Guido Pistorio

sono nato a Catania il 15 gennaio 1970. Nel '95 ho conseguito la laurea in Filosofia presso l'Università della mia città, dove insegno da alcuni anni. Scrivo dall'adolescenza. Ad oggi ho portato a termine due raccolte di racconti: ("Psicomachia" e "Coniglio bianco"), una di poesie ("Il dirupo del tempo"), una di aforismi ("L'ultima cosa al mondo") ed una di atti unici teatrali ("L'ascolto"). Ho all'attivo anche una (credo) divertente e inedita raccolta di circa 150 frasi palindrome di mia invenzione. A partire dal marzo 2000 ho inserito gran parte dei miei testi sui due siti per autori esordienti www.scritturafresca.org, e www.liberodiscrivere.it, ottenendo dai lettori/autori giudizi generalmente positivi e incoraggianti. Alcuni dei miei racconti e alcune delle mie poesie sono (o sono stati) ospitati anche nei siti letterari www.pickwick.it, www.bookcafe.net, www.ilfiloonline.it, www.scrittiinediti.it, www.scrivi.com, www.scrittura.it, www.rivistaorizzonti.net.
Ad oggi ho pubblicato:
1) il racconto Il cane in AA.VV., "Sul filo dell'innocenza", Akkuaria editrice, Catania 2002;
2) la poesia Il pianeta del dolore in AA.VV., "Poesie del nuovo millennio", Aletti editore (Distribuzione Librerie Feltrinelli), Roma 2002;
3) Il racconto Il grafomane in AA. VV., "Racconti 2002", Liberodiscrivere editore, Genova 2002 (selezionato dai lettori e dalla redazione tra le proposte narrative più interessanti pervenute al sito liberodiscrivere.it).
Di prossima pubblicazione:
1) la poesia Il guardiano in AA.VV., Poesie del nuovo millennio II, Aletti editore
2) la poesia Riassorbimento in AA. VV., Enciclopedia dei poeti emergenti, Aletti editore.

Il segreto

Quell'uomo custodiva un profondo segreto. Così profondo che da anni, a quanto sembra, persino lui lo aveva dimenticato. Forse lo aveva rimosso intenzionalmente, per essere del tutto certo di non tradirlo contro la sua stessa volontà, se mai avesse un giorno smarrito il controllo delle sue facoltà. Questa, peraltro, è soltanto un'ipotesi. Può anche darsi che costui fosse stato sin dalla nascita completamente all'oscuro del contenuto del suo segreto e lo avvertisse solo confusamente, come un sordo disturbo dell'anima. In ogni caso, quel segreto bruciava incessantemente nel suo sguardo. Qualcuno in grado di leggere il linguaggio degli sguardi, applicandosi, magari sarebbe riuscito a decifrarlo. Ma l'umanità, da molto tempo, ha perso persino il ricordo di questa antica scienza. Per questo motivo il suo sguardo si era pietrificato, negli anni, come in un conturbante geroglifico, evocatore di imprecisati sconvolgimenti. Esso suscitava nelle persone solo un timore imbarazzato, come l'ambiguo idolo di una civiltà cancellata dalla storia che turba le coscienze anche se lo si osserva attraverso la rassicurante teca di un museo. Certi giorni quel segreto tornava a ribollire nei suoi occhi come una volta, e sia lui che coloro che gli rivolgevano la parola abbassavano il volto o si sforzavano di guardare altrove. Temevano che il segreto venisse improvvisamente a galla, ma certo non avrebbero saputo dire in che modo.
Sembrava, d'altra parte, che tutti attendessero - si sarebbe detto: sperassero - che quell'uomo, un giorno l'altro, parlasse e desse veste verbale a ciò che teneva celato nella zona più occulta del suo cuore. Una speranza venata tuttavia di sfiducia, perché intuivano che non era capace, anzi, non voleva rendersi capace di farlo. E' per questo, crediamo, che per molti anni fu circondato da un misto di titubante rispetto e sottaciuta riprovazione; riprovazione che talora erompeva in occhiate di aperto disprezzo. Egli avvertiva tutto questo e ne soffriva intimamente, cercando di far finta di niente. Lo scopo che perseguì malamente per tutta la vita fu, infatti, quello di passare per una persona normale, di farsi accettare dagli altri come uno di loro. Ma l'unico risultato che in tal modo ottenne fu di passare per qualcuno che sfugge al suo destino, per un estraneo a se stesso e agli altri. Ciò ne fece alla fine un reietto, un uomo abbandonato e detestato da tutti.
Durante la sua tarda e selvatica vecchiaia la gente s'era alla fine dimenticata di lui e del suo segreto, che da tanto tempo non balenava più, col sordo clamore del suo sguardo, alla vista delle persone. Viveva da solo, in una baracca lontana dall'abitato. Non varcava che raramente l'uscio di casa per fare solo pochi metri di marciapiedi, a destra o a sinistra, in malcerti tentativi di esplorazione. Metteva goffamente avanti il suo bastone da cieco, ma ritornava subito brancolando sui suoi passi.

 

L'insegna

Lungo la strada che percorro ogni mattina c'è un negozio che reca questa insegna: "La tavolozza". Sta lì sicuramente da quando ero bambino, ma forse da molto prima; una comune insegna in caratteri neri su fondo bianco, che non attira minimamente l'attenzione. E' lì, immutabile, da almeno trent'anni.
Ora, ci sono diverse cose inanimate che "stanno lì" da un tempo incomparabilmente più lungo - intendo cose naturali come alcuni tratti di scogliera, ma anche manufatti umani come certi monumenti -, le quali mi comunicano solo un senso di calma. Questa invece mi turba. E nel vederla penso: stanotte, mentre dormivo, quest'insegna era lì, ma era lì anche quel tale giorno in cui mi sono laureato; e molto prima, il pomeriggio di tanto tempo fa in cui ho conosciuto la mia prima ragazza. Lì durante i lunghi mesi che ho trascorso all'estero, ancora ragazzo. Lì prima che nascessi. E probabilmente essa si troverà ancora lì quando sarò morto e sotterrato. Lì.
La sua fissità imprigiona la mia attenzione come se in qualche modo tutto dovesse riferirsi a quella insegna, che permane in quel luogo, inamovibilmente, mentre tutto accade a me e intorno a me. E immagino un intero mondo nel quale tutto ciò che accade si riferisce, attraverso molteplici deliranti vettori, soltanto ad essa e alla sua permanenza negli anni. Un mondo del tutto in perdita, amarissimo, che fa petizione ad essa di un significato complessivo.
Di me non una sola stilla d'acqua o grammo di tessuto è lo stesso di quando ero bambino e di giorno in giorno tutta la materia di cui è fatto il mio corpo cambia, si perde e si sostituisce, mentre l'insegna non ha in tutto questo tempo subito nemmeno un'incrinatura, nessuna alterazione significativa. Giungo persino a pensare di doverle un certo rispetto, una certa considerazione per questo: in un certo senso lei esiste davvero, mentre io sono solo un miscuglio di sostanze assai più degradabili che muta e si rimescola in continuazione. So bene che certe strutture non si modificano, che il mio corredo genetico mi accompagna uguale per tutta la vita, a sentire la scienza, ma è una assai debole consolazione: i geni sono solo una parte, una base di me, quel che conta è la mia identità. E anche questa si modifica attraverso gli stati d'animo, che mutano di istante in istante: il mio viso ne porta tutti i segni, come una nuvola. E se è pur vero che anche io ho un'insegna, un nome con cui gli altri mi chiamano (ma quasi mai io chiamo me stesso), esso non si trova scritto come un tatuaggio da nessuna parte del mio corpo e la gran parte delle persone che mi passano accanto ne ignora completamente l'esistenza.