Davide Terranova

ho trent'anni, sono di Torino, faccio budget di commessa e, a tempo perso, scrivo. Ho scritto un po' di tutto (sceneggiature, poesie, racconti, romanzi, anche se dire che scrivo romanzi mi fa venire la sgrigna) e mi hanno pubblicato in internet e su un semestrale torinese (gratis).
Baquo è, come si può intuire facilmente, un mio alter ego.
E' solo più cattivo di me, ma, per il resto, mi somiglia moltissimo...

TORTURATORI E TORTURATI

- § 1

Come aveva potuto farsi incastrare a quel modo non riusciva a capire.
Era sempre stato scaltro e attento nell'esprimere le proprie opinioni, eppure, si rendeva conto adesso, l'avevano fregato come un idiota.
In sostanza, comprendeva appieno solo ora, non ostante avesse intuito sin da subito con chi aveva realmente a che fare, non s'era trattenuto. Trattenuto come, semplicemente, l'istinto di conservazione più basso gli avrebbe dovuto imporre.
Non s'era trattato solo di hybris; il suo ego, enfiato all'estremo dal senso di superiorità indottogli dall'alcool, l'aveva tradito nel più stupido dei modi.
Fosse stato solo orgoglio si sarebbe, in un certo senso, potuto perdonare: era stato invece così malaccorto da sottovalutare la pratica ferocia degli individui in cui s'era imbattuto.
Era stata stupidità, null'altro.
I membri più brutali del Komitet avevano come una stimmate che li contraddistingueva, consistente, da un lato, nei vestiti grigi o marroni e dappoco che indossavano e, dall'altro, in un'aria a metà tra il bovino e il serpentesco.
Ma quella sera aveva commesso l'errore più grosso della sua vita: aveva bevuto dopo sei mesi di astinenza integrale.
Finendo ubriaco come il Santo Bevitore.
Con la forza di un pugno allo stomaco dato con cattiveria, gli affiorò alla mente l'immagine della stanza in cui tra poco sarebbe dovuto entrare.
Chissà cosa lo aspettava.
Chissà chi lo aspettava.
Avevano cominciato col mostrargli previamente delle foto. L'intento era quello di mettergli addosso terrore e indurlo a sentirsi pentito e sporco e, per la miseria lurida, c'erano riusciti alla perfezione.
Quello era stato il primo passo.
Solo in quel momento, a distanza di tre mesi, capiva come dietro quanto gli era stato fatto ci dovesse essere stato qualcosa di scientifico.
Ricordava con cruda, quasi sfregiante, definizione ogni momento di quell'incontro: il funzionario Oblimov e il suo abito stazzonato e sporco, la sedia lurida in pelle che se ne stava andando a pezzi su cui l'avevano sbattuto, la musica imperiosa del Rach 3 che risuonava lontana, il tavolo di fòrmica -autentica - che aveva di fronte e, su tutto, le piastrelle.
''Sarà di certo un nome d'arte che si è dato da solo, questo pazzo bastardo'', aveva pensato.
Le piastrelle che aveva visto nel video, le piastrelle della stanza in cui era.
Le piastrelle della stanza in cui era erano le stesse piastrelle del video.
Rachmaninov aveva lasciato l'Unione Sovietica nel 1917, e il partito l'aveva inserito di prepotenza nel libro nero degli artisti da aborrire. Alexi intuiva che farne echeggiare le musiche all'interno dei sotterranei del Ministero dell'Informazione dovesse essere una qualche forma di tortura psicologica. Quello, o un funzionario molto potente aveva deciso, in quel cupo giorno di inverno, di titillarsi le orecchie con ironia tutta russa.
Continuava a pensare alla muratura della stanza in cui aveva dovuto fare la sua scelta e alle strane piastrelle che v'erano applicate sopra.
Delle belle, rammentò preciso, linde ed esagonali piastrelle bianche.
''Scommetto che sa perché abbiamo scelto il bianco, vero compagno?'', aveva detto Oblimov.
Era da mezz'ora che gli stava parlando.
Ed era da mezz'ora che gli stava mostrando materiale video in betamax dal contenuto così indegno da farlo dubitare di essere ancora sano di mente.
''Credo di si'', aveva risposto cercando di non fare emergere il panico che stava per sommergerlo.
Si doveva controllare.
Ma era dura davvero, e, ogni tanto, delle crisi di tremito l'aggredivano all'improvviso. Non che lui gli resistesse, anzi; gli si abbandonava, per qualche secondo almeno, come un epilettico che abbia accantonato ogni speranza di cura e controllo.
Peggio sarebbe stato se non l'avesse fatto.
Gli era capitato di pensare se che non avesse assecondato fisicamente le sue paure avrebbe finito col disfarsi in un unico e gigantesco spasmo di dolore.
''È una questione di filosofia, attitudine, e, perché no, Gestalt, non crede?'', aveva insistito Oblimov.
''Se lo dice lei...'', aveva detto con sarcasmo malcelato, e, quando vide il cambiamento di espressione subìto dal funzionario, comprese di avere fatto un altro enorme errore, forse il secondo nella classifica dei suoi errori più grandi.
Il fatto era che ancora non aveva voluto prendere atto della gravità della sua situazione, e sperava ancora di potersene andare sulle sue gambe.
Ma, in ogni caso, ormai era irrimediabilmente tardi: in effetti, non parve esservi soluzione di continuità tra il movimento col quale Oblimov si infilò una mano sotto la giacca, estrasse il randello telescopico, dette un leggero colpetto col quale lo fece estendere e lo colpì sulle labbra.
''Io lo dicevo: lei è peggio di una checca di occidentale'', aveva detto viola e congestionato in volto.
La frase appena pronunciata dal funzionario sembrò provenire da distanze siderali.
La stanza aveva preso a turbinare ad una velocità tale che Alexi non poté fare a meno di pensare che forse tutto si sarebbe risolto in uno sconclusionato e confortante maelstrom di suoni, odori, impressioni visive e tattili.
''So cosa sta pensando, Alexi: non lo faccia, non si abbandoni o la massacro. A mani nude, si intende'', aveva detto sibilando Oblimov.
''Si intende'', aveva risposto Alexi, e aveva sputato un bolo di sangue sul tavolo senza volere.
''Sorvolerò sul fatto che mi ha schizzato di sangue la cravatta, Alexi, solo perché dalla sua scheda ho capito che ha un'avversione patologica verso il dolore fisico... Ma lei non mi sente, Alexi...'', aveva asserito Oblimov.
''Nononono, per la Madre Russia, la sento eccome! Mi ha appena sfasciato un labbro, è da mezz'ora che mi parla dei modi che si è inventato per infliggere dolore e mi mostra torture, non può pretendere che sia vispo come uno scolaretto al primo giorno di scuola, non trova?'', aveva risposto Alexi.
Maledetto pazzo bastardo, aveva pensato di nuovo.
Il senso di sfida e superiorità l'avrebbe forse distrutto, ma era anche l'unica cosa cui si poteva appigliare per non crollare e mettersi ad implorare come una mammoletta.
La seconda botta era arrivata in modo repentino.
In quell'occasione il randello lo aveva colpito sulla mano sinistra, frantumandogli la seconda falange del mignolo.
Scovando energie che non sapeva neanche di avere - era vero, non sopportava il dolore fisico - si era tirato dritto a sedere ed aveva fatto un respiro profondo.
Aveva compreso in quel momento che un ottimo deterrente contro la sofferenza fosse la sofferenza stessa: quel bastardo, lo aveva capito (anzi, se l'era sentito nel suo intimo animale e presciente), lo avrebbe maciullato, se avesse fatto tanto di gridare o sfotterlo di nuovo.
''Ora ha tutta la mia attenzione, mi creda; e, davvero, non farò più dell'ironia fino a che non mi sentirò autorizzato a farla'', era riuscito a biascicare Alexi.

- § 2

Pensava all'ironia, l'unica sua compagna nei momenti di disperazione.
Ma ad affliggerlo, in quel momento, era un altro e ben più mostruoso tipo di ironia: l'Ironia della Sorte.
Solo una sorte ironica e beffarda avrebbe potuto tirargli un tiro così mancino.
Con una fatica immane, e raggiungendo un risultato che lui per primo riteneva inarrivabile, era riuscito a tenere l'alcool lontano da sé per sei mesi.
I primi giorni erano stati terribili, e il delirium tremens l'aveva tanto sfiancato che temeva che la sindrome di Korsakov se lo sarebbe infine preso per sfinimento.
Una delle allucinazioni più tipiche indotte dal delirium tremens consisteva nel vedersi strisciare addosso insetti, con preferenza verso gli scarafaggi.
Al secondo giorno di astensione aveva avuto modo di verificare che poteva accadere anche qualcosa di più che semplicemente vederseli camminare addosso: era giunto ad un punto di tale strazio fisico e disordine mentale che a respirare sentiva come se un mare di schifose, piccole e brulicanti blatte gli entrasse dentro. Per poi uscire ad ogni espirazione.
Un'allucinazione siffatta non poteva che esitare nella pazzia; a sottrarlo dall'impazzimento era, invece, intervenuto un provvido e salvifico malore, conseguito ad una crisi di vomito di diversi minuti.
Salvato da un collasso.
Era buffo, ma buffo in modo doloroso e disperante.
Erano state le avvisaglie di cambiamento epocale che aveva sentito nell'aria a far franare i suoi intendimenti di persona sana: il regime sarebbe caduto, lo dicevano tutti, al più nell'arco di sei mesi.
Da sei mesi non beveva, al più in sei mesi il regime sarebbe caduto: se quella non era sincronicità, un segno manifesto del destino, cos'altro lo era?
E così era andato alla locanda in cui s'era sfondato di vodka per quindici anni, con l'intento, aveva detto e ripetuto a sé stesso, di bere solo un bicchierino.
Un solo, insignificante, innocuo piccolo bicchiere.
Al primo sorso per poco non aveva rimesso cena, spuntino di mezzo pomeriggio, pranzo e colazione; al secondo un familiare tepore gli aveva scaldato la gola e accarezzato lo stomaco; al terzo ed ultimo un'esplosione nel basso ventre gli aveva fatto inturgidire il pene con un tale violenza che era dovuto andare in bagno a scaricarsi.
Che esperienza appagante!
Comprendeva che una reazione come quella non potesse essere una normale reazione fisiologica e che quel turgore non fosse stato altro che un modo per la sua psiche di alcolista cronico di esprimere gratitudine; tuttavia, non poteva importargliene di meno.
E così se ne era fatto un altro.
A distanza di pochi minuti il torpore euforico che gli prendeva quando era brillo aveva cominciato a bussargli sulle pareti del cranio.
La nausea era sparita del tutto, e, come sempre gli accadeva al secondo bicchiere, una voragine gli si era aperta in pancia, facendoli pensare che, se non avesse ingollato qualcosa di solido, il suo stesso stomaco se lo sarebbe digerito. No, non era esatto: se non avesse mangiato qualcosa sarebbe collassato su sé stesso come un buco nero.
Forse propinare la vodka come aperitivo non significava poi millantare doti che essa non aveva.
Ma non aveva mangiato nulla; al contrario, era passato al terzo bicchiere.
Un ronzìo soddisfacente, unito alla sensazione di avere il cervello che funzionava come un calcolatore impazzito in grado di elaborare all'istante centinaia di informazioni, gli aveva dato infine conferma di essere ubriaco.
Da un lato il sentore di potere cogliere tutto quello che voleva circa la sua persona, quello che aveva attorno a sé, la Madre Russia, la storia del mondo, gli Angeli del Paradiso e i Demoni dell'Inferno e Dio stesso in tempi infinitesimali, dall'altro l'impressione di avere il cervello avvolto da spessi strati di isolante.
E, su tutto, un'euforia folle e smodata.
Forse fu questo che lo fece diventare imprudente.
Alticcio, instabile e con le gambe molli aveva deciso di avvicinarsi al bancone, sedersi su uno sgabello in mezzo alla gente e parlare.
Non solo parlare, in verità: voleva fare partecipi gli altri della sua consapevolezza e della sua felicità.
E così s'era seduto accanto ad un capannello di quelli che, rintronato com'era, gli erano parsi, di primo acchito, dei russi tipici.
''La rovina del mondo sono gli ebrei; la Glasnost ha portato ad una degenerazione dei quadri del PCUS quasi incontrovertibile... E noi che cazzo stiamo a fare? Stiamo a guardare?'', aveva detto quello che poi avrebbe saputo essere Oblimov.
Era un uomo impossibile e dall'aspetto contraddittorio (''Incoerente'', aveva pensato Alexi): alto un metro e novanta, ma malgrado ciò, tozzo e rincagnato; con un viso granitico e fiero, ma dagli occhi acquosi; con delle mani gigantesche, dalle dita spesse, robuste e callose, ma con le unghie curate.
E, particolare che lo contraddistingueva più di tutti, vestito con una trascuratezza e un'indolenza che potevano essere solo slave.
''Ve lo dico io: 'La Soluzione Finale' ci avrebbe liberato da un'enorme quantità di mali'', aveva insistito l'uomo.
Lui e un suo simile (''Un suo clone del cazzo'', aveva pensato Alexi), l'avevano guardato indifferenti.
''Hai ragione, Grigorievich... L'aberrazione ebrea rischia di contaminarci tutti. Se non poniamo un freno all'espansionismo capitalistico sionista americano, verrà un giorno in cui persino per le strade di Mosca imperverseranno droga e prostituzione'', aveva detto di rimando un ometto alto un metro e cinquanta, tutto occhiali e orecchie.
Era talmente basso che non l'aveva notato fino a che non l'aveva sentito parlare.
L'aveva guardato e, per un attimo, aveva pensato che gli fosse familiare.
Ma doveva stare sbagliandosi.
Questi non ricambiò con indifferenza, anzi, sembrò studiarlo criticamente e aspettarsi una sua reazione.
''Non pensate di potere fottermi a questo modo, merdosi farneticanti'', aveva detto in un bisbiglio Alexi, e subito dopo sussultò: allucinante, non aveva pensato, ma parlato.
''Ecco'', aveva considerato avvampando suo malgrado, ''forse uno dei primi sintomi di rimbambimento definitivo è proprio questo: pensare parlando, senza capacitarsene''.
Cercò di estraniarsi bevendo il suo quarto bicchiere.
Ma l'avevano incastrato, perché, avendo in sé molto dell'etologo e del comportamentista, quei discorsi, benché pericolosi, lo attiravano come una falena sarebbe stata attratta dal fuoco.
''Il bue è uno del Gruppo Alpha, o peggio, uno Spetsnaz'', aveva pensato Alexi.
L'elite del potere militare sovietico.
Sily spetsial'nogo naznacheniia.
Inevitabile quindi che dicesse quelle cazzate.
Soldati specializzati in contro-terrorismo, sabotaggi, operazioni ad alto rischio, in grado, si diceva, di usare ogni arma da fuoco e ogni mezzo di terra, manipolare esplosivi, esperti in telecomunicazioni, allenati ad agire sotto una pressione fortissima, dopo un lavaggio del cervello come quello cui venivano sottoposti in Accademia, durante l'addestramento, era inevitabile che maturassero convinzioni esagerate e distorte.
Non era un segreto cosa fosse stato fatto a coloro che avevano rifiutato di eliminare Amin e l'intero suo entourage in Afghanistan nel dicembre del '79, nell'assalto al palazzo presidenziale di Kabul.
Gli ''operatori'' dissidenti erano stati scuoiati.
Se invece era uno del KGB quelle asserzioni dovevano avere per lui il carattere del dogma.
E l'omuncolo invece?
Trasudava malignità e astuzia con una forza tale da dare l'impressione di avere attorno a sé un'aura tangibile.
Nel suo unico viaggio in America aveva sperimentato l'LSD e ciò che ricordava con maggior nitore era il senso di empatia che aveva provato.
L'esperienza era stata tanto travolgente che, a momenti, gli era parso di sentire i pensieri di Helen, la bellissima americana con la quale era stato tre mesi.
E forse li aveva sentiti davvero.
In quel momento aveva provato la stessa cosa.
E qualcosa di peggio, a ben guardare: si era sentito come se delle affilate e penetranti dita mentali gli stessero frugando nel cervello e rimestando nei suoi pensieri, con cattiva noncuranza.
A rendere la sensazione ancora più disturbante v'era il fatto che l'uomo non dismetteva quella sua aria familiare.
Ma non poteva essere: nessuno poteva guardare nella mente di nessun altro.
''Uno dei sintomi più evidenti della Sindrome di Korsakov è l'affabulazione, mio caro Alexi, e non la paranoia'', aveva pensato poco convinto.
Sempre più era andato persuadendosi che quello fosse un teatrino allestito ad uso e consumo dei presenti, nella speranza che un qualche fesso di dissenziente avesse detto la sua.
Se quei maledetti erano a caccia, l'agnello sacrificale non sarebbe stato di certo lui, si era detto.
Il senso di gioia e condivisione che prima aveva provato era morto malamente; in quel momento era intervenuta la cupa consapevolezza di sempre, quella di vivere in un paese che, nel tentativo di non alienarsi dal lavoro, aveva finito con l'alienarsi da sé.
Dio, se quello schifo fosse finito l'indomani!
Aveva sentito che l'angoscia che aveva avvelenato gli ultimi quindici anni della sua vita sarebbe svaporata come trementina al sole.
''Cosa ne pensa lei, del nemico ebreo?'', aveva esordito il piccoletto.
''Se già me lo chiami 'nemico', come cazzo vuoi che ti risponda?'', aveva pensato Alexi, ma era riuscito a tacere, ignorandolo. Forse l'avrebbero lasciato in pace, forse sarebbe riuscito ad andarsene senza clamore, però avrebbe dovuto farlo immediatamente. Aveva fatto per alzarsi, muto, guardandosi le scarpe e cercando di assumere un'aria dimessa e idiota.
''Magari se mi scambiano per un mentecatto mi lasciano andare'', aveva pensato Alexi.
''Signor Eisenstein, non finga di non avermi sentito; so benissimo chi è lei: 170 di Q.I. rilevato nel 1974, un idealista puro, giovane promessa dell'Intellighenzia del partito... Nonché mio alunno per tre anni'', aveva detto l'uomo tutto occhiali.
''Come dice, scusi?'', aveva risposto inorridito Alexi.
''Peccato che poi sia franato su sé stesso... Quant'è che si vive addosso, Alexi?'', l'aveva incalzato il piccoletto.
Per un attimo ricordò di avere sentito con violenza quasi fisica la vena psicopatica dell'uomo, e di averne avuto paura.
''Senta, non so di cosa sta parlando...'', aveva detto timidamente Alexi.
Se la stava, alla lettera, facendo addosso.
Grigorievich e i suoi compari pensavano davvero quello che avevano detto?
Erano stati davvero spontanei?
Perché poi se la prendessero con gli ebrei proprio Alexi non riusciva a capire.
L'accanimento distruttivo che caratterizzava i loro discorsi avrebbe fatto capire a qualsiasi mente sana che quegli uomini altro non cercassero che un capro espiatorio.
Erano ancorati ad una realtà che andava morendo, dissolvendosi, ma non solo non riuscivano ad accettarlo, avrebbero fatto anche quanti danni maggiori gli fosse stato dato di fare prima di tramontare, in un modo o nell'altro.

- § 3

''Alexi, davvero non mi riconosce? Non ricorda chi le ha insegnato l'Arte della Politica?'', aveva detto l'uomo.
Dzugasvili!
Incredibile, quello che aveva davanti era il Professor Vassilj Dzugasvili!
''Professore'' per modo di dire, in realtà, visto che non insegnava in scuola alcuna.
Il maestro di dottrina socialista e comunista!
Il maestro di arte retorica!
Colui che avrebbe dovuto allevare il fior fiore del PCUS!
Lo stronzo che spacciava per propria la terminologia inventata da Orwell in ''1984''!
Diamine, se era cambiato!
In primo luogo, s'era accorciato.
In secondo luogo, le orecchie e il naso gli s'erano ingranditi oltremisura, trasformandolo in una sorta di piccolo goblin.
''Allora'', aveva detto il Professore percuotendo con affabilità Alexi sulle spalle, ''che cosa ti ha corrotto di più? Il tuo viaggio in America o le tue letture?''
Gli era mancato il fiato: da un lato per lo shock dei ricordi, e dall'altro per quello che il Professore aveva appena detto.
Ogni suo dubbio, ogni sua paranoia più oscura ebbe conferma in quel momento: lo stavano spiando, e da quando aveva abbandonato le fila del partito.
''Devo andare via'', aveva cercato di dire Alexi.
I due uomini nerboruti si erano alzati di scatto.
''Cosa pensa un ex membro del Politburo della degenerazione indotta dall'International Set ebraico?'', aveva insistito assurdamente uno di loro.
Il tempo era sembrato dilatarsi.
''Quest'uomo non è solo pazzo. È pazzo in un modo nuovo e inedito, è pazzo di una pazzia malvagia e cosmica. È qualcosa che loro fanno, qualcosa che loro sono. Non si rendono conto della distruzione che hanno provocato e che provocano ancora. Si credono depositari delle ultime verità. Loro sono nel giusto; il resto del mondo sbaglia. Accusare gli ebrei del crollo sovietico è pura contingenza, non c'è una ragione valida e precisa. E io so il perché: vogliono essere gli agenti, non le vittime della Storia. Questa è la loro fondamentale pazzia: i loro ego si sono espansi psicoticamente, e non sanno più dove finiscono loro e dove cominciano le Verità Assolute'', aveva pensato Alexi.
''E io ci sono finito in mezzo'', non era riuscito a trattenersi dal dire, proprio mentre la sua essenza ritornava al tempo reale normale.
''Alexi, quasi intuisco i tuoi processi di pensiero! Non sei cambiato per niente! Il tuo difetto principale è sempre stato la trasparenza eccessiva...'', aveva detto il Professore gongolante, ogni tanto ridacchiando.
''Lasciatemi andare. Ho amicizie molto in alto: lasciatemi andare, altrimenti provocherò la vostra rovina. Anzi, ho trovato i vostri discorsi tanto deliranti che ho deciso che vi rovinerò in ogni caso'', aveva detto Alexi d'un fiato, ma stava tremando.
Si era avviato verso la porta, senza verificare la reazione dei suoi interlocutori: la sbronza l'aveva reso ardito.
Non solo ardito, in realtà, si era sentito trionfante: era vero, conosceva una persona al Politburo che avrebbe potuto proteggerlo, ma sarebbe dovuto essere veloce. Forse non avrebbe potuto farli finire in un gulag in Siberia a pulire culi, ma di certo avrebbe potuto creare loro problemi. Retrocessioni di carriera, boicottaggi di interi settori del Ministero, annullamento di missioni: questo avrebbe potuto ottenere.
Ricordava di avere pensato che un porco telefono sarebbe stato la sua salvezza e la loro rovina...
Stava attraversando la strada, quando una macchina lo investì, facendo colare giù per le sue gambe il senso di trionfo che aveva appena provato.
Si era toccato guardingo: salvo il fatto che era bagnato di orina, non sembrava esserci niente altro di guasto.
Stava per mettersi ad insultare il suo investitore, quando lo vide in volto: era Grigorievich, e stava ghignando con espressione di trionfo.
Con un'agilità che Alexi pensò essere iniqua, era sceso dall'auto e lo aveva colpito in fronte con un sacchetto in pelle pieno di sabbia, senza nemmeno dargli il tempo di protestare o gridare alcunché.
Non aveva perso i sensi, quindi aveva sentito chiaramente i suoi stessi talloni strisciare sull'asfalto mentre veniva trascinato. Aveva cercato di opporre resistenza, ma fu la scelta peggiore che in quel frangente potesse fare: almeno, se se ne fosse stato inerte, non l'avrebbero percosso più, invece così si guadagnò un'altra mazzata in fronte.
E poi fu il nero.

- § 4

Non appena aveva ripreso coscienza era stato trasferito nella stanza delle piastrelle bianche.
E sbattuto su una sedia in pelle lurida e consunta.
Sul tavolo v'erano delle foto che lo ritraevano, indegnamente ubriaco.
Una era significativa in modo particolare: lo ritraeva sdraiato accanto ad una fontana, scarmigliato e sudicio.
Con la testa in una pozza di vomito.
S'era guardato, ed aveva sperato che quel rigurgito fosse suo.
Un'altra lo ritraeva mentre, di notte, orinava in piena Piazza Rossa, sul Lobnoe Mesto.
A guardarsi in quello stato e a compiere quelle azioni si era accartocciato su sé stesso, e una nausea fosca e lattescente quasi l'aveva fatto svenire.
La cosa più orribile era che non ricordava nulla.
Niente di niente.
Era stato il periodo delle sbronze da annientamento: mai come in quella fase della sua vita aveva desiderato morire.
Alla vergogna che gli provocava vedersi in quelle foto s'aggiungeva il fatto che aveva i pantaloni bagnati d'orina ed era scalzo.
Doveva avere perso le scarpe mentre veniva trascinato.
Era stato portato nel Ministero dell'Informazione.
Lo aveva capito dall'odore di cancelleria.
E lo aveva capito dal fatto che, quella in cui era, non era nientemeno che una stanza delle torture.
Era così che le descrivevano: bianche e asettiche.
In quel momento entrò il Professor Dzugasvili.
''Pisciare sul Lobnoe Mesto, Alexi... Strano, non è da lei... La sapevo rispettoso dei morti'', aveva detto il Professore. Tossì.
Alexi non aveva risposo.
Si vergognava profondamente.
Gli bastava pensare alle innumerevoli sbronze intervenute da quando aveva lasciato ufficialmente il PCUS e alle indegne puttanate che doveva avere commesso. La legge delle probabilità lavorava a suo sfavore: s'era ubriacato centinaia di volte e, davanti a sé, in quel momento, non aveva che una manciata di foto che rappresentavano un tipico campionario delle sue serate. Chissà quali altri abomini aveva commesso prima degli ultimi sei mesi!
''Non faccia l'errore di pensare che le sue partite di scacchi con Liova possano salvarla, Alexi... Ah, i vostri discorsi! Voi, così illuminati, così progressisti! E noi, così... Così... Non riesco nemmeno a trovare un'espressione confacente... Così inferiori!'', aveva gridato il Professore con voce isterica.
Era salito di tono sull'ultima parte della sua asserzione, e, come sempre faceva quando insegnando si infervorava, aveva accompagnato tutto il suo parlare con un violento e scattoso insieme di gesti.
Era sempre stato un individuo caratteriale, ma la vecchiezza l'aveva trasformato in una macchietta.
''È colpa sua, lo sa Alexi?'', aveva detto il Professore con tono assente. Dietro un atteggiamento così umorale era facile che ci fosse l'arteriosclerosi. Alexi aveva pregato che non fosse così.
''Cosa, Professore, di cosa mi sono reso colpevole, se non di idiozia e di arroganza?'', aveva detto Alexi, cercando di controllarsi il più possibile. Non era stato legato, ma questo non significava un cazzo. Una delle quattro pareti era un enorme specchio, dietro il quale, se l'era immaginato, ci doveva essere una batteria di picchiatori e torturatori, muniti dei più impensabili strumenti di lavoro, quindi era meglio che non facesse movimenti inconsulti o si arrabbiasse troppo.
''Liova è morto, e non lo ucciderà un AK-47, lo ha ucciso lei. Ci ha obbligati a farlo, con le sue minacce'', aveva detto il Professore.
''Senta, ero ubriaco come uno straccio, davvero, non sapevo cosa stavo dicendo'', aveva detto Alexi.
''No che lo sapeva, e se Oblimov non l'avesse fermata non oso pensare quali danni avrebbe provocato! Quello schifoso invertito di Petrov è come un cancro... Merita comunque di essere estirpato! Ma lei, Alexi, lei era il mio migliore alunno... Per lei ho in serbo qualcosa di diverso... 'Perché io so fare meglio ciò più aborro!' Conosce Sommer?'', aveva detto allegro e strofinandosi le mani Dzugasvili.
Aveva sorriso con un tale laido trasporto che Alexi pensò che, se avesse insistito, quel suo stesso ghigno avrebbe finito col decaparlo.
Non aveva capito cosa intendesse con quel discorso, ma aveva intuito che da una citazione tale non potesse arrivarne nulla di buono.
L'avrebbero voluto spingere a fare qualcosa di ignobile?
E cosa speravano di fare con Liova?
Il loro era un rapporto di rispetto reciproco e vaga complicità, ma di certo non poteva parlarsi di affetto...
Se mai Liova avesse procurato nocumento a quei bastardi, lo avrebbe fatto più per puro piacere personale che per fargli un favore. E avrebbe potuto ostacolarli, ma non annientarli.
L'amicizia, nel loro rapporto, c'entrava poco.
Liova era ancora parte attiva di un sistema dal quale Alexi s'era voluto esulare anni addietro, anche se stava cercando, nei limiti del suo potere, di minarlo dall'interno. Alexi invece aveva mollato per ribrezzo nei confronti del partito, ma, soprattutto, della vita.
Ma evidentemente a quei maledetti non serviva che un pretesto.
E lui glielo aveva fornito, bello e impacchettato.
''Vedo perplessità nei suoi occhi, Alexi. È talmente corrotto e istupidito da non rendersi conto che Liova è l'unica persona che le si può dire amica?'', aveva detto sprezzante il Professore.
''In ogni caso, lasciatelo fuori... Mi creda, Professore, il mio era un vaneggiamento gratuito, indotto dall'alcool...'', aveva detto esibendo l'atteggiamento di sincerità esterrefatta che tanto sapeva piacere a Dzugasvili.
Fu in quel momento che cominciò a sentirsi in colpa verso Liova.
E a sentire davvero paura per sé stesso.
''Mi creda Alexi, lei non ha fatto altra che dare la stura ad una situazione già compromessa... Per usare una metafora, è come se avesse spinto la prima pedina di un domino... Quella che provoca l'effetto a catena... Ma questo è accaduto anni fa... Liova è morto, e lei ne è responsabile; il suo credo nel partito è morto, e lei ne è responsabile... Tutto sta rovinando da anni, non è quanto è accaduto ieri ad averla portata qui. Ma voglio darle un'opportunità... Il compagno Oblimov le farà capire quali saranno i vantaggi e i benefici di una nostra futura collaborazione... Così come le conseguenze di un suo rifiuto'', aveva detto, ora calmo, il Professore.
La porta s'era aperta e Oblimov era entrato.
Era chiaro che il suo colloquio col Professore era stato ascoltato da almeno un'altra persona.
Se li vedeva, dietro quella maledetta parete a vetri, a studiare le sue reazioni e a scommettere sul suo crollo.
''Questa sarà la prima e l'ultima lezione che io le farò. Sa di cosa parleremo, vero Alexi?'', aveva detto Oblimov.
''No, non ne ho idea'', aveva risposto Alexi, cercando di mantenere un tono neutro, ma, di fatto, ciancicando una frase che forse nessuno a parte lui aveva capito.
''Le parlerò, supportato dalla tecnologia jap betamax, di come si possa procurare dolore. Lei sa perché, vero?'', aveva detto sorridendo storto Oblimov.
''No, e nemmeno lo immagino'', aveva replicato Alexi, sempre gorgogliando.
La lingua gli si attaccava al palato con una forza tale che parlare era quasi impossibile.
E non era vero che non avesse intuito nulla: non si voleva immaginare nulla.
''Le farò capire come mai, in questo palazzo, sono divenuto famoso come sinonimo di sofferenza inutile e gratuita... Sa chi mi ha dato gli spunti migliori? I condannati a morte. Ho potuto definire dei nuovi protocolli, grazie a loro... Si può dire che siano morti per un bene supremo'', aveva detto in un sussurro Oblimov.
''Ma davvero, non capisco cosa vogliate... Non conto niente, non sono nessuno, non capisco il vostro... (accanirvi, stava per dire accanirvi, ma questo avrebbe significato sofferenza, se lo sentiva)... Insistere... Davvero, non capisco dove andremo a parare'', aveva detto Alexi. Stranamente era riuscito ad essere chiaro.
''Per quanto mi riguarda, l'avrei uccisa e basta. Ma in modo pulito, mi creda. In un certo senso, mi è simpatico. Comunque, la questione è molto semplice... Vantaggi derivanti dal lavorare per noi: rimanere in vita; svantaggi derivanti dal rifiutare: morire agonizzando'', aveva ripreso a dire Oblimov mentre si accingeva, assieme a due inservienti che nel frattempo erano entrati, a predisporre un monitor e il videoregistratore.
''Inizierò con il descriverle i metodi di tortura tradizionali. I sudamericani sono degli autentici maestri in questo. Abbiamo appreso moltissimo da loro. Desaparecidos, sa? Allora, il 'Pau de Arara': consiste nell'appendere il soggetto a testa in giù, infilarle un pezzo di legno cavo nel retto e dargli fuoco. L' 'Affogato': si blocca un uomo, sdraiato, su una panca, gli si lega un asciugamano in testa e lo si inzuppa, a più riprese, d'acqua; la sensazione di affogamento è micidiale, dicono. La 'Tinozza': si riempie un barile di merda, umana o animale, e si infila la testa del soggetto nel barile stesso; su questo metodo, non aggiungo altro: si commenta da sé, non trova, Alexi? La 'Manicure': si strappano le unghie del soggetto, delle mani preferibilmente, con delle tenaglie...'', aveva detto Oblimov, e poi si era fermato a studiare le reazioni di Alexi.
Il quale, a quel punto, s'era sbiancato come un cadavere.
Oblimov aveva continuato a parlare, e mentre snocciolava quelli che per lui erano i metodi ''tradizionali'', aveva inserito un nastro nel videoregistratore.
''Quello che sta per vedere è uno dei metodi che ho inventato io...'', aveva detto Oblimov, con orgoglio forzatamente ostentato.
Era strategia psicologica di distruzione, lo capiva, nondimeno non era riuscito a trattenersi dal sorridere.
Mai come in quell'attimo quella merda di Oblimov gli era parso uno straccione.
Niente mai l'avrebbe riscattato, non c'era da fare nulla: né abiti più puliti, né un contesto diverso da quello in cui si trovava.
Sembrava un contadino russo agghindato per la fiera di paese.
Mentre pensava questo Oblimov l'aveva trascinato, senza farlo alzare dalla sedia, di fronte allo schermo.
Il nastro era partito.
Un uomo, legato ad una sedia dallo schienale alto, fatto apposta, si capiva, per impedire movimenti incontrollati della testa.
Oblimov, vestito con i pantaloni che aveva addosso pure in quel momento (quindi non era materiale vecchio), con in mano un banale coltello da tappezziere.
L'uomo che gridava, tremava, sputava e piangeva.
E imprecava in inglese.
Oblimov che gli si avvicinava ed iniziava ad incidergli la faccia, appena sotto la cute, lungo le orecchie, lungo il mento...
E l'uomo, che si dibatteva pazzamente, con questo, si capiva, facendo ancora di più incazzare Oblimov, che non riusciva a portare a termine il suo lavoro.
Oblimov che estraeva una siringa enorme, e la conficcava malamente nel collo dell'uomo.
L'uomo che sussultava e sbavava.
Oblimov che portava a termine l'opera, strappando del tutto la faccia all'americano.
Alexi pensava che dovesse essere per forza una finzione: per questo non vomitò.
''Guardi, ora viene il meglio. Consideri che qui c'è un'interruzione, dovuta al lavoro di pulitura che ho dovuto effettuare'', aveva detto Oblimov, scaraventandolo nella realtà in cui era.
Era tutto vero, per la troia Madre Russia.
Oblimov, che si avvicinava all'uomo, con nella mano destra, quella che, di primo acchito, pareva una pelle di daino, nella sinistra un mazzuolo e in bocca una fila di chiodi.
L'uomo (col volto scarnificato) che, in preda allo shock, stava tremando come una foglia.
Oblimov che gli faceva un'altra iniezione.
''Lì gli ho iniettato un potente rilassante muscolare, usato di regola come anti-spastico'', l'aveva ragguagliato Oblimov.
L'uomo, che smetteva di tremare, ma si orinava addosso.
Oblimov, che gli inchiodava, a rovescio, quella che era la sua stessa faccia, sul cranio.
Lasciandogli, di certo apposta, la possibilità di vedere con un occhio, attraverso l'orifizio di quella che era stata la sua bocca.
''Non sa il caos che ha fatto quando è tornato in sé'', aveva detto Oblimov.
Le piastrelle, bianche ed esagonali, che risaltavano di un lucore fastidioso a causa forse di un difetto di lettura della testina del videoregistratore, erano tutte schizzate di sangue.
Quando da lontano aveva sentito arrivare dei frammenti del Rach 3 aveva pensato di essere impazzito.

- § 5

''Non farà più dell'ironia 'fino a quando non si sentirà autorizzato a farla'? L'ho detto che lei mi è simpatico'', aveva risposto beffardo Oblimov.
''Si, ho capito cosa volete farmi diventare... Ma se avete letto la mia scheda saprete anche che non ho l'indole necessaria per...'' aveva cercato di dire agitandosi sulla sedia Alexi.
''Sono costretto a legarla alla sedia, lo sa Alexi?'', aveva detto interrompendolo Oblimov.
E così aveva fatto.
''Senta, non ce n'è bisogno... Io...'', cercò di dire Alexi, ma stava latrando.
''Non si giri'', aveva detto interrompendolo di nuovo Oblimov.
''Cosa? Aspetti, cosa fate, che cazz'...?'', aveva ribattuto farfugliando Alexi.
''Vedrà, è una questione di pochi minuti... E mi sa che no, non ha capito, non vogliamo una spia collaborazionista... Ne abbiamo fin troppe, di quelle merde'', disse Oblimov.
Aveva sentito un tramestìo alle sue spalle, ma prima che avesse potuto rendersi conto di che cosa stava per accadergli, gli era stata fatta un'iniezione alla spalla sinistra. Gridò. ''Non mi sento più il...'', aveva cercato di dire Alexi, ma ormai stava mormorando.
''Il braccio sinistro, fino alla spalla, vero? Anestetico locale. Non cerchi di girarsi, la prego'', aveva insistito Oblimov.
''Senta, ma cosa diavolo...?'', aveva cercato di dire Alexi, ma gli era uscito di bocca solo un altro gorgoglìo mezzo incomprensibile, e contro ogni sua volontà consapevole (lo sapeva che era meglio non voltarsi, e che se l'avesse fatto ci avrebbe perso di certo), aveva cercato di girarsi.
Si chiedeva come potessero capire cosa stesse blaterando.
Soprattutto a causa del panico (anche se l'anestetico ci aveva messo del suo), nell'ultimo quarto d'ora dopo il video, qualsiasi cosa avesse detto gli era uscita di bocca come se fosse stato una persona dalla parlata gravemente blesa. O dalla bocca piena di sugna.
''Magari fanno dei corsi", pensò assurdamente.
''Eh no, che non mi si deve girare!'', aveva esclamato Oblimov con tono ridanciano, e per dare un volitivo conforto al suo ordine, aveva preso la testa di Alexi fra le mani.
''Dio, che mani calde'', aveva pensato Alexi.
Era strano, ma le palme asciutte, calde, indurite e gigantesche di Oblimov, gli avevano dato conforto, facendolo, per un attimo, sentire al sicuro e protetto.
Anche se, con quelle tenaglie di carne, aveva pensato Alexi, se solo Oblimov avesse voluto avrebbe potuto spiccargli la testa dal collo. Con la stessa facilità con la quale avrebbe strappato un'ala da un pollo arrosto.
''Non si deve girare, compagno Alexi. Lei è un idealista, un puro di cuore, e abbiamo capito che, non ostante il suo odio per il dolore fisico, non si sarebbe mai piegato. 'Non lo spezzerete facilmente': mi creda, sono le esatte parole che ha usato Dzugasvili'', aveva detto Oblimov.
Era stato in quel momento che Alexi aveva sentito il primo leggero strattone.
''Io, dal canto mio, non sarei arrivato a questo. Ho visto migliaia di torture, come le ho già detto, e, lo sa, lo ha visto, ho perfino inventato dei sistemi che adesso fanno parte dei nostri protocolli. Non ho né l'inclinazione né la voglia di convincerla. Io, e qui mi sto ripetendo di nuovo, mi sarei limitato ad ucciderla, con un pulito colpo in testa. Pertanto, se ho accettato di fare questo, è perché, in conformità ai desideri del Professore, desidero che accetti di lavorare per noi senza la minima esitazione. Senza nemmeno la speranza di resistere. Mi comprende Alexi?'', aveva detto Oblimov con un ghigno ebete e malato in volto.
''Ma io non ho l'indole necessaria a fare quello che mi chiedete... Non potrei mai...'', aveva risposto Alexi, sempre con un effetto sugna.
In quel momento aveva cominciato a piangere a dirotto.
Lacrime brucianti e salate.
La vista gli si era ormai così appannata che non distingueva i lineamenti di Oblimov. Il quale, a quel punto, gli era arrivato tanto vicino che poteva sentirne l'alito.
Alito che sapeva, sic et simpliciter, di merda.
Di aliti cattivi Alexi in vita sua ne aveva sentiti tanti (specie perché l'abuso di vodka distruggeva stomaci e fegati), ma di aromatizzati alla merda mai.
Fu quel pensiero, unito alla botta che gli aveva procurato l'anestetico da cavalli che gli avevano somministrato, che lo spinse a ridacchiare rumoreggiante.
Aveva sentito un altro strattone, questa volta più forte.
''Allora, Alexi, cosa le dice l'espressione 'Spetsnaz'?'', aveva chiesto Oblimov in tono neutro.
Era strano, ma la sua risata non aveva provocato reazione alcuna nel suo torturatore.
''La prego Oblimov... Chiunque in Russia sa cosa voglia dire'', aveva risposto Alexi piangendo.
''Può essere... Io, tuttavia, insisto: mi dica cosa vuol dire'', l'aveva incalzato Oblimov.
''È un acrostico: sta per 'Forze Operative Speciali''', aveva detto Alexi in un risucchio. Gli stava colando il naso come sarebbe colato ad un bambino durante un pianto disperato.
''Bene, e cosa fanno?'', aveva continuato Oblimov, guardandolo indifferente.
''Sono commando, giusto?'', era riuscito a mormorare Alexi.
''Vero. Commando. Il corpo allena uomini che possano sopravvivere, sempre e comunque. In fondo, la morte in missione significa il fallimento'', aveva detto pigramente Oblimov.
Alexi ricordò di essere arrivato, di nuovo, ad un pelo dall'orinarsi addosso. Comprendeva che una lezione sull'ovvio come quella non potesse che essere foriera di catastrofi, tuttavia, aveva continuato a sperare fino all'ultimo di uscirne integro. Invece, ci aveva già perso un dito e gli avevano spaccato un labbro. Quantomeno, sperava ancora di uscirne mentalmente integro.
''Senta, ho capito, ma...'', aveva detto Alexi, ma aveva dovuto interrompersi, poiché la pressione delle mani-tenaglia di Oblimov stava aumentando oltremodo. Alexi aveva pensato che, se avesse insistito ancora un po', la testa gli si sarebbe schiantata come un melone marcio.
''Con la fine della Guerra Fredda è arrivata un'era di cooperazione'', aveva detto, ormai evidentemente partito per la tangente del proprio discorso, Oblimov.
Una parte di Alexi avrebbe voluto ignorare la follia di quanto stava avvenendo, ma era troppo acuto per non intuire cosa stesse capitando.
Se Oblimov aveva preso ad esprimersi a quel modo, di tutto doveva trattarsi tranne che di un vaniloquio.
Quelle asserzioni avevano la potenza del sillogismo, se lo sentiva.
Alle premesse ''A'' e ''B'' sarebbe di certo, e presto, conseguita la conclusione ''C''.
Cristo, gli Spetsnaz sapevano essere dei macellai tali...
''Un'unità Spetsnaz venne invitata ad un'esercitazione dalle forze speciali N.A.T.O., in Finlandia. Ma una terribile tempesta sorprese l'unità, e questa resto tagliata fuori dal resto della squadra. Con la solita condiscendenza, i militari N.A.T.O. credevano di avere molto da insegnarci. Loro pensavano in termini di metodi... Quando, in realtà, è una questione di filosofia... E di attitudine, le dicevo prima. C'erano quaranta gradi sotto zero. L'unità - erano sei uomini, tra cui me ed una persona che presto conoscerà - incappò in una giovane coppia bloccata nel suo rifugio di montagna. In otto, avevamo viveri, anche razionando, per cinque, massimo sei giorni ancora. La tempesta durò due settimane. Ah, naturalmente, non violentammo la donna. Lasciamo fuori il sesso dal nostro lavoro. Contamina le menti, mi creda. In ogni caso, ora si può girare'', aveva detto Oblimov.
Aveva pronunciato l'ultima frase ridendo, e aveva spinto con brutalità di lato la testa di Alexi, nel caso questi avesse tentennato nel voltarsi e rendendo superflua la sua autorizzazione.
Alexi aveva cercato di guardare, ma avendo gli occhi bagnati di lacrime, non era riuscito a distinguere molto.
Aveva visto solo un'esagerata sovrabbondanza di rosso.
Chiuse gli occhi, respirò a fondo, li riaprì.
Sangue, aveva capito subito, c'era sangue dappertutto, pure sui muri (sulle piastrelle) e una copia di Oblimov (il suo clone del cazzo), stava tenendo fra le mani il suo braccio, impugnandolo alla stregua di un grosso, goloso e sanguinolento würstel.
E stava ridendo, il bastardone malato stava ridendo.
Aveva brandelli di carne attorno alla bocca, e i denti molati a punta, santa merda, inzaccherati di ulteriori pezzi della sua persona e del suo sangue.
La testa di Alexi aveva cominciato ad andare all'indietro: malgrado l'assoluta mancanza di dolore, stava cadendo in deliquio.
Una sberla di potenza inaudita e terribile, appioppatagli da Oblimov, lo riportò in uno stato di quasi-consapevolezza.
Aveva guardato di nuovo il cannibale, e per la Santa Madre Russia, non aveva più occhi.
Al loro posto, delle voragini dentute, copie perfette delle sue stesse fauci, con annessi pezzi di materia e sangue.
''Allora, compagno Alexi, vero che adesso lavorerà per noi?'', avevano detto gli occhi-bocca dello Spetsnaz.
Pazzesco, aveva pensato Alexi, aveva parlato con gli occhi.
La voce, l'aveva sentito chiaramente, gli era arrivata in perfetta stereofonia.
Fu lì che svenne definitivamente.
Purtuttavia, aveva perduto i sensi con un mezzo sorriso sulle labbra: stava pensando che se anche Oblimov lo avesse percosso come un tamburo non avrebbe sentito nulla.
Almeno in questo, l'aveva fottuto.

- § 6

S'era svegliato in una stanza che pareva di ospedale, con il braccio diligentemente fasciato.
Avevano fatto un ottimo lavoro.
Non appena aveva sentito odore di cancelleria aveva capito di essere ancora nella merda.
L'avevano solamente spostato ad un altro piano, ma era sicuro come la morte che era ancora nel Ministero dell'Informazione.
Paradossalmente, non provava alcun dolore.
Aveva guardato la flebo che gli pendeva sulla testa, ed aveva capito perché: sul fianco del sacchetto appeso alla gruccia c'era il nome di un potente farmaco a base d'oppio.
Se l'erano sgranocchiato.
Gnam-gnam.
Solo il pensarlo gli faceva mancare le forze.
E a quello s'aggiungeva il fatto che era cotto come una pigna.
Cazzo, col Fentanyl in gas ci ammazzavano la gente!
Se il danno era esteso al tessuto muscolare poteva salutare il suo cazzo di braccio.
Non aveva possibilità alcuna di fuggire, lo sapeva.
Se anche dietro la porta di quella stanza non ci fosse stato un piantone, da lì ad uscire in strada ce ne passava così tanto che ogni tentativo sarebbe stato risibile.
In quel momento aveva cominciato a piangere: gli era venuto in mente di avere sperato che almeno l'equilibrio mentale gli sarebbe rimasto, e invece gli avevano portato via pure quello.
Ogni volta che avesse pensato al nastro, a Oblimov, al suo gemello...
Cosa ne sarebbe stato di lui?
Proprio in quel momento i Professor Dzugasvili aveva deciso di fare la sua entrée.
''Cosa le ha mostrato Oblimov?'', aveva detto il Professore senza preambolo alcuno.
Alexi non rispose.
Gliene mancavano le forze.
''Il video in cui inchioda in fronte all'americano il suo stesso volto o quello in cui al suo compagno di squadra ed ex migliore amico gli stacca sempre la faccia e poi gliela infila, avvoltolata su un bastone, nel retto?'', aveva detto tutto d'un fiato il Professore, con un interesse in apparenza accademico.
Alexi ebbe un conato di vomito, ma non rigurgitò nulla, anche perché doveva essere digiuno da almeno quarantotto ore.
Chiunque altro sarebbe parso un pervertito, il Professore in quel momento sembrava solo stanco.
Era evidente che ormai sapesse di avere già vinto.
''Il primo che ha detto'', aveva detto Alexi cercando di ricomporsi.
''Ha capito, vero, cosa vogliamo da lei, Alexi? E, soprattutto, ha capito cosa abbiamo deciso di lei, vero?'', aveva detto il Professore.
''Credo di si. Volete che lavori per voi. Volete distruggermi pezzo-pezzo, rovinandomi da dentro'', aveva risposto Alexi.
''È così. Guarisca. Avrà capito che la lasceremo andare a casa, ma sarà sorvegliato sempre. Tenuto sotto controllo sotto ogni aspetto. Se farà tanto di fuggire, o parlare di noi a qualcuno - Ah, a proposito, Liova è morto come il cane che era - non ci limiteremo ad ammazzarla. La tortureremo per anni. Due o tre di seguito, fino a che il cervello non le diverrà una brodaglia inutile, comprende?'', aveva chiesto il Professore.
Alexi non aveva detto nulla.
Aveva compreso benissimo.

- § 7

Erano ormai tre mesi che lavorava per il Ministero dell'Informazione.
Il braccio l'aveva conservato per miracolo, ma gli si era smagrito in modo orrendo, malgrado gli interventi ricostruttivi cui era stato sottoposto.

Come l'avevano fottuto!

Quei bastardi merdosi, pensava.
Con le loro grida, le loro minacce, l'avevano davvero sfiancato!
Non avrebbe avuto alcuna pietà.
Pensavano davvero di poterlo corrompere?
Di fargli cambiare idea, di stancarlo, di svilire la sua rettitudine?
Pensava alla stanza in cui stava per trovarsi.
Perfetta e matematica esemplificazione di occupazione dello spazio: questo erano le celle degli alveari.
Ecco perché le api usavano la forma esagonale: perché era una forma ottimizzante.
Ed ecco perché per le stanze delle torture erano rivestite di piastrelle esagonali: per fare pensare alle api.
Animali operosi.
Animali comunisti.
Guardò attraverso la parete vetrata.
Seduta sulla stessa poltrona che avevano usato con lui, v'era una donna.
Una bellissima donna.
Anche lei avrebbe cercato di dissuaderlo?
Anche lei avrebbe offerto favori sessuali?
Anche lei avrebbe maledetto, imprecato, sputato?
Non gliene poteva fottere di meno.
Orami aveva capito: la via della rettitudine gli si era spianata davanti.
Gli prese un prurito al basso ventre: lui non si imponeva preclusioni di sorta circa l'abuso sessuale.
Entrò.
Era davvero bella.
Prima di passare alla faccia se la sarebbe goduta un po'.
Aveva deciso di cominciare con la sua frase preferita d'esordio, perché, lo sapeva, con una passera come quella avrebbe avuto un effetto devastante.
E, così, disse: ''Scommetto che sa perché abbiamo scelto il bianco, vero compagna?''

 

DIALOGO DI UN TORINESE CON DIO

- -"Come cazzo hai potuto essere così stronzo? Ti si è presentata la grande occasione e tu che cavolo mi combini? Butti tutto nel cesso?"
-"…"
-"Ti faccio presente, brutto rimbambito, che molto probabilmente ti toccherà stare male il doppio di quanto tu non stia normalmente male! Sai che quelle due sostanze hanno effetto additivo, vero?"
-"…"
-"Non hai di che rispondere? Vorrei ben vedere!"
-"Che cazzo posso dire?"
-"E' vero, tu non puoi dire nulla: sono io che ti faccio presente che la strada della Salvazione si fa sempre più lontana."
-"E se invece mi toccasse stare male assai meno di quanto tema?"
-"Odio ripetermi: ti ho già detto che non sono onnisciente! Inoltre, in tutta sincerità, ti auguro di soffrire quel tanto che basta a farti evitare di buttare nel cesso la tua dignità."
-"Grazie, Magnificentissimo Pezzo di…"
-"Non dirlo o ti folgoro. Come credevo di averti fatto capire io non sono il Dio del Perdono, anzi, sono il Dio Tremendo e Vendicativo dell'Antico Testamento, per cui attento a come parli."
-"Hai ragione: non butterò nel cesso la mia dignità. Non questa volta, almeno. Sai, contrariamente a quanto temessi, non si sta per niente male senza monnezza."
-"Ma che grande scoperta! Come credi che funzioni normalmente il mondo?"
-"Dal mio punto di vista sai come cazzo funziona il mondo."
-"Già, tu sei quello che andava frignando in giro di non concepire un'esistenza alternativa a quella che stavi conducendo. Peccato che, insistendo lungo quella strada, altro non si può trovare che la Perdizione, figliolo."
-"Che fai, mi prendi per il culo? Credi che non abbia sentito come hai pronunciato la parola "figliolo"?"
-"Su, questa fammela passare. In fondo siete voi i rompicoglioni che mi chiamate Padre dall'alba dei tempi."
-"Ma come, non sei Tu il taumaturgo per antonomasia?"
-"Veramente io mi sono limitato a pisciare nel brodo primordiale... Che ne siate venuti fuori voi è vicenda che andò ben oltre le mie aspettative e che quindi esula dalle mie responsabilità."
-"Esula dalle tue responsabilità? Tu sei completamente impazzito!"
-"ZITTO o ti tramuto in uno scarafaggio stercorario. Sai qual è l'occupazione principale di quelle bestiacce? Spingere palle di merda tutto il giorno, avanti e indietro, avanti e indietro. Per quale misterioso scopo non lo so, forse se le mangiano! Ah Ah Ah Ah!"
-"Magari lo fanno per erigere templi in tuo onore…Ah, ah, ah, AH!"
-"…Ti faccio presente che se ora non ti ritrovi a spingere palle di feci è solo perché la battuta che ho appena fatto mi ha messo di buon umore… Ringrazia il fatto di esistere, invece di usare quel tono di rimprovero nei miei riguardi... Potessi fare capire a coloro che mi pregano, a coloro che uccidono in Mio nome, quanto sia vano il loro dibattersi! Il fatto è, come avrai sicuramente intuito, che se mai facessi una cosa del genere il mondo se ne andrebbe totalmente a puttane. Immagini a che punto potrebbe arrivare l'isterismo di massa? Non solo siete un aspetto secondario della Creazione, non ho mai dato il benché minimo ascolto alle vostre preghiere! A ben guardare, perché avrei dovuto? Brutti pecoroni, non siete in grado di affrontare da soli la vita? Dovete imparare a responsabilizzarvi, altro che preci!"
-"…Vorrai però concordare con me che l'esistenza non è fatta di soli mattoni…"
-"L'unico mattone è quello che ti è caduto in testa, mi sa…"
-"…Sono pienamente d'accordo sull'inutilità della fede, intesa appunto come adesione dell'anima e della mente ad una verità religiosa rivelata e soprannaturale, però… come si spiega l'ossessione numerica che sta ammorbando la mia vita? In quanto mente tendenzialmente razionale ho oramai pienamente preso atto del fatto di avere a che fare con l'irrazionale… Non so se tu ne sia al corrente o meno, però sono otto o nove anni che sono perseguitato dal "Numero della Bestia" e, ultimamente, per quello che può valere, dal suo opposto…Gnagnagna… Mi rendo conto che i numeri li abbiamo inventati noi, e che la numerologia non è altro che una forma di speculazione su simboli che appunto non sono di emanazione divina, però, come già ti ho detto, se Tu avessi visto quello che i miei occhi hanno visto, troveresti assai difficile dubitare di quel che sto asserendo."
-"Di cosa stai cianciando? Spiegati meglio, per favore."
-"C'è poco da spiegare. Sono ossessionato da due numeri: il triplice sei e, appunto, il suo opposto, ovvero il triplice nove…"
-"Ti assicuro che la tua esistenza non è così importante da determinare un mio diretto coinvolgimento e, lasciati dire, nemmeno un diretto coinvolgimento di quello che tu, erroneamente, hai pensato fosse il mio "avversario"... E' molto più probabile che tu sia un sensitivo e, quindi, in quanto tale, ti è dato di vedere all'opera forze che, per quanto non sempre evidenti, in realtà sono proprie della natura."
-"Je ne comprend pas…"
-"E' più probabile che tu non voglia capire. Conosci la concezione Panteista? Posso dirti che tanto il bene quanto il male sono nella natura… nel contempo, però, possono dirsi al di là di essa: ebbene, a te è dato di vedere, ma, ti assicuro, non c'è alcun motivo in particolare. Il Male non è a te direttamente interessato più di quanto non lo sia io e, sicuramente, avrai capito che a me di te non me ne importa un cazzo. Niente di personale, naturalmente: Iddio non ti ha abbandonato, come ogni tanto ti sarai compiaciuto di pensare…"
-"Semplicemente non ti sei mai interessato del frutto dei tuoi lombi. Bah, sei un tipo strano, sai?"
-"Non che tu sia normale…Come hai potuto pensare di essere un ossesso? O magari pensi anche di essere posseduto, eh?"
-"Senti, cacamondi a tradimento, ho dei testimoni oculari…"
-"Ma non mi dire!"
-"Hai poco da sfottere…Una sera un mio amico assistette al "fenomeno" e poco ci mancò che vomitasse…Un altro mio amico, tutte le volte che usciamo assieme, la vive sulla propria pelle, esattamente come me… La prende sull'ironico, ma anch'egli è parecchio sconcertato da quello strano accadimento…"
-"Aaaaa…Aaaah…AAAspetta! Su Lixitor, un pianeta simile alla tua Terra, orbitante attorno a Ophichius, stanno per fare un sacrificio in mio nome…Mmmmh! E' una vergine! Sai qual è il particolare più abnorme? Il sacerdote che sta officiando il rito non crede in me, lo fa solo per placare la disperazione del suo popolo…"
-"Ah. E cosa vogliono in cambio? Benessere materiale o spirituale? O tutte e due?"
-"Non piove da mesi…"
-"Che aspetti? Piscia loro in testa, così magari la vergine non morrà tale…"
-"Ho pisciato sulle vostre teste, dicendovi che pioveva…"
-"Non hai proprio nessuna pietà, eh?"
-"Voi ne avete mai?"
-"…"
-"Non ho che dirti…"
-"Se è per questo, nemmeno io."

 

A LITTLE STORY OF BAQUO

Baquo è sul pullman da quasi un'ora.
Sta congelando: la temperatura all'esterno è di -5° centigradi.
La schiena, appoggiata ad un finestrone del bus, è intorpidita, ma Baquo è troppo scoglionato per cambiare posizione.
Strano individuo, Baquo: spesse volte gli è capitato di ragionare, financo nel quotidiano, in termini di utilità economica, comparando i costi e i benefici del suo agire; ma oggi, del freddo calore che sta assalendo i nervi della sua schiena, pare non impiparsene.
Come sempre, si è seduto a metà bus, così può, negli intervalli in cui riposa il cervello durante la lettura o durante l'ascolto delle sue mirabolanti compilation, osservare i suoi estemporanei dirimpettai.
È triste, felice, si fa le sue storie.
Una cornacchia gracchia fetente, e Baquo, ordinary man del XXI° secolo, vorrebbe poterla disintegrare in un'esplosione di piume: è da bambino che considera quello stridente starnazzìo animale foriero di cattivi presagi.
Con un bazooka, magari.
Sa che è un'insensatezza attribuire ad un animale poteri da chiarchiaro, ma non ostante la predisposizione e la passione per la scienza, tutte, ma proprio tutte, le volte che sente gracchiare un corvo, pensa: "Uhm…Il gracchiare di un corvo…Speriamo non sia di cattivo augurio!"
La cornacchia bastarda ha interrotto la sua lettura, quindi, inizia un'involontaria disamina dei pesciolini dell'acquario. Gli occhi vagolano e vagolano, soffermandosi dapprima su un individuo di sesso maschile che ha un'assurda aria a metà tra il batrace ed il pesce palla e poi, cascando, colpevoli ma ingestibili, su un mammifero della specie da lui preferita: una femmina umana.
È molto, moooolto attraente, anche secondo gli eccessivi canoni estetici di Baquo.
Inizia così a scrutarla e, dopo qualche secondo di stupore analitico, coglie il pretenzioso acrostico che campeggia sulla borsa rosa shocking ch'ella ha appresso, di bianco stampato: "S.Pe.G.E. e P.".
"Ah! Scuola Per Giovani Estetiste e Parrucchiere!", pensa feroce Baquo, neanche avesse letto "Scuola Per Giovani Meretrici". Pure, malgrado la madre hair stylist, malgrado si sia ripromesso di non essere inutilmente misogino, la sua mente è gia caduta in una delle tante trappole del sessismo maschilista, e l'attenzione verso la femmina in parola scema precipite.
Torna, languido e pigro, a "La variante di Lüneburg", libro elegante e adamantino, nella cui lettura è la seconda volta che indulge esterrefatto.
L'occhio gli cade (plop!) sul fondo pagina, e lì coglie il termine scacchistico "Zugzwang", ma Baquo non tiene voglia di saltare la pagina e mezza che lo separa dalla spiegazione. Così, prende a rimuginare, lui che si è appena fatto travolgere dal Nobil Giuoco: "Zugzwang… Dovrebbe significare o 'Situazione propria del gioco degli Scacchi in cui, qualsiasi scelta si faccia, si è perduti', o indicare una situazione di stallo non aggirabile…Non me lo recuerdo più…Cazz', comunque, sembra descrivere la mia vita…",e poi ridacchia, poiché, per quanto non abbia pietà degli altri, in effetti, non ne ha neanche mai di sé stesso.
La risata attrae l'attenzione sonnolenta degli abulici astanti, molti dei quali, data l'ora presta, non riderebbero mai e, di riflesso, lo contemplano come se fosse un mentecatto pericoloso.
Tra coloro che l'osservano, v'è anche la giovane parrucchiera ed estetista, e Baquo ricambia, pensandosela già ignuda.
E carponi.
E umida…
E…
Tra le mani ha un quaderno, dal quale si affaccia quella che pare essere un'epistola grondante amore, di rosso vergata.
Baquo è un empate, e raramente sbaglia: se s'è fatto l'idea che la giovine peni per un amore perduto o per un amore che vuole perdere, è improbabile che si tratti di appunti presi a lezione. Parimenti, se sente un formicolìo lungo l'organo, è assai presumibile che ella sia da lui attratta.
"Lezione de che, poi? 'Prima ora: Taglio; Seconda ora: Phono; Terza:Manicure; Quarta: Cerette a caldo e a freddo: un'Analisi Comparativa?'", pensa incattivito Baquo, e poi, vinto dalla curiosità e dall'istinto della carne, s'avvicina ad ella.
Lei lo guarda dall'alto in basso, soffermandosi sulle scarpe ("Perché poi le femmine si fissano sulle scarpe?", si dice Baquo) e, poi torna alla sua lettera, melodrammatica e vanitosa.
I relais che condizionano tirannici l'esistenza di Baquo sono scattati, e benché non sia né un pornofilo né un erotomane, gli tornano alla mente immagini in cui casualmente s'era imbattuto durante una giornata di pigre navigazioni: ragazze che si erano trasformate il Monte di Venere in composizioni artistiche, ritagliandosi o facendosi ritagliare stelline, trifogli, triangoli, cuoricini, tribali e altre variopinte fantasie.
Essendo giornata d'occhi cascanti, l'occhio gli cade (ariploppete!) sull'epistola e, ahilui, in essa Baquo scopre una verità e mezza: ella ha scelto di lasciare il suo lui, perché, "In certi mommenti, si sentiva sofocare".
A conferma perfetta della sua sensazione, vi sono contenuto e forma della lettera scarlatta: gronda amore, ma dalla quantità industriale di strafalcioni ortografici di cui abbonda, si deduce che la femmina in questione è ciò ch'egli immaginava fosse.
Un vacuo involucro, attraente, curata e profumata, ma decerebrata.
Sentendosi osservata e violata nella sua intimità, ella ri-guarda Baquo dall'alto in basso e, al termine della discendente panoramica, sdegnosa alza il mento e volge altrove lo sguardo.
Baquo è furente: cazzo, non se la voleva mica scopare!
O magari si, ma rispettando il rituale del corteggiamento umano, benché giudicandolo ridondante e ipocrita, lo detesti.
Ella ha invece manifestato chiaramente la sua stizza, e, soprattutto, nel linguaggio tipico delle femmine torinesi, gli ha dato ad intendere che, possedendo il brevetto della passera, mai gliene farà verificare il progetto.
Rosso di rabbia e frustrazione, sporge il basso ventre leggermente in avanti e, con aria da cerbiatto, le domanda:
"Scusa…?"
"Si…?", ella risponde, dimostrandosi, infine interessata, e fornendogli prova che, effettivamente, tra loro v'è tensione erotica e facendolo vagamente dispiacere per ciò che sta per dire, ma che, spietato vendicatoreBAstardoQUattrOcchi che non è altro, dirà,
"Me lo pettini il cazzo?"

FINE.