Valerio
Damini
Valerio quando parla sembra che parli a se
stesso. Una volta ci aveva provato: ma lo specchio non gli bastava. Deve
avere una persona, davanti, per potersi specchiare. A volte, sembra
proprio che non ci riesca ad essere naturale. Lui odia farsi fotografare.
Ha una ferita, sull’occhio sinistro. E’
una di quelle ferite che non si vedono, se non allo specchio. |
FERMATE
Massimo sarebbe arrivato in ritardo, Valeria lo
sapeva.
Era riuscito a prendere il treno solo alle sette. Bologna di mattina gli era
sempre piaciuta: la poca gente che girava per i portici lo faceva piano, in
silenzio, per non incrinare quella calma asciutta e spettrale. Era come se
stesse facendo una passeggiata il papa: intorno, tu non dovevi comunque
esserci, sarebbe stata una presenza inopportuna.
Alle otto e mezza stava già in stazione a Padova.
Ricordò le istruzioni: fuori della stazione, la
linea blu per Sottomarina. La fermata stava a sinistra, rispetto a quella
delle linee cittadine, un po' defilata.
"Chiedi all'autista, per la fermata, ti raccomando" aveva detto
Valeria al telefono.
"Piove di Sacco, per l'ospedale" aveva precisato.
Massimo stava pensando a che portare per il viaggio: un libro, della musica
da ascoltare.
"Ci mette mezz'oretta" lo aveva rassicurato lei. C'era già andata
più volte, per le visite e tutto il resto. Lui l'aveva accompagnata in una
sola occasione.
L'autobus tardò, giusto il tempo di lasciare Massimo nelle sue indecisioni.
Prima o poi avrebbe dovuto cominciare a studiare per l'esame di filosofia
morale: allargò le gambe e le distese lungo il marciapiede, cercò di
tenersi in tensione, poi inclinò la testa da un lato ed inspirò forte.
Trattenne il respiro. Qualcosa era rimasto in sospeso. L'autobus era
arrivato. Cacciò fuori dai polmoni l'aria vecchia, si alzò e prese il suo
posto a sedere.
Il viaggio fu piacevole. Fuori le finestre, ottobre stava per finire. Il
mattino odorava ancora di calma. Il cielo era terso; non c'era freddo.
Rovistò un attimo fra le cose nello zaino, finche non sentì in mano la
forma circolare del lettore cd. Aveva il viso piegato da un lato, appoggiato
sul guanciale del sedile davanti: contava le macchine che riuscivano a
passare l'autobus in quella strada stretta. Aspettò un poco, poi rimise
tutto a posto. Tirò su il busto in posizione eretta, e si mise in ascolto,
sicuro di sé.
Gli occhi cadevano, ogni tanto, pesanti: ma non aveva sonno, ed in più
notava che c'erano più automobilisti bravi di quanto pensasse.
Tutto era teso e rilassato, lì intorno.
L'autista aveva chiamato la sua fermata. Era stato
gentile, a ricordarsi della richiesta di Massimo. Lui ringraziò, e scese.
Si abbottonò la giacca, e seguì le indicazioni per l'ospedale: sempre
dritto.
L'entrata era un po' defilata, a Massimo sembrò l'avessero spostata,
rispetto a prima.
Quando fu sotto quel modesto edificio bianco, squillò il telefono: era
Valeria.
"Non è che venendo mi piglieresti una scatola di assorbenti?"
chiese "mi avevano consigliato di portarli, ma me li sono
scordati".
"Sono già venuto" pensò lui.
"Nessun problema" rispose "a che piano sei?"
"Quinto"
Lui cercò invano una battuta. Si rese conto che bastava stare zitto, senza
doverne rendere conto a qualcuno.
Accennò al bel tempo, ed alla lieve brezza che si era alzata: le disse che
stava bene, e questa piccola forma di cortesia gli sembrò fosse un semplice
dovere, nei suoi confronti.
Mentre parlava si teneva alzato il bavero della giacca con la sinistra: si
accorse che l'ultimo bottone era rotto.
"Comunque grazie" disse Valeria, prima di terminare la chiamata.
Massimo tornò indietro sui suoi passi. Trovò un bar, prima della farmacia.
Si fermò a fare colazione: non ci aveva neanche pensato, prima. Ora aveva
lo stomaco lucido, almeno.
Davanti la farmacia, guardò bene dentro se ci fosse qualcuno.
Dentro, si diresse deciso al banco. Chiese:
"Avete una scatola di assorbenti?"
Rimase in attesa. Aveva detto ciò che doveva dire. Le sue dita cominciarono
a muoversi nervose: la risposta non arrivava.
L'infermiera si mise a cercare fra vari scaffali. Pose sul banco quelle che
Massimo stimò essere sette scatole: avevano tutte un colore diverso, e
diverse dimensioni. L'infermiera le aveva allineate in ordine, una in fianco
all'altra. Aveva alzato lo sguardo, e con un placido sorriso, gli aveva
fatto capire che doveva scegliere: ma se voleva, ce n'erano delle altre.
Massimo lasciò cadere sconsolato il capo da un lato. Guardò la signora che
era appena entrata: aveva una borsa della spesa fatta a mano, tutta
ricamata. Aveva l'aria di un'anziana benestante, poetessa di un tempo
passato che doveva ancora arrivare.
"Prenda quelli, si fidi" disse, indicando la scatola al centro
"sa, io me ne intendo oramai di certe cose". Certe quali?
Aveva uno sguardo strano, come si stesse sempre riferendo a qualcun'altro:
c'era da crederle.
Massimo prese quella scatola. Pagò, aspettò che gli si facesse lo
scontrino, ed uscì.
Si sentiva al sicuro.
Al quinto piano l'aria era diversa. Il reparto
pediatria stava di fianco a quello della maternità. Là ci stavano padri
tutti eccitati che lasciavano pensierini sul librone messo apposta lì
all'entrata. Dicevano tutti cose belle sui loro figli appena nati, e poi
mettevano la loro firma. Qui dove doveva andare Massimo invece ci stavano
tanti bimbi già cresciuti: vociavano, ma senza disturbare. Alcuni erano i
fratellini di quelli appena nati di là. Andavano e venivano da una sala
dove c'era un televisore che trasmetteva cartoni animati. Altri giocavano a
rincorrersi, oppure a nascondino. Massimo anche lui si nascondeva: ma era
troppo grande, e non ci riusciva.
Era facile trovarlo.
Arrivato alla camera dove stava Valeria, la vide nel
letto che ancora riposava. Si fermò a guardarla.
Vicino a lei, nell'altro letto, c'era un'altra ragazza, di colore. Ma non si
vedeva, tutta rannicchiata sotto la coperta.
Si sedette sulla sedia ai bordi del letto. Guardò fuori la finestra. Non si
era ancora tolto la giacca, per non fare rumore.
Lei dopo un po' di tempo aprì gli occhi, piano, tirando le labbra.
"Come va?" le chiese.
Lei non rispose. Non ce n'era bisogno.
"Tu?" fece di rimando lei, e posò gli occhi sul sacchetto.
"Ho appena fatto colazione" il tono fu di soddisfazione.
Massimo mise il sacchetto sul comodino. Valeria lo ispezionò: tirò fuori
lo scontrino.
"L'ho tenuto, nel caso tu volessi cambiarli" si difese.
Non era mai stato così premuroso.
"Non è il caso".
Entrò nella stanza un'infermiera. Prese giù i nomi
delle due ragazze. Massimo cercò di capire come si chiamasse quell'altra.
Guardò l'orologio.
"Dovrete aspettare un po', oggi: siete in tante" disse, fredda.
Scrisse due cose sulle loro cartelle. Non disse niente: fece un poco ordine
nel bagno, e sparì.
Bisogna essere efficienti, prima di tutto: e soprattutto, senza disturbare.
Massimo guardò di nuovo fuori della finestra il bel tempo.
"Mi spiace" disse "comunque oggi non avresti avuto nulla di
importante…".
Valeria scosse la testa.
"Tu, piuttosto, va a mangiare. Ti viene tardi".
Lui declinò, dolcemente: era già a posto con stamattina. E comunque,
avesse sentito i crampi per la fame certamente sarebbe corso giù a
prendersi un panino.
Cominciarono a parlare della settimana passata: erano curiosi di vedere come
i loro gesti quotidiani avevano reagito a ciò che era successo. Rilevarono
che niente era cambiato.
I discorsi si esaurivano in fretta.
Si accorsero di questo: che quando si è in ospedale, e si parla, nella
maggior parte dei casi la via è quella di un'essenzialità minimale che in
fondo dà il giusto peso alle cose, o perlomeno fa sentire una persona
calata bene nella situazione in cui si ritrova.
Non rimase loro che portare avanti quel giochetto in cui si deve trovare una
parola che inizi con le due lettere finali di quella precedente, e via di
seguito.
Era un modo innocuo per ingannare il tempo, senza per questo farlo incazzare.
Chissà, prima o poi sarebbe venuto fuori qualche cos'altro di interessante
di cui parlare.
Il pomeriggio scendeva lento sul paese. Massimo aveva
lasciato sole nella stanza le ragazze a riposare.
Si spinse fino al fondo del corridoio, dove c'era una finestra, che dava sul
retro dell'ospedale.
Guardò in basso, nella direzione del parcheggio: vide una signora che
aspettava. Camminava avanti e indietro, impaziente. Teneva le gambe
incrociate.
Sulla spalla portava una borsetta simile a quella della signora in farmacia,
al mattino: ma questa sembrava fatta male, osservata a distanza, tutta
sberciata ai lati. E poi, la signora del parcheggio era truccata
pesantemente.
Arrivò finalmente una bella macchina, che si fermò di fronte a lei.
Qualcuno aprì la portiera, lei fece due o tre passi e salì.
Ci fu una discussione, accesa.
La signora picchiò violentemente la borsetta sul cruscotto.
Massimo notò due righe blu scuro scolpirle le guance.
Piangeva.
Scese dalla macchina, sbattendo risentita la portiera. Prese a sgambettare
nella direzione opposta alla macchina. Un uomo elegante sbucò dalla parte
del guidatore: le rivolgeva ampi gesti, rassicuranti, le faceva segno di
tornare, di non fare la stupida.
Lei disobbedì, scosse la testa nervosa.
Poi si fermò, tornò indietro, pentita.
Ma la macchina aveva già ritrovato la strada: l'uomo aveva ingranato la
retro, ed era velocemente ripartito, in una diversa direzione rispetto
quella da cui era venuto, una direzione qualsiasi.
Lei incrociò le braccia, alzò gli occhi al cielo.
Affidò quel poco che le rimaneva della sua vita ad un cielo accogliente
come pochi.
Aveva perso un'occasione di svolta, come tante.
Quando portarono Valeria in sala operatoria, Massimo
passò il tempo a giocare con un bambino. Come tutti gli altri, gli
ricordava lui da piccolo: solo che era più bello e simpatico lui.
Il bambino, ovviamente.
Si nascondeva: era perché aveva paura di lui, diceva. Ma in realtà
sorrideva, ed ogni volta controllava che Massimo lo cercasse: ma cosi si
faceva scoprire facilmente. Allora Massimo stava al gioco, si sforzava di
fare facce buffe, per spaventarlo, e far sì che dopo lui girasse di nuovo
lo sguardo per vedere se lui fosse stato ancora lì ad attenderlo.
Ad un certo punto arrivò la nonna, che continuava a ripetere al bimbo che
non doveva avere paura.
"E' un papà anche lui, lo sai?" gli disse. Il bambino non capiva,
sembrava non dare molto credito a ciò che diceva sua nonna.
Gli si era avvicinato, stavolta, per vedere da sé se questa cosa fosse
vera: guardava Massimo con occhi sgranati. Lui lo sapeva, che non stavano
cosi, le cose: non odorava di papà, quel tizio magro e col naso a becco.
Il presunto papà non sapeva cosa fare. Stava immobile.
Gli chiese, la nonna, quando furono più vicini:
"E' maschio o femmina?".
"Veramente è un'interruzione di gravidanza" disse piano il
presunto padre.
Guardò il bambino, lo guardò a lungo, mentre si allontanava trascinato
dalla nonna in modo morbido e deciso.
Rimase immobile, Massimo. Non doveva spiegare niente, dopotutto. Sapeva che
quel gesto non era sbagliato: tutto si stava chiarendo come innocuo e
naturale.
Certo, avrebbe voluto sapere che cosa voleva dire sentirsi strappare un
pezzo di sé dal grembo.
Ma in fondo che cosa sarebbe cambiato?
Fissò i muri ingialliti: non avevano crepe, li avevano proprio
ritinteggiati di merda.
Ricordò il giorno dopo in cui lei fece il test, da sola: lui corse a
Padova, lei lo venne a prendere in stazione in bicicletta.
Rideva, isterica: piangeva.
Aveva dato la colpa al forte vento.
Il vento le scompigliava i capelli.
Tutto era andato per il meglio, sembrava.
Massimo voleva sapere tante cose: a lei, quelle cose non servivano più. Gli
stringeva la mano non troppo convinta.
Doveva solo prendere certe medicine, fare alcuni esami di controllo. Va
tutto bene, ripeteva, va tutto bene.
"E poi dai, è passata". E' passata.
Si, ma cosa?
Andando verso la fermata dell'autobus, si persero.
Era sera, non c'era buio.
Persero l'autobus che dovevano prendere: mangiarono qualcosa nel bar lì di
fronte.
Le cose da mangiare messe in esposizione erano un avvertimento. Comprarono
delle patatine, già confezionate: le mangiarono dentro solo per poter stare
seduti.
Non parlavano.
C'era una violenza di fondo, nei loro silenzi.
La consapevolezza di non voler essere li, insieme.
Abbiamo fatto la cosa giusta, si ripetevano in continuazione.
Ma tutti e due sapevano che non potevano fare di più.
Allora cercarono di penetrare il vuoto che c'era in quella fermata.
Controllarono gli orari: non c'erano piani da cambiare.
Valutarono le direzioni: da una parte si tornava, dall'altra pure, ma in
tempi diversi.
Erano certi di aver scelto la sponda giusta.
Videro l'autobus arrivare.
Era in anticipo. |