Flavio Terzi

nato il 23 marzo 1986
- Studia pianoforte
- Studia la grammatica italiana
- Studia ciò che di raccapricciante è racchiuso nelle persone, così che da ciò che scrive emergano, per antitesi, i loro aspetti migliori

ULTIMO DELL'ANNO IN CASA CANGRANDI
(Novella brevissima)

Il trentun dicembre era arrivato. Tal dei tali avrebbe trascorso l’ultima notte dell’anno a casa del Cangrandi, suo amico e collega. Ma faceva bene ad andare? In fondo sì, in fondo era un amico intimo che lo invitava… in fondo ci sarebbe stato da divertirsi…in fondo avrebbe conosciuto qualche ragazza…si sarebbe bevuto alacremente…in fondo non era ancora fidanzato…aveva diritto o no di divertirsi, almeno l’ultima notte dell’anno?

Tal dei tali uscì di casa alle diciotto e trenta, quando già era buio e cominciavano a sentirsi nell’aria i preparativi per il Cenone di S. Silvestro.

Arrivò a casa del Cangrandi verso le diciannove e trenta; all’esterno dell’abitazione si sentiva un vociare concitato.

Gli aprì il Cangrandi in persona.

“Oh, Tal dei tali! Che piacere vederti qui! Non pensavo che un monaco del tuo stampo si sarebbe presentato ad una festa simile! Sai, il tuo ordinario aspetto di “memento mori” mi spaventava…tra poco, pensavo diventassi un predicatore solitario, sai di quelli con un barbone lungo sino ai piedi e la toga scura?”-

La battuta di Cangrandi suonava falsa e ripugnante, tanto che ne rise lui solo, come un beota.

Internamente, la casa straripava già di invitati, tutti uguali nella loro diversità. A gruppi fitti discorrevano, ridacchiavano. Le facce erano maschere pallide sotto la luce della sala, intensa ed inesorabile. Tal dei tali, un po’ titubante, divenne presto vittima della massa: fu introdotto con calore gelido ed imbarazzante dal Cangrandi e, in meno d’un minuto, era entrato a far parte della macchia umana degli invitati.

Tal dei tali osservava attentamente i volti di burattini a cui erano stati strappati i fili che li guidavano: una ragazza sui venticinque anni rideva di gusto vicino al tavolo dei salatini, con un volto illuminato di squallore. Si vedeva il trucco pesante, plastico, che gravava su degli occhi già stanchi ed arrossati. La pelle era di mummia sotto la luce: ogni minima traccia d’imperfezione era leggibile su quel volto.

Tal dei tali fissò un gruppo che discorreva lieto vicino al divano: tutti avevano volti tetri e scavati, mascherati però da un’allegria fittizia; non si sarebbe stupito se, di lì a poco, quelle membra si fossero sbriciolate sotto i suoi occhi lasciando solo un pugnetto di scarti maleodoranti. Gli parevano prodotti industriali di serie. E, in effetti, non c’era differenza tangibile tra uomini e donne, poiché il grigiume imperversava su quei volti affranti di gioia. Distolse da questi lo sguardo, avvicinandosi al Cangrandi e ad altri invitati.

L’amico aveva un volto incomprensibile e grassoccio, sulle guance erano distribuiti in radure di prati minuscoli puntini di barba appena fatta. Le labbra screpolate e nerastre s’aprivano talvolta in un ghigno rugoso, più simile ad una crosta di formaggio ben stagionato che ad un vero sorriso.

Dietro quell’apertura di voragine inquietante (si poteva definirla “bocca”?) facevano capolino i bianchicci denti su cui si erano appiccicate le briciole delle pizzette unte, masticate da poco. Pareva che le briciole avessero trovato nei denti del Cangrandi l’ancora di salvezza per non precipitare nei meandri dello stomaco di quest’ultimo. Gli occhi erano cerchiati di verde (ma era la luce a renderli così?) e si intravedevano, non appena questi si spalancavano, i capillari rossi e pulsanti. Le sopracciglia spettinate, folte venivano ogni tanto raggiunte da gocce minuscole di sudore che sgorgavano in rigagnoli dai crateri della fronte, mentre i capelli erano unti di un gel appiccicoso.

Mancavano pochi minuti a mezzanotte; accesa la TV fra berci stridenti, rumori, grida sguaiate; uno sgangherato pianoforte, chissà da chi strimpellato; conto alla rovescia: un anno era spirato, ora era salma di defunto.