Daniela Raimondi

Sono nata a Sermide, provincia di Mantova, nel 1956. Nel 1980 mi sono trasferita in Inghilterra, paese dove risiedo attualmente.
Mi sono laureata in Lingue e Letterature Moderne presso l’Universitá di Londra ed ho vissuto per due anni in Colombia, Peru e Brasile. Al momento sto preparando un Master in Letteratura Latino-Americana sempre all’Universitá di Londra. Insegno italiano come lingua straniera in questa citta’. Ho pubblicato nella rivista italiana a Londra: "Il Punto" ed in varie riviste letterarie in Italia. Partecipo a concorsi letterari da circa due anni con risultati molto incorraggianti e recentemente ho pubblicato un quaderno di poesie con la Montedit di Milano.

Zia Edvige

Ormai vecchia, ripenso spesso ai tempi della mia infanzia mentre aspetto paziente la morte in un moderno appartamento al confine con la Svizzera. Nella confusa ragnatela delle mie memorie gli avvenimenti finiscono per intrecciarsi disordinatamente l’uno con l’altro e dimentico spesso i nomi delle persone. Rimangono soltanto, vive e vibranti, sensazioni di pelle, gusti di cibo, rumori, cantilene e ninne nanne imparate a memoria nei primi anni di vita, e che io stessa ho cantato ai miei figli.

Ricordo peró quando la domenica mattina mio padre mi caricava sul carro e percorrevamo insieme la strada dell'argine che portava alla chiesa. Le messe le trovavo sempre un pó noiose e sempre troppo lunghe. Finivo regolarmente per vagare con i miei grandi occhi sugli affreschi del soffitto o sulle immagini opulente dei martiri. Tutto quel sangue mi terrorizzava e affascinava allo stesso tempo, e nonostante da bambina andassi regolarmente in Chiesa, il mio senso religioso non andò mai aldilà del piacere profano che ricavavo dall'odore dell'incenso, dalla bellezza dei dipinti o dal magico brillare delle candele nelle processioni di maggio. Appena ne fui in grado cominciai a diradare le domeniche in chiesa e arrivata l’adolescenza mi rifiutai del tutto di andare a messa.

Mamma e papà non riuscivano a capire come da bambina dolce e remissiva, mi stavo trasformando in un'adolescente ostinata e difficile.

- Ha preso da sua zia Edvige!

Sentenziava mia madre ogni qual volta che nasceva un battibecco con me. Anni prima zia Edvige era stata lo scandalo della famiglia. Da giovane era stata una ragazza molto bella e piena di pretendenti ma poi aveva avuto la disgrazia di innamorarsi di Umberto, un ragazzo del littorale ferrarese venuto nel paesino per sposare Marta, una lontana cugina della mia famiglia.

Il giorno delle nozze gli sposi risplendevano di giovinezza ed allegria e rapirono l’immaginazione di tutto il paese. Lui era alto, con gli occhi chiari e la pelle abbronzata dal sole dell’Adriatico ed aveva un fare dolce che accattivava la simpatia della gente. Marta era invece una ragazza tanto bruna da sembrare una zingara, con occhi languidi e allungati, un naso sottile e leggermente acquilino e una massa di capelli neri e lunghissimi che teneva raccolti in enormi trecce lucide.

Sembra che Zia Edvige vide per la prima volta Umberto sul selciato della chiesa. Si fermó all’improvviso come ipnotizzata dalla visione mentre sentiva il suo cuore farle capriole nel petto. Non si rese nemmeno conto che si trattava dello sposo e quando comprese il suo errore era giá troppo tardi. Si diceva che fosse stata lei ad averlo rovinato, iniziando spudoratamente a fissarlo il giorno stesso del suo matrimonio. La veritá fu che la zia non riuscí a nascondere la tempesta che le sconvolse l’anima per quel nuovo cugino, e quando Umberto incroció il suo sguardo ne ebbe istintivamente paura e sentí un brivido di freddo percorrergli la schiena. Entrambi tentarono inutilmente di combattere l’attrazione sconvolgente che li invase nel momento stesso in cui posarono gli occhi l’uno sull’altro. Si evitarono per mesi, ma finirono per cercarsi con disperazione, ed alla fine cedettero esausti e pieni di rimorso ad una passione distruttiva che li travolse come un uragano, e che doveva rovinare la vita a tutti e due.

A nulla servirono l'intervento delle famiglie, gli scalpori e le scenate pubbliche della moglie tradita, l'imprecare della madre o le minacce del prete. A nulla serví la lenta e crudele tortura inflitta alla zia dell'intero paese. Lei sopportó tutto: i bisbigli delle vecchie ed i silenzi carichi di rimprovero; le battute a doppio significato e le risatine sarcastiche che circondavano puntualmente la sua apparizione. Niente la fermó e niente poté farle cambiare idea. La zia sacrificó la possibilitá di matrimonio e rispettabilitá per amore di Umberto, e mentre Marta passava da una gravidanza all’atra, lei scoprí a poco a poco che la sua mancanza di figli non era altro che un riflesso della propria sterlitá.

Per anni zia Edvige sparí dai campi durante il giorno e sgusció dalla finestra della sua camera durante la notte. Solo con Umberto sembrava rivivere e risvegliarsi dal torpore in cui viveva nell'attesa di rivedere il suo amante. Quando lui la chiamava la zia sembrava rinascere, spinta da una forza che le faceva paura, ma a cui ormai non poteva sottrarsi. La picchiarono, la maledissero e la punirono. Esasperati i genitori la mandarono da parenti a Bologna per quasi un'anno nella speranza che la lontananza spegnesse quel fuoco indecente. Ma quando quegli zii dovettero liberare la camera per un figlio che stava per prendere moglie Edvige fu rimandata a casa. Da lí a due giorni lo scandalo era già ricominciato e doveva continuare per anni, finendo per stancare pettegoli e preti, diventando un topico cosí vecchio e criticato da annoiare anche le zittelle piú chiesauole e tenaci.

La relazione peccaminosa finí cosí per trasformasi a poco a poco, chissá per pura noia, in un fatto accettato da tutti, compresa Marta. Non fu né religione, né legge o morale a porre fine a quell'amore proibito che aveva sfidato il mondo intero per anni, ma una terribile disgrazia che avrebbe separato per sempre i due amanti.

Un pomeriggio di luglio, vinti dal caldo e dalla felicitá che segue l’amore, zia Edvige ed Umberto si erano addormentati abbracciati nel bosco di pioppi che costeggiava il fiume. Improvvisamente il silenzioso torpore del paese fu lacerato dagli urli disperati di Marta. I due amanti si svegliarono di soprassalto. Umberto si rivestí in un batter d’occhio e si mise a correre con il cuore in gola verso la piazza. Non sapeva cosa lo aspettasse, ma nel fondo dell’anima giá capiva che la sua vita sarebbe finita esattamente quel pomeriggio, lacerata da quelle grida di bestia ferita.

Due dei suoi figli erano annegati. Dopo il pranzo Umberto li aveva portati via con la scusa di una passeggiata, ma li aveva lasciati da soli a giocare su una spiaggetta del fiume per incontrarsi con l’amante. Il piú piccolo, di quattro anni, era stato travolto da una corrente mentre giocava nell’acqua ed il fratello di otto era annegato nel tentativo di salvarlo. Ritrovarono i due corpicini tre giorni dopo a dieci chilometri dal paese. Erano impigliati a dei rami presso l’argine, ormai gonfi e bluastri come pesci tropicali e galleggiavano tranquilli vicino alla riva.

Marta impazzí dal dolore. Una notte di fine settembre due contadini la videro camminare nella nebbia sull’argine del fiume e per un momento credettero si trattasse di un’apparizione. La donna avvanzava lentamente: i suoi occhi da araba fissi sull’acqua del Po. Aveva una camicia da notte bianca che la copriva fino ai piedi ed i lunghi capelli neri le cadevano sciolti fino alle reni. I due uomini la chiamarono, quasi per convicersi che la donna non fosse un fantasma, ma lei continuó il suo cammino senza voltarsi, attirata dalle acque del fiume e discendendo l’argine come in trance. Raggiunse la riva e s’immerse tranquillamente nell’acqua confondendosi con la corrente. La salvarono per miracolo, riportandola a riva ormai mezzo morta e con l’acqua giá nei polmoni. La adagiarono spaventati sull’erba, mentre i suoi lunghissimi capelli galleggiavano ancora nell’acqua e formavano intorno al suo viso da zingara ormai livido un’aureola grande come una coda di pavone. I due contadini la fissarono e pensarono per un attimo che la moglie di Umberto non fosse piú una creatura di questo mondo, ma una fata del fiume, o una sirena strappata alle acque prima che potesse raggiungere il mare. Appena rinvenne Marta li fissó con gli occhi socchiusi ed uno sguardo assente, imbevuto di morte. Ci fu un lungo silenzio, poi la donna disse lentamente, ma con la fermezza aghiacciante di una profezia:

- che Dio vi maledica, a tutti e due.

Chiuse gli occhi, e la bocca le si trasformó in una smorfia sprezzante ed aspra che doveva accompagnarla fino alla tomba. Da quel giorno parló solo a monosillabi, rispondendo alle domande annuendo o scuotendo la testa che teneva sempre abbassata sul mento. La si sentiva invece urlare di notte, incessantemente, sconvolgendo il sonno del piccolo borgo mentre chiamava fra i singhiozzi i figli morti.

Fu quel dolore immenso a separare per sempre i due amanti. Umberto passó il resto della sua vita roso dal rimorso, maledicendosi e augurandosi la morte. Si trasferí con Marta e i due figli che gli restavano nel Novarese, da parenti, e trascorse l’esistenza cercando di dimenticare il passato e imprecando la vita fino a che, all’età di 67 anni, morí di polmonite lasciando questo mondo con un sorriso di compiacimento.

Dal giorno della tragedia zia Edvige si chiuse invece in un dolore profondo quasi quanto la pazzia della sua rivale. Da ribelle e piena di vita la zia andò trasformandosi con gli anni in una creatura silenziosa, impenetrabile ed irraggiungibile. Io dovevo conoscerla dopo questa trasformazione. La sentivo diversa dagli altri membri della famiglia e provavo curiosità per quella creatura solitaria e taciturna che nonostante gli anni ed i dolori conservava ancora una bellezza quasi intatta. Aveva un corpo snello, i capelli ricci e dorati raccolti sulla nuca, gli zigomi alti e due occhi grandi e trasparenti come i miei, che peró guardavano ormai senza vedere. Niente sembrava piú toccarla. Si era ritirata in un mondo tutto suo, isolato e lontano dagli eventi che segnavano il passare del tempo nella piccola borgata. Per la zia il cambio delle stagioni, le semine, le mietiture, le feste religiose, le nascite e le morti, finirono per perdere ogni significato, perché le ricordavano il rinnovarsi incessante di una vita che lei aveva giá abbandonato.

La famiglia accettó talmente il suo silenzio che quasi si dimenticó della sua esistenza, e quando zia Edvige si ammaló di morbillo e non scese in cucina come tutte le mattine nessuno sembró notarlo: la sua presenza era ormai talmente impercettibile che la sua mancanza sembró colmare l’angolo che lei occupava solitamente vicino alla finestra. Fu lasciata sola e senza cibo per quasi tre giorni. Quando finalmente la febbre diminuí, la zia riuscí a malapena a trascinarsi giú dal letto e a dirigersi barcollando verso il lungo corridoio che portava alla cucina, ma cadde svenuta passando davanti alla dispensa, sopraffatta dall’odore intenso dello strutto e dei salami all’aglio appesi a dozzine sul soffitto.

Io osservavo spesso zia Edvige in silenzio, con grande curiositá, ma quando indagavo con la mamma questa dava risposte vaghe e frettolose cambiando subito il discorso. Eppure percepivo l’esistenza di un segreto dietro quegli occhi di marmo. Poi un pomeriggio, quando dovevo avere piú o meno dodici anni, la intravvidi attraverso il portone socchiuso del cimitero. Mi avvicinai senza farmi scorgere e trovai la zia inginocchiata davanti ad una tomba. Era tardi e si stava facendo scuro. Mi ricordai che mia madre mi aveva raccontato di quei due fratellini annegati nel Po tanti anni prima, ma nonostante i genitori si fossero trasferiti avevo notato che qualcuno vi portava regolarmente dei fiori. Fissai seria il volto di zia Edvige e mi sentii rabbrividire.

Il suo viso, solitamente spento ed assente, era ora pervaso da un’espressione di un'intensità spaventosa: era come se una strana forza si sprigionasse da qualche parte remota del suo essere per prendere vita e irradiarsi sul suo viso: un’energia terribile correva impazzita nelle sue vene, nella gola, nelle mascelle contratte, sulle labbra violacee, e in quegli occhi! Non le avevo mai visto quegli occhi! Le orbite si erano fatte piú grandi e le pupille sembravano due lame di acciaio fisse sull'epigrafe della tomba. Trattenni il fiato, paralizzata dalla visione. Tremai. Non capii bene cosa tutto quello significasse, ma sentii una pena struggente per quella creatura di mezza età di cui tanto si era chiacchierato anni prima, ma di cui tutti ora evitavano di parlare. Quella donna che scivolava silenziosa lungo i muri di mattoni rossi e sembrava sparire agli angoli dei vicoli quasi senza toccare il suolo, senza far rumore, tacitamente chiedendo perdono al mondo per continuare ad esistere. Nella mia tenera etá non compresi fino in fondo la tragedia che aveva colpito zia Edvige, ma in quel momento divenni consapevole di qualcosa di nuovo che fino ad allora non avevo conosciuto nel mio mondo felice ed incontaminato. Quel pomeriggio mi trovai per la prima volta faccia a faccia con il dolore, e scoprirlo cosí da vicino, senza veli, senza pudori e senza ritegno, segnò improvvisamente la fine della mia infanzia.

Zia Edvige continuó la sua esistenza ai margini della vita, dimenticata da quel villaggio sul Po e dai componenti della sua famiglia. Piú passavano gli anni meno usciva di casa, fino a quando finí per abbandonare completamente anche le messe nelle feste comandate e le poche passeggiate serali nelle torridi sere estive della Pianura Padana. Mori nel 1974, all’etá di 92 anni, ma il paese si era praticamente scordato di lei e solo una manciata di parenti la accompagnó distrattamente nel suo ultimo viaggio al cimitero.

Dopo qualche giorno aiutai una mia cugina a ripulire la sua stanza dalle mille cianfrusaglie dell’altro secolo che avevano riempito il suo mondo. Mentre rovistavamo nell’ultimo cassetto del suo comó di noce scoprimmo, nascoste sotto a delle lenzuola di lino, un centinaio di lettere e la fotografia di un bell’uomo biondo dagli occhi chiari e dal sorriso accattivante. Ci guardammo con sorpresa e prendemmo in mano il ritratto. Recava solo una breve dedica: "Per sempre, Umberto". Le lettere erano ancora nelle loro buste ed erano state scritte dalla zia ad un certo Umberto Cavalli ed indirizzate ad un paese che non avevo mai sentito nominare nella provincia di Novara. Erano state riposte con grande cura: erano divise in ordine cronologico, anno dopo anno, ed ogni plico era tenuto assieme da nastri di raso rosso. Le lettere erano tutte ingiallite ma profumavano di borotalco ed avevano il fascino di un mistero antico, d’una storia d’altri tempi. Non erano mai state spedite.