Maria Laura Platania

Maria Laura, cinquant’anni, scrivo.

Viscia

Forsan et haec olim meminisse iuvabit
Virgilio, Eneide, 1, 203

Ho sempre amato ciò che ho temuto.
Deve esserci un tempo nel nostro tempo in cui forte si incollano
sensazioni destinate a segnare l'intero cammino che ci è assegnato.
Niente mi procura un brivido forte come la vastità del mare, nulla mi emoziona più della vertigine avvertita dello spaccato rosso di una montagna. Disperato equilibrismo dell'essere, amo solo chi non mi ama. E mentre quest'ultimo treno mi consegna all'estrema paura, l'angoscia claustrofobica del sentirmi chiusa in questa cassa di fradicio legno, sballottata nel decisivo itinerario della vita, conto una ad una le mie ossa, accarezzo con il pensiero questo corpo sterile, sento, cappa pesante, quella tunica che ha soffocato la mia giovinezza e protetto la mia lunghissima vecchiaia. E' finita, finalmente.... Io come acqua mi vado sciogliendo e tutte son disgiunte le mie ossa. Il mio cuore si è fatto come cera e dentro al petto mi si va struggendo. Il mio palato è secco quasi argilla e la mia lingua s'attacca alla gola... Ora Tu che ho selvaggiamente amato perché ho sempre temuto mi fai libera di superare l'ultima barriera e di godere della Tua Luce...

Un colpo secco di pistola: giusto passaporto per l'ingresso al mondo di
una viscia. C'è sangue dappertutto. Un silenzio irreale avviluppa uomini e cose nella sospensione della vita. Pure, la viscia è là. Accidenti, avrebbe diritto a un po' di festa. Un sorriso sghembo, una lacrima, una camiciola di seta rossa, il calore riposante del seno di sua madre.
E' una femmina. Lorda di un grasso improprio, nessun capello ingentilisce la faccetta smunta. La bocca è larga, da streghetta rinsecchita. Un occhietto già inequivocabilmente strabico. Segnata da Dio, guardati dai segnati da Dio. Oh mio dio, per amore di dio, che dio lo perdoni, che dio accolga la sua anima. Miserere nobis....

Un uscio sbatte violento, una folata di vento, imprevisto brivido di una notte d'estate, la desta.
S'accuccia sulle gambe, tira a sé il lembo del lenzuolo; scosta, con un gesto brusco, la frangia untuosa dalla fronte. Il sudore le fradicia la camicia che s'incolla inopportuna tra le cosce corte e grasse.
Ai piedi del letto un orinale sozzo sveglia i suoi sensi ottusi con l'insopportabile fetore. Chi c'è dietro quella porta? Le labbra ingoiano parole che la mente ordina rapida, lo sguardo si insinua nello spiraglio asciutto, cercando di superare l'impossibile ostacolo.
Scivola ratta sul pavimento di mattoni rossi, lesta cerca la protezione della vestaglia lurida gettata alla rinfusa su una panca.
Ha paura, ha sempre paura. Nessuno l'ha mai confortata. Forse, nessuno sa delle sue paure. A chi importerebbe, poi...
Prende il suo quaderno bisunto, un lapis smozzicato e disegna ancora una volta, come tutte le notti, una luna scura, stelle senza punte, labbra livide.
Si specchia nella pagina, silenziosa custode dei suoi incubi: percorre molle con la punte del dito il profilo rotondo di quella luna di fango, il segreto delle labbra serrate, il vuoto albore di stelle spezzate.
Sono quasi le cinque del mattino e la luce viva del sole ferisce lo sguardo fisso, senza ciglia, di Benigna.
E' l'alba del suo quattordicesimo compleanno: è nata il tre agosto. Almeno così hanno scritto nei loro libri le suore del convento che l'ha accolta, certo era un tre di agosto quando è stata deposta là, completamente ignuda, la bocca riarsa, incapace di piangere.
Naviga dentro l'ultimo dei suoi pensieri, all'incrocio gentile della piramide inutile che la porta fuori di una pelle che ogni mattina lava con cura metodica, strofinando con una spazzola dalle setole ruvide la schiena grassa, i gomiti ispessiti, le ginocchia indurite dal tanto pregare sul pavimento della chiesa. Avverte grave la forza di un pensiero che, tante volte, sente non appartenerle, quasi lei, il suo corpo goffo, le lente movenze, la sua pelle enfiata, non siano che improprio involucro a una vita non richiesta né voluta, ma accettata quale mendace e svagato omaggio di un greco mentitore.
Tra poco la casa si riempirà del rumore ordinario del giorno, non vale più la pena riacciuffare per la coda un sonno che regala solo inquietudine tanto meglio alzarsi, prepararsi...La Signora di certo avrà ordinato per lei un dolce e, magari, le darà la gioia di un abito nuovo...E' buona la Signora, è giovane, il volto radioso, capelli chiari, occhi limpidi, spalle piccole, vita sottile, la statura di una bambina e...le mani, quelle mani. Tutta la casa prende vita da quelle mani piccole, diafane, che sembrano disegnare nell'aria la traccia viva della sua essenza. Benigna ama osservarle, comprende più dai gesti definiti che non dalla voce bassa e modulata quel che intende la Signora.
Vorrebbe essere accarezzata da quelle mani, solo una volta, magari per poco, sentire il tocco algido pregno di calore, sognare che tanto basti a superare la pelle traslucida di un universo serpente che l'attira e la respinge quale mesta altalena.
Ora la luce del giorno è accecante, divora la pianura, si dilata fino al mare. Benigna non ha mai visto il mare, pure crede di conoscerlo da sempre, sente che, in un'altra vita, ha respirato la salsedine aspra, gli spruzzi vitali, le mani immerse nell'umore di tiepido grembo materno.
Sonora la campanella la richiama all'obbligo quotidiano della Messa. Meno di mezz'ora per lavarsi, vestirsi, cercare di dare forma a quei capelli che nessun sapone riesce a liberare dall'untuosità appiccicosa che la rende ancora più brutta. Benigna lo sa: è brutta, è sempre stata brutta e non serve che lo specchio ogni mattina glielo ricordi, quella segreta ossessione è dentro di lei, non ha bisogno di responsi, non teme nemmeno più giudizi. Suor Francesca le ha detto che "Dio ama di più quelli a cui non ha fatto la grazia dei suoi doni e si prende maggior cura dei suoi figli più disgraziati", ma le ha anche detto che "ci si dà meno pensiero per i figli che non danno pensieri"...E lei che pensieri ha mai dato? E' robusta, le basta poco cibo, sopporta il lavoro, anche il più duro: aveva solo sei anni quando per la prima volta le suore le hanno dato la ramazza di saggina insegnandole a spazzare le stanze delle consorelle.
Lavare i pavimenti le piace, l'odore del sapone, la schiuma leggera che si forma a ogni passare ritmico dello straccio, mentre le ginocchia illividiscono e la fronte suda, il marmo dei pavimenti prende vita al suo robusto strofinare e, a volte, quando nessuno la vede ride di sè col suo viso ebete che affiora nelle chiazze di pulito... L'hanno capito subito in convento che non è intelligente: nè perspicace, nè scaltra. Buona, ecco, lei è buona, è sempre stata buona. Piccola piccola non piangeva mai, spesso la notte non dormiva, ma se ne stava sveglia in silenzio, lo sguardo storto, le manine che accarezzavano come per rito il bordo del lenzuolino e se la conversa le sussurrava qualche blandizie sembrava annuire colla testa grossa. Per questo, quando ormai era chiaro che non sarebbe morta, e ogni tentativo di trovarle una madre era fallito avevano deciso di darle un nome, Benigna e lei ha imparato presto a ripeterlo, e a dire sì, dice sempre di sì, seppure qualcosa deve dire, altrimenti tace.
Il silenzio è il suo regno, la preghiera la sua forza, ma è una preghiera muta che le nasce spontanea dal cuore senza enfasi e senza retorica; inutilmente le suore del convento di Sancta Maria Assuncion le hanno insegnato le parole che accomunano, Benigna è sorda a quegli insegnamenti, crede che Dio non possa davvero ascoltare parole sempre uguali recitate in lamentosa cantilena. Lei stessa viene vinta da un sonno irresistibile quando la nenia malinconica la culla, può quella supplica priva di letizia arrivare fino al cielo? Nel suo quadernetto scrive ogni giorno un ricordo, un'emozione, quello che pensa sia una gioia, povere frasi sghembe incise di traverso: quelle diventano la sua preghiera, un'offerta non richiesta di vita umile e immobile a chi di quella vita sente è l'unico motore.
Le suore del convento sono buone con lei, ma non la portano mai fuori, Benigna non ha mai visto una bambina della sua età, non ha mai visto nessun bambino, solo quadri e statutine di giovinetti e giovinette, morte in "odore di santità", come dice Suor Paula. Nessuno le ha mai spiegato bene quale sia l'odore di santità, ma Benigna crede debba essere un profumo speciale, come quello della Signora, per questo ogni giorno si strofina la carne fino a immaginare sulla sua pelle l'effluvio delicato degli amati da Dio. Un giorno, le hanno detto, potrà indossare la tunica verde e il velo bianco come le altre suore, ma dovranno passare ancora degli anni perché è ancora troppo piccola per diventare la sposa di Cristo. Non le è ben chiaro ancora cosa voglia dire sposa, ma, la testa china sulla ciotola di legno della minestra, giorno dopo giorno, ha sentito suor Emanuela leggere con la sua voce cristallina di Sara sposa di Abramo, di Maria sposa di Giuseppe, di Anna sposa di Gioacchino. Mai ha sentito parlare di spose di Gesù, ma non le piace il pensiero d'essere figlia di Dio e sua sposa. Forse perché non sa cos'è un padre... L'unico uomo che ha incontrato è Luis, viene al convento ogni sabato con la sua cesta vuota, racconta alla Signora delle sue disgrazie, dei suoi dodici figli affamati, della moglie morta e con le mani rozze a piedi scalzi, la faccia cotta dal sole, si mette a zappare con precisione d'orologiaio l'orto, pianta o raccoglie a seconda dei frutti e della stagione, libera dalle erbacce, innaffia con generosità, lasciando sempre l'ultimo secchio d'acqua per sè.
Benigna se ne sta seduta a osservarlo, mentre si getta addosso l'acqua fresca a bocca aperta perché nulla vada sprecato: le vesti bianche, da contadino, s'incollano al corpo solido mostrando forme sconosciute alla bambina, lui la guarda senza vederla e lei si sente come una di quelle erbacce che Luis strappa per pulire il campo. Prima di andare via, l'uomo chiede della Signora, ma lei non si mostra più, al suo posto arriva una vecchia suora che, a fatica, trascina il cesto pieno, coperto con uno straccio colorato. Cosa ci sarà la dentro? Benigna l'ha chiesto una volta a Angelita, la giovane conversa e quella l'ha derisa: "Non lo sai? Luis viene a portare via i cadaveri degli amanti della Signora". Sapeva di dovere stare zitta come sempre, non le ha creduto, ma un leggero brivido l'ha scossa tutta: chi sono gli amanti della Signora? Lei è un'amante della Signora, il sogno che ha carezzato fin da quando bambina caracollava sulle gambette storte nei giardini della casa è stato quello d'essere la figlia della Signora, il suo tesoro segreto, troppo brutta per essere esibita, troppo cara per essere abbandonata. Non ha mai nemmeno cercato di sapere chi sia quella donna delicata che dirige, con l'abilità di un maestro concertatore, quello sparuto gruppo di religiose, avverte solo con l'ingenuità inquieta dei suoi poveri anni che la Signora è la parte mancante nel mosaico mutilo del suo esistere.
Una sola volta la Signora le ha parlato: aveva nove anni e la mattina s'era svegliata dai suoi soliti incubi, le lenzuola macchiate di un rosso vivo, come quello del sangue delle piaghe del costato di Cristo. Aveva frugato a lungo, terrorizzata, per cercare di scoprire da quale ferita provenisse, aveva visto le pesanti mutande di tele impregnate e aveva pianto accovacciata sul pavimento, fino a quando al mattino Suor Consuelo, la più anziana, l'aveva scoperta, l'aveva tirata su a fatica mentre le labbra farfugliavano "Poveretta, disgraziata, anche in questo...".
La Signora le aveva spiegato quel che le capitava.
Gli occhi chiari incupiti come per un segreto rimpianto, il volto terreo, le mani nascoste tra le pieghe della tunica, la voce appena un sussurro. "Dopo la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, questo è il segno del peccato della donna, solo la nostra amata Maria ne era immune, un segno di dolore e violenza che ci offende nella carne, solo la preghiera e la castità ci aiutano a riconquistare il bene perduto e, finalmente, quando si diventa anziane come suor Consuelo, se si è vissute in grazia di Dio, questo marchio ci abbandona e diventiamo degne di tornare in quel Paradiso che Eva ci ha negato. Più offendiamo Dio, più il nostro corpo sanguina. Hai capito, Benigna?"
No, non aveva capito, ma un altro terrore s'era aggiunto alle sue paure di sempre e con ribrezzo lavava quel sangue che mese dopo mese si faceva più forte, più vivo, nonostante le sue implorazioni, le sue privazioni offerte in dono alla Madonna, perché le insegnasse la strada che portava alla liberazione da quell'orrore nascosto.
Quattordici anni, una giornata speciale, bisogna che sia felice, bisogna che sorrida. Quando ride anche il suo sguardo strabico sembra trovare la via diritta e stamattina i capelli scuri sono morbidi e scintillanti, a stento la molletta riesce a trattenerne l'onda a lato della fronte.
Nel refettorio suore sciamano silenziose, i rosari snocciolati d'uso, basse teorie di sguardi. Candore di marmi nella stanza comune incapace a respingere la calura torrida del giorno che avanza. Benigna legge l'afa addensata in gocciole sul chiuso d'obbligo delle vetrate. Lacrime nell'asciutto degli occhi deformano il paesaggio, ravvicinando l'orizzonte sconosciuto. Sente la sua consueta trasparenza, tra il fruscio inutile dell'agro di abiti rigidi d'amido: nessuno la guarda, nessuno sorride, nessuno... Pure ricorda confusa, spazzando la nebbia, lavando col sapone della sua mediocre coscienza spezzoni di vetro in memoria, l'anno prima c'era un dolce lassù.
Lassù, con gli occhi socchiusi può ancora vederlo al centro del lato più breve del rettangolo aperto della tavola, ai piedi crocefissi di Cristo: immacolato, rosso di ciliege, stille di sangue mutate per un inutile, gentile miracolo...
Scivola mesta, il sole accecante del giorno offende lo sguardo senza ciglia, s'acquatta nell'ombra tagliata del chiostro, strizza gli occhi piccini illusi di chiudere in riquadro d'amore la persona della Signora.
Lei sì, non dimentica mai niente, la mente ordinata lavagna nitida di tratti bianchi, al centro, in alto, Gesù, lo sa, ma in fondo, a destra, prima che l'angolo scuro del legno la inghiotta, c'è lei Benigna.
La Signora non c'é, la Signora è partita. Scomodo dono. Quando? Stanotte? E a me che ha detto di dire? Che è andata per mare...Perché? Qualcuno laggiù ha bisogno di una donna come lei... Ordine del vescovo. Chi è questo Vescovo? E poi lei non è una donna è la Signora, la mia Signora... Macchedici Benigna? A che serve chiedere a labbra di bronzo, meglio uscire, spingersi oltre lo steccato di smarrimento, trovare lo scampo a tanto dolore...Piangere bisognerebbe, magari lacrime di cera, come la santità in statua sbrecciata sul comodino della sua stanza.
Il solo pensiero del pianto svuota la bocca in affanno, prosciuga lo sguardo traverso, può sentirlo adesso quell'occhio che sfugge il dominio.
Cos'è che brilla di là dal cancello tra mani nodose di vecchio?
Un dono per te, lo manda la mamma.
E' come se il cielo si apra, sparisce il caldo del giorno, c'é fresco di pioggia che lava l'unto di sempre, sfregare di cosce, tozze le braccia si tendono al luccichio indistinto. Il vecchio ammicca, seduce, levando la mano più in alto e lei chiude piano il cancello, serrandolo alle sue spalle. Nessuno la deve sentire, lo sa, ce l'ha scritto nel cuore: la Signora è sua madre e l'attende, la vuole portare con sè, per sempre oltre quel mare, perché l'acqua cancelli l'imposta distanza fra loro e libere possano stringersi. Fisso cipiglio nell'uomo, di lontano giungono alte voci di coro...E' lei la mia mamma?
Avida la mano afferra, scontrando le dita irrigidite del vecchio, un arco di brillantini di vetro in fermaglio.
Regalo di sole per una testa senza grazia: è scritto nello sguardo amico dell'altro, improvvisato specchio alla sua vanità. Non soffre malia, né contagio, ma non teme quel vecchio, i suoi occhi storti, le gambe ricurve, il nero mendace dei capelli.
Lo osserva, lo scruta e inatteso il brivido freddo che ogni notte la desta, assale intera la schiena, la curva, attozza l'ammasso del corpo ridicolo.
Mi sente, signore, ho detto: è lei la mia mamma ?
La guarda, s'accosta pesante il respiro di fuga, sussurra parole che a stento trovano la via della mente, s'addensano nelle orecchie piccine, tra i capelli che l'emozione dell'attimo rincolla al modo di sempre.
Io sono tuo padre.
Via, vai via signore, non mentire signore, è peccato, offendi Gesù, lui solo è mio padre, non ho altri padri, me l'ha detto la buona Signora. Vattene, tieni, riprendi il fermaglio: è tuo? No, non andare, aspetta, solo un momento: è lei la mia mamma?
Incalza la voce del vecchio e le mani antiche d'olivo intrecciano nel fermo dell'aria tratti conosciuti, leggiadri: era bella tua madre...
S'accascia Benigna accanto al cancello di ferro rovente, le mani non spingono più la loro ansia d'entrare.
Trovare la pace di sempre nel chiuso del coro distante di suore, ma la voce costringe... era buona tua madre, era pane, era vino, era fresco di lini d'estate, caldo di lana d'inverno. Non avrei mai dovuto... a te che puoi darmelo, io chiedo il perdono. Novembre di miele e lei l'ombra di tutti i miei sogni, m'intendi Benigna?
La mano leggera sfiora appena la sua, mentre spinge l'uscio e lo chiude pesante dietro di sè, velluto il sorriso delle labbra, mentre gli occhi non intendono minaccia. Era lei la mia mamma?
Fuggire, fuggire lontano nel buio improvviso del giorno, inseguito, da allora, da sempre, da un aspro rimorso...
Non avrei mai dovuto...il tuo perdono Benigna, mi serve. Quattordici anni sono tanti per un vecchio come me.
Quattordici anni sono lunghi a contarli, sul pallottoliere di una vita solitaria, rivederli, bisogna, adesso, uno a uno e sempre il suo viso di donna riaffiora e t'accusa.
Nascevi, t'ho visto, nascosto: figlia di un desiderio solo mio.
Il cielo era livido, nessuna stella lo rischiarava, la luna sporca di fango, e lei gridava la voglia di tenere quel figlio rubato.

Non sento, non sento, non voglio sentire...
Il padrone fiero non ha sopportato la vista di te, brutta bestia mia, voleva ammazzarti, cucciolo spurio, ma ha portato con sè il ribrezzo dell'attimo.
Lo sguardo strabico in fuga Benigna rivive l'orrore di tutte le notti, quel freddo di lutto portato nove mesi nel cuore, il sangue che schizza sul muro, mentre l'uomo deciso le lascia la vita, lasciando la vita.
Che vita e perché senza il tiepido grembo di madre?
Perdono? Sì, ti perdono, ma ti scongiuro rispondi... Compagna dell'esistere, la muta risposta negli occhi distanti del vecchio.
Campane rintoccano rade il giorno d'addio, l'anima vola, librando un dolore capace di recidere lingua di donna, gli occhi senza pianto aperti all'ultimo incontro.
Ancora una volta prima che nulla più conti, senza paura, lo chiedo a Te, mio unico amore: era lei la mia mamma?