. Attese. Poi la tagliuzzò alla Julienne e la cosse. Vennero fuori i grissini.
Il giorno di poi una gallina rossorame svolazzava per il creato buio e silenzioso: era una vasta gallina in preda al panico e in preda ai potenti soffi dello spazio, inteccherita per il gelo e ammutolita per la novità del luogo. Il Gigante Unimensale l'acciuffò all'istante per il becco. Se la rigirò nelle manone: la gallina si muoveva da sola! La odorò: aveva un odore acuto di pollaio, un po' salino e un po' stantìo. Nell'emozione la gallina fece un uovo e di nuovo un altro, di nuovo un altro ancora. Le uova scivolarono sui palmi del Gigante e caddero nel mezzo a un mucchione di farina, si ruppero e zampillarono come una fontana. Il Gigante che, come sappiamo bene, era avvezzo alle sperimentazioni, impastò il tutto col sudore, l'appiattì e lo cosse. Venne fuori la pastasciutta (all'uovo).
Il giorno di poi arrivò lo zucchero, non proprio in granelli raffinati ma in un unico blocco sodo cristallino marron: il gigante lo scansò per un pelo assorto com'era ad osservarlo, a capire cos'era. Non fu lesto a pararlo e quello si schiantò e si frantumò, precipitando in una nuova fontana di farina colle uova dentro: il gigante era fuori di sé dalla gioia, era matematicamente raddoppiato. Impastò il tutto col sudore e mise a cuocere. Ne risultò un unico arcibiscotto.
Il Gigante Unimensale spartì il biscotto con la Gallina Rossorame che, visto l'andazzo, aveva preso coscienza dei suoi diritti. Dalla manona gigantesca cresceva il nastro-ricettario; lui annotava, faceva ogni mattina un occhiolino amicale alla gallina e lei, inespressiva, lo ricambiava con un uovo. Vissero per sempre felici e contenti.

(Ogni allusione ad una favola che aveva come protagonisti un gigante e una gallina è casuale).

(Il Gigante Unimensale e la Gallina Rossorame andarono per l'universo a fare la spesa).

 

MARE E URBE

Qui a Temposcura, una volta c'erano due luoghi disgiunti di netto da una lunga riga di scogli artefatti a grosse bugne. Zampettandovi s'era tra il mare Tempo e l'urbe Scura.
Di qua la costa dell'ovest italiano col fondale di monti adunchi e di là l'urbe dissestata, tutta affumicata e sporca e con una marea di camini zeppi di bistro. Abito ancora in quelle case d'assi là in fondo alla sabbia. Come vedete, sono case che oramai hanno tant'anni. Tutte incrosticciate dal sale raffermo, tutte rotte nell'involucro e nelle gronde. Abito là dentro col mio orologio a palla di melamina arancione che era stato della zia Pia. Una mattina andando sulle bugne era maggio pieno, c'erano a sinistra l'aria tersa e i monti ammassati sulla spiaggia, la spiaggia tagliata dal mare spumoso, il mare tagliato dal cielo blu. Veniva dalla destra un odore di robaccia abbrustolita, stordente, asprigno in gola. Si condensava l'aria in tutti gli angoli in groppi densi, marron caffè. Intanto l'onde battevano le bugne. Sentivo degli scricchiolii lontani come quando si spengono i fuochi. Arrivava piano e distante un grattare strano, un 'cric cric' di ingranaggi metallici. Ecco dal mare un uccellone implume che sfarfalla: goffo, incerto. Ha il corpo vuoto come una carcassa d'aereo, ha delle ali piccole e rapidissime. Gracchia e sfrega i giunti del suo becco.
Quella molecola enorme di bulloni rugginosi, tutta ordita di travetti in grave disordine, avanza, sorvolando.
'Eppur s'inceppa', ma resta a mezz'aria sopra di me che son saldata sulle bugne a rimirarlo, tra il salino mare e la sudicia orba urbe. Un disegno ingegnoso nel cielo blu. Spesso cigola, temporeggia e perde quota allora fa un rumore d'inferno e torna su. Gli pende dalla pancia un'altalena e su seduto un ometto diligentemente fa strane segnalazioni. Poi l'uccellone implume si scuote tutto, gratta scatenaccia e scende. Io scappo verso casa. Corro su una linea di rena sgombra, agguanto il pomello e salgo. Dalla finestra vedo l'uccellone appoggiato in terra. Non c'è più la fila di scogli e neanche più l'urbana selva di neri camini. Tutto è libero di spiaggia, mare ed aria espansa. Dalla finestra apro e volo. Di quei luoghi di confine è rimasto il nome di Tempo. Ecco.