Fabio Todeschini

nato a Venezia il 16 Aprile 1978. Ho composto due raccolte di versi intitolate ?Versi Scelti? e ?Involuzioni?, un racconto intitolato ?Skin of the dead and the Dead City?(sulla collana Extreme - "Sexy Horror" di Club Ghost) ed un altro intitolato ?L?ago e il circolo?. Il mio indirizzo e-mail è morbuss@virgilio.it Un romanzo occulto dal titolo ?Le Lunghe Notti di Dite? è tuttora incompleto.

CHIKATILO, messaggero ingannato

Il dialogo procedeva basso e misterioso. La HARP irlandese è tutto sommato una birra assai leggera, ma dopo la quarta pinta la voce del professor Chikatilo era già parecchio impastata. Era nativo di Rostov, nel sud della Russia, ma aveva abitato nei luoghi più svariati: Crimea, Afghanistan, India ed Egitto tra gli altri.
Sfoggiava tuttavia un italiano praticamente perfetto, con una leggerissima traccia d'accento, intercalando inoltre, con mio grandissimo divertimento, vocaboli e addirittura proverbi in puro dialetto veneziano. Era un settantenne con il fisico e il vigore di un cinquantenne, un vigore che ai miei trent'anni faceva spesso difetto; ma non me ne stupivo troppo, considerando che gli ultimi cinque anni li avevo passati tra i vizi più sfrenati. Ci eravamo conosciuti in maniera del tutto anormale: nel '96, mentre mi trovavo nell' Appennino tosco - emiliano per una breve e noiosa vacanza, lo avevo incontrato in un faggeto mentre andava per funghi con il cesto di vimini, gli scarponi, e un buffo cappello da alpino. I miei quattro compagni di corso bighellonavano nel bar della locanda, bevendo vino e blaterando idiozie su una festa che si doveva tenere alla fine del semestre. Con la scusa di acquistare il giornale e le sigarette mi allontanai per un sentiero che conduceva alle colline e poi ai boschi.
Inginocchiato a terra, mi preparavo al mio personale autodafè quando lo vidi avanzare tra gli alberi. Ero in realtà sul punto di bruciare un gran mazzo di fogli manoscritti, un romanzo incompiuto il cui titolo pronunciavo ormai solo nei miei sogni più oscuri. Quell'atto per me significava molto. Volevo bruciare la mia vita passata e cominciarne una nuova, non per fare ammenda o rinnegare, ma per lasciare da parte quegli incredibili avvenimenti che avevo narrato e mai concluso. E che non potevano essere conclusi, perché i loro protagonisti erano ormai dispersi e dimenticati.
Intendevo ignorarlo, ma lui mi rivolse la parola.
-Sta commettendo una sciocchezza, giovanotto. Ogni cosa scritta al mondo merita di esistere e di essere letta.-
Per un istante fui tentato di estrarre il mio serramanico dalla tasca dei calzoni e di avventarmi sullo sconosciuto, sgozzandolo come un maiale e lasciandolo poi lì, nel bosco. Nessuno mi avrebbe mai scoperto. Tra l'altro era un'idea che mi bazzicava per la testa da parecchi anni. Ma fu questione di pochi istanti. La mia rabbia non scomparve del tutto, ma si affievolì di molto.
-Questi non sono affari suoi. Ci conosciamo forse? Chi è lei per venire a dirmi quello che dovrei o non dovrei fare?-
Lo guardai fisso negli occhi, attraverso gli occhiali dalla montatura dorata. Poteva essere mio padre, anzi, mio nonno.
Avevo nel frattempo posato a terra l'accendino con cui intendevo estinguere la mia opera.
Mi sorrise rassicurante e benevolo, e io sentii svanire ogni residuo di alterigia.
-Oh io non sono nessuno di particolare. Mi chiamo Andrei Chikatilo, sono un professore. Non voglio irritarla assolutamente né tanto meno infastidirla. Però guardi qui, dentro il mio cesto. Ho fatto un buon raccolto, i boschi sono davvero generosi in questa stagione.-
E mi mostrò una ventina di porcini di ogni dimensione, adagiati nel cesto sopra ad alcune foglie di felce. L'odore era quanto mai invitante. Inizialmente ero così in collera che non avevo neanche notato il suo inconfondibile accento russo, quella particolare cadenza nel pronunciare i vocaboli.
-Desidero parlarle. Possiedo una piccola proprietà non lontano da qui. E' chiaro che una persona che brucia una parte di sé ha un problema… un problema che potrebbe magari essere risolto. Posso sapere il suo nome?-
Ero incuriosito. Ma la curiosità non mi fece dimenticare la prudenza. In un decimo di secondo avevo frugato la mente in cerca di un nome attendibile, soffermandomi su quello che davo ai controllori nei mezzi pubblici, quando mi facevano la multa per mancanza di biglietto:
Federico Tedeschi. E così risposi.

Quindici minuti dopo la porta in legno di una baita accogliente mi veniva aperta, un'abitazione rurale costruita con i muri di pietra lasciata a nudo, mentre il primo piano era rivestito esternamente in legno, così come il tetto.
Mi stupii dell'accoglienza riservatami, e ancor di più delle comodità presenti in quello che a prima vista pareva un semplice rifugio per cacciatori.
Ci sedemmo su due soffici poltrone in pelle, e Chikatilo mi porse una scatola da cui estrassi un sigaro che si rivelò davvero superbo. Stavo per ringraziarlo della sua ospitalità quando mi rivolse la parola.
-Che ne pensa allora del mio piccolo rifugio?-
- E' fantastico- risposi, - il posto che tutti desidererebbero per trovar quiete.- E lo pensavo davvero.
Guardava il soffitto con aria trasognata. -E' incredibile come tra queste colline si possa trovare la pace.-
-A dire il vero professor Chikatilo ero qui proprio con lo scopo di cercarla…-
Egli mi guardò sorridendo, come se lo sapesse benissimo.
-Infatti. Lei ora non ha pace, vero?-
- No. E dubito che potrò trovarla, se non faccio ciò che deve essere fatto.-
Si allungò sulla poltrona, tirando una lunga boccata che sprigionò un denso fumo grigio.
-Ho la ferma intenzione di trattenerla a cena, per farle assaggiare il frutto del mio raccolto preparato con scrupolo e sapienza culinaria mediterranea; in cambio però mi deve concedere due favori.-
Divertito dal suo modo di esprimersi gli chiesi di che favori si trattasse e comunque, nei limiti del ragionevole, ero pronto a fare qualunque cosa per ricompensarlo della sua generosità.
-Deve chiamarmi Andrei. - mi disse sorridendo.
-Oh, per questo non c'è nessun problema.- Ma mentivo, perché non ci riuscii mai.
Il suo volto divenne serio e assunse un'espressione che più tardi, alcuni anni dopo, arrivai a definire "saggia e psicopatica". Appoggiò il sigaro sul tavolino del salotto e si curvò lentamente verso di me.
-E deve farmi leggere ciò che intendeva bruciare.-
Lo guardai a lungo. Lessi una profondità interessante nei suoi occhi e sorrisi.
-Va bene. Sì certo, perché no?-

Alla fine il professore si stancò della birra. Ordinò una vodka, la studiò intensamente per qualche istante e poi la scolò. Non aveva ancora accennato al manoscritto. Si era limitato a diversi racconti personali su esperienze archeologiche in Asia e in medio- oriente, che risalivano come minimo a quarant' anni prima.
-Tu sai cos'è la gnosi?- mi chiese improvvisamente. Il suo tono sembrava ora completamente lucido, come se la vodka che aveva appena bevuto l'avesse fatto tornare sobrio da un momento all'altro.
- AGNOSCI HOC- pensai subito, poi l'immagine confusa scomparve dalla mia mente.
Esitai qualche secondo; il concetto non mi era affatto nuovo, ma preferivo ascoltare la spiegazione da lui, da quell'uomo che non vedevo da tre anni, che era scomparso con il mio manoscritto dopo quella cena (incredibilmente succulenta, in verità) nella sua baita, e che ora si riaffacciava sulla mia vita forse, pensai, per darmi la sua interpretazione delle mie avventure passate. Il fatto che fosse ritornato da chissà dove per trovarmi e per restituirmi l'opera incompiuta mi aveva fatto riacquistare fiducia in lui, una fiducia che sfociava ora nella quasi completa comprensione della sua grandezza intellettuale e della sua serietà.
Feci un cenno per invitarlo a parlare.
- E' ciò di cui narri la ricerca in queste pagine- disse, sventolandomi davanti al viso i fogli scribacchiati. - E' la conoscenza che viene raggiunta senza tramite umano, quindi senza nessuno che interceda per spiegarla e per farla comprendere, ma attraverso la rivelazione che proviene direttamente dalla divinità.- Annuii. Tutto ciò mi era più che chiaro.
-Ma qui il completamento dell'istruzione gnostica non avviene. C'è una rottura, una fase in cui il mezzo che fino a quel momento era stato disponibile viene a mancare. Quindi il tuo fine, la verità assoluta, ti è negato.-
Non sapevo se ero più sbalordito dalle sue incredibili intuizioni o dall'assoluta sicurezza con cui le aveva pronunciate. Trangugiai in fretta un sorso di birra.
-Ma come fa a credere con assoluta certezza agli avvenimenti narrati da una persona che quasi non conosce? Inoltre lei è un linguista e uno studioso di civiltà antiche… ero abbastanza fiero del mio romanzo, anche se poi lo volevo bruciare, ma come fa a prestare fede a testimonianze personali, non confutabili scientificamente?-
Chikatilo si appoggiò alla sedia e si aggiustò gli occhiali sul naso. Poi mi indicò.
-Se te lo dicessi saresti TU a non credermi.-
Ci fissammo per un tempo indefinibile; lui con un'espressione di sovrumana impenetrabilità, io con gli occhi socchiusi, un po' ondeggiante, ma in realtà tutto teso a carpire il segreto dell'anziano professore russo che avevo davanti, di cui una cosa almeno avevo capito: sapeva tanto. Troppo.
-Direi che dobbiamo discuterne in maniera più approfondita. Potrebbe venire a casa mia.-
Sorrisi in modo conciliante. -In fondo le devo una cena.-
Il professore abbassò lo sguardo, ma poi si mise in testa il basco e tentò di sorridere, un sorriso sforzato,finto. -Potrebbe anche rivelarsi una lunga questione- disse -durante la quale anch'io avrò bisogno di sapere qualcosa su di te, e precisamente questo: sei tu in grado di capirmi? Di arrivare a capire la mia natura?-
Mi accigliai immediatamente. -Ho conosciuto menti superiori alla natura umana. Credo di poter discutere con un professore.-
Poi più pacato, allargando le braccia: -Farò finta di essere tornato a scuola.-
-Bene allora- rispose lui alzandosi molto velocemente. I suoi movimenti erano nervosi e scattanti.
Io feci per avviarmi all'uscita, avevo già pagato, ma mi sentii battere la spalla.
-Dimentichi i tuoi fogli.-
Li afferrai in fretta e condussi Chikatilo all'uscita, senza mai guardarlo.

- All'inizio era semplicemente pura energia: immenso, sconfinato potere. Grande Luce e Grande Ombra…-
Avvicinai il bicchierino pieno a metà di liquido verde alla sua figura immobile.
-Coraggio, continui. Cosa c'è, non ha più sete?-
Nelle due ore che Chikatilo aveva passato a casa mia, avevo già avuto modo di scoprire parecchie cose. Ero convinto di avere ormai in pugno il vecchio, dai cui precedenti comportamenti avevo dedotto essere in contatto con entità sovrannaturali, ed intendevo servirmene, sfruttando tutto ciò che poteva rivelarmi.
A tale scopo avevo iniziato a somministragli un liquore alle erbe dal gusto abbastanza gradevole e apparentemente innocuo, che avevo distillato un mese prima. In realtà aveva come base Datura Stramonium mascherata con gli aromi dell'artemisia e della verbena; avevo poi disciolto nel preparato una decina di grammi di hascisc. Ora cercavo di rifilare a Chikatilo il quinto bicchiere.
Era quasi completamente ipnotizzato: statuario, lo sguardo perso nel vuoto ancestrale, a volte percorso da leggere convulsioni simili a corrente elettrica, egli non sembrava più il vecchio professore affabile che avevo conosciuto, ma si era trasformato in un libro arcano, roso dai secoli, di cui era complicato leggere le pagine.
Nella valigetta che si portava appresso avevo rinvenuto alcuni fogli di pergamena protetti da involucri di plastica trasparente, vergati in greco antico, raramente in un primitivo latino, soprattutto in egiziano, ipotizzavo, e in una lingua di cui non riconoscevo i caratteri, ma che supponevo trattarsi di aramaico. Cercavo di esaminarli, ma era quasi impossibile decifrare quelle lingue morte da migliaia di anni, quindi l'unica mia speranza era l'uomo (ma davvero lo era?) che sedeva alla mia tavola, e che avevo gettato in uno stato trasognato.

Durante il tragitto dal pub a casa si era degnato di darmi qualche spiegazione.
Nel 1945 a Nag- Hammadi , nell'Alto Egitto, a nord ovest di Luxor, un contadino aveva casualmente rinvenuto una giara contenente 12 codici rilegati in cuoio. Esaminandoli, gli studiosi si trovarono davanti a svariate opere in copto che si rivelarono vangeli gnostici, apocrifi di apostoli non menzionati dalle sacre scritture, e vere e proprie rielaborazioni di trattati esoterici antecedenti al cristianesimo. In seguito, il Vaticano si sarebbe rifiutato di dare credito a tali documenti dichiarandoli eretici, ma continuando a studiarli segretamente. Nel '55 i codici, dopo molti furti, contrattazioni e vendite, arrivarono al Museo del Cairo. Lì Chikatilo era in quell'anno studente universitario. Uno dei suoi insegnanti fu inviato ad esaminare uno dei codici, contenenti diverse versioni dell'Apocalisse, per poi istituire confronti con le scritture insieme ad una commissione di docenti dell' università. Il giovane Andrei era roso dalla voglia di accompagnarlo, ed essendo con lui in buoni rapporti, osò inoltrargli la richiesta. Ricevette un brusco diniego e l'irato consiglio di pensare piuttosto alla sua tesi. -Mi sentii come una iena… una iena a cui l'ultimo brandello di carogna della savana viene portato via da uno scaltro avvoltoio- mi diceva, camminando a gran passi.
Poi divenne vago. -Ma anch'io ho rinvenuto cose interessanti laggiù, al Cairo. Solo poche pagine, è vero, ma… interessanti.- Sogghignò. -I mercati sono vasti in quei luoghi, non si sa mai quello che si può trovare. Nessuno può trattare gli uomini come li tratto io.-
Non cercai di approfondire la questione, stavamo tra l'altro per arrivare.
D'un tratto, mentre infilavo la chiave nella serratura, mi capitò di pensare che non aveva detto:
trattare "CON" gli uomini. -Ma che importanza ha?- mi dissi - E' ben altro ciò che mi interessa.-

-Beva, professore. La farà uscire dalla condizione umana.-
Chikatilo alzò il bicchierino, un lunghissimo movimento che sembrava eterno, lo portò alle labbra e ingurgitò il liquore. Il suo capo ebbe un breve tremito, rapidissimo, accompagnato da un suono di ali d'insetto che vibrano. -Xabarax, abraxax SHI!!- La sua voce era cambiata radicalmente: un alto frinire metallico, tuttavia comprensibile. -La Potenza ha mitigato poi i suoi elementi, e ha posto un ordine. Le sue appendici più esterne si sono separate, rimanendo legate con un filo inscindibile di energia ad essa. Hanno agito per Lei, sotto suo comando, nell'innalzare acque, terre e creature verso il cielo, un cielo oltre il quale si estende un immane spazio di vuoto famelico e mostruoso.-
Mi trovavo letteralmente con la bava alla bocca, ero affamato di rivelazioni. Mentre il professore faceva una pausa, perdendo un filo di bava dalla bocca, mi alzai e accesi un candelabro che andai a sistemare sul tavolo dove eravamo seduti. Poi spensi l'interruttore. Alla luce delle candele tutto si trasformò: la figura di Chikatilo era ora un' alta creatura d'ombra, solcata da venature grigio - argento che la rendevano ancestrale, un idolo dei tempi remoti che ancora camminava sulla terra degli uomini.
L'aria in cucina si era fatta pesante ed avevo il respiro affannato, anche se la temperatura passava incredibilmente da ventate di caldo secco al freddo più glaciale. Guardando in alto, verso l'oscurità che le candele non riuscivano a rischiarare, mi parve di vedere delinearsi l'immagine di una lontana galassia, un agglomerato di stelle che brillavano di fredda luce e pianeti dal moto lentissimo, oltre il quale il margine della percezione era incalcolabile. Nello spazio che vedevo sopra l'entità oscura e immobile prese forma un canto quasi impercettibile, una strana litania dai toni striduli e vibranti, semplice ma disarmonica. Ai miei occhi dalle pupille dilatate apparvero sottili onde sonore, che unendosi in cerchio intorno alla galassia iniziarono a roteare, mandando gli acuti verso l'esterno con un' intermittenza priva di continuità.
Un vortice di luce e suono perforato dall'infinito sorgeva sopra il mio interlocutore.
Sebbene completamente allibito, trovai la forza di distogliere lo sguardo, indirizzandolo prima verso il candelabro e poi verso la creatura d'ombra. La pallida luce sovrastante iniziò lentamente a scemare, mentre mi detergevo il sudore dalla fronte in preda a un tipo di timore che mai avevo conosciuto. Respirai a fondo, cercando di calmarmi.
Tra tutti i fogli che avevo davanti e che continuavo nervosamente a maneggiare, uno in particolare aveva attirato la mia attenzione; forse perché era in latino, anche se non riuscivo a leggerlo, o forse perché prima del testo era raffigurata in modo molto primitivo (mi ricordò l'arte africana che anche ora influenza numerosi pittori e scultori) una scena terrificante nella sua semplicità. Una creatura scura, alta e massiccia, con una criniera lunga fino ai piedi e nera, composta da vermi, o altre creature simili, teneva saldamente per il collo un uomo vestito di stracci, minuscolo a confronto, mentre gli azzannava ferocemente il cranio.
Mi rivolsi alla figura oscura seduta.
-Voglio che mi traduci questo foglio.-
Nella penombra, gli occhi della creatura scintillavano di un fuoco minaccioso, inumano e folle. Avvicinai lentamente la pergamena, facendola scivolare sul tavolo. Provavo improvvisamente
un'inquietudine crescente, come se essere vicino a questa entità potesse risultare pericoloso per la mia salute fisica e mentale.
Una voce cavernosa e terrificante proruppe dal mostro che lentamente si delineava là dove il professor Chikatilo era seduto. Le tenebre nella stanza sembravano dargli forma e contorni, come se si unissero letteralmente alla carne umana, deformandola e ricreandola con un'altra consistenza, una consistenza di puro buio e potere.
-"Ascoltate ora le parole di colui che è venuto ad avvertirvi del pericolo.
Il profeta che non possiede carne terrestre è morto sul legno della tribolazione.
Io ho sollevato il velo di cristo.
Io ho scorto i suoi tentacoli.
Essi fanno implodere la materia.
Essi curvano lo spazio.
Essi animano il vuoto.
Il Dio della caccia è stato cacciato
Ma il Dio del Fuoco non può essere bruciato.
Io sono il messaggero.
Io sono l'incaricato.
Io sono l'ingannato.
L'uomo perdoni il mio errore.
La carne che mi ha nutrito era carne d'uomo."-
Il mostro tacque. Non si sentiva nella stanza che il leggero crepitare delle candele.
Evidentemente questa era la traduzione che avevo richiesto. Mi rivolsi ancora a lui, domandandogli in cosa avesse esattamente sbagliato. Fui alquanto stupito udendo la risposta pronunciata con la voce di Chikatilo, la voce roca dell'anziano professore.
-Io sono stato mandato dalla Potenza, come l'unica Furia capace di distruggere l'eone extraterrestre divorandolo. Si credeva infatti che egli avrebbe finto di morire, fuggendo in realtà nel deserto del Negev dove io lo raggiunsi squarciando le dune con la Fiamma Nera latente nella mia quintessenza. Egli non fece nemmeno in tempo a comprendere cosa lo stava colpendo; afferratolo alla gola gli squarciai il cranio con le zanne, mangiando in due bocconi il suo cervello.
Tornato nel cuore del Fuoco Profondo, appresi la verità: LUI aveva previsto la nostra mossa, ed elaborato nell'immensa malvagità della sua mente un piano subdolo: inviò nel deserto un suo discepolo umano come esca; e morendo martirizzato, si aprì la via verso la dominazione degli uomini.-
-Una cosa del genere può davvero rovinarti la serata- dissi con tono falsamente indifferente e leggero, cercando in realtà di nascondere il subbuglio totale che mi squassava all'interno. Il cuore martellava dolorosamente contro la cassa toracica, avevo la bocca secca e una continua fitta di dolore nel centro della fronte. Sudavo e tremavo mentre la mia mente faticava a codificare il marasma di pensieri che si accavallavano.
Quanto distante ero sempre stato dal comprendere la verità! Quanto sciocchi ed inutili mi sembravano ora tutti i tentativi di apprendere le scienze esoteriche, di studiare l'occulto, di sperimentare rituali ed operazioni magiche! Ecco qui davanti a me una creatura fatta di oscurità ed energia, un essere che è nato subito dopo la creazione di questo pianeta, quindi che ha almeno cinque miliardi di anni, e che con la più limpida chiarezza mi rivela il mistero della creazione e la natura stessa delle entità a cui mi appellavo o che cercavo di combattere, facendomi intendere come, pur con tutto il suo potere, fosse stato ingannato nel modo più infame e disonorevole.
Mi sentii pervaso da un'abissale tristezza, stavo per mettermi a singhiozzare come un bambino.
-Va bene- dissi, cercando di darmi un contegno. Poi andai ad accendere la luce. Nel momento in cui la luce elettrica invase la stanza, Andrei Chikatilo ricomparve seduto sulla sedia, con la testa china e gli occhi chiusi. Pareva sul punto di addormentarsi, e non me ne stupivo, perché evidentemente la sonnolenza data dalla datura poteva avere degli effetti sull'involucro umano che stava utilizzando.
Spensi il candelabro e andai a porgli gentilmente una mano sulla spalla.
-Grazie- gli sussurrai, mentre gli occhi mi si inumidivano. E ancora: -Grazie.-
Con una certa fatica riuscii a trascinarlo fino al letto, dove piombò immediatamente in un sonno profondo, come profonda era la sua natura.

Tornai al tavolo, dove rimisi tutte le pergamene nei loro astucci di plastica e successivamente nella valigetta, che sistemai sul comodino accanto al letto, dove ora il professore russava.
-Un russo che russa,- pensai come un idiota. Ritornato in cucina bevvi parecchi bicchieri d'acqua e mi bagnai le tempie e la fronte, dopodiché iniziai a sentirmi meglio. Non potevo fare a meno di pensare: perché una Furia, un essere creato dalla stessa Potenza Primordiale aveva assunto l'aspetto di un vegliardo professore russo, un linguista che aveva rinvenuto in un mercato del Cairo una pergamena latina che narrava la storia di sé stesso?
Ero stanchissimo, e le domande che mi ponevo non sembravano avere poi tanta importanza. In fondo avevo saputo abbastanza, diciamo quanto basta a riempire la vita di un uomo.
Certo. Ma dopo? Forse non avevo saputo poi così tante cose. Immaginavo il mio corpo che si disfaceva lentamente, marcendo e diventando poltiglia, perdendosi nei meandri della terra stessa, fluendo come un liquame di energia verso il suo centro, per diventare infine parte della Potenza, parte dell'immortalità…
La testa mi scoppiava.
Mi svestii, e gettandomi a letto mi sentii subito sollevato.
E prima d'addormentarmi, sorrisi a lungo nel buio.

Il giorno dopo, come in effetti mi aspettavo, non c'era più alcuna traccia di Chikatilo. Si era volatilizzato, e con lui i suoi documenti antichi.
Inizialmente provai un vago senso di irrequietezza, come se essere parte del segreto che mi aveva confidato potesse procurarmi dei problemi. Ma svanì presto, sostituito dalla consapevolezza dell'immensa fortuna che mi trovavo a possedere. E mentre facevo colazione, la mano che portava la tazza di caffè alla bocca si bloccò improvvisamente, perché un pensiero si era fatto strada in me, un pensiero proveniente dall'esterno, un pensiero potente, in una parola: un messaggio.
-"Ora sai come concludere".-
-Lo farò- pensai, -lo farò affinché chi ne è degno possa conoscere la Verità.-

-Ovunque tu sia, Messaggero, che la Potenza ti protegga. E possa Essa concederti un'altra occasione.-

In quei miti pomeriggi d'autunno ero solito percorrere il litorale sabbioso, guardando l'orizzonte del mare Adriatico, fermandomi a sedere tra gli arbusti spinosi, passeggiando lungo la diga che separa la laguna dal mare. Facevo filtrare la sabbia tra le dita, raccoglievo conchiglie, erbe, sassi.
Ogni odore mi inebriava, ogni colore mi stupiva, ogni passo mi portava verso la Bellezza.
Ma di notte, mentre guardavo il cielo nero e le stelle che esso racchiudeva, scrivendo gli ultimi capitoli della mia storia, non potevo fare a meno di vedere il nostro pianeta come un vaso di Pandora al contrario, non potevo fare a meno di descrivere ciò che dovrebbe essere conosciuto, le zone di vuoto e pura malvagità più esterne dello spazio, popolate da divinità parassitarie, creature aliene che possono assumere la forma di qualsiasi essere vivente… Scrivevo della dura lotta che la Potenza insita nel pianeta, Madre di esso e degli uomini, aveva dovuto ingaggiare per combattere i malvagi eoni extraterrestri che, uno dopo l'altro, cercavano di conquistare, di rubare, di sfruttare. Perché senz'altro l'uomo è una preda allettante ed un utile schiavo. E l'ultimo eone fu troppo potente, troppo astuto, troppo malvagio; e vinse, ingannando, ma vinse.
Chiamiamolo pure Cristo, chiamiamolo Maometto… Chiamiamo pure la Potenza Profonda, tutto ciò che ora è stato costretto a ritirarsi verso il centro della Terra, Satana o Lucifero, Leviathan, Beelzebub, Mefistofele o Cernunnos… Ciò che conta è che questo Potere è ancora latente, una brace di energia che non può spegnersi perché si autoalimenta; che l'uomo ancora gli appartiene così come questo mondo in cui camminiamo e che lentamente, spinti da innaturali e vergognose motivazioni, distruggiamo; e che quando fisso un granello di sabbia, io ormai comprendo la bellezza, la grandiosità e l'immensità di ciò che a buon titolo posso definire Il Creato.

 

L'ago e il circolo

1-L'errore
Quanti travagli hanno dovuto sopportare queste misere spoglie che trascino per il mondo!
Ma da quanto tempo ciò accade?
Gli ematomi spiccano dalle mie carni martoriate come aurore boreali, il mio corpo puzza di strada, di terrore e di vita. Troppa vita. Ma sono libero, anche se sofferente.
Quanti anni sono passati da quando uscisti dal circolo? Impossibile ricordarlo. Ciò che ricordo, vagamente, è solo il fuoco, il fuoco del circolo che da rosso e arancione diventava nero e luccicante.
Ed io che improvvisamente mi rendevo conto che soltanto ciò che stava fuori da quella circonferenza era reale. L'adunco e grinzoso dito del vecchio che mi indicava, ritto in una lurida tunica bianca, a chi mai apparteneva? A Marco Aurelio? A Martin Luther King? A Tommaso d'Aquino o ad Adolf Hitler? A Picasso, a Fellini o a Pitagora? Non lo so. Vorrei saperlo, vorrei saperlo con tutto il mio (?) spirito ma non lo so. Mai saprò quale genere di dannazione ho evocato per me quella notte, o quel giorno, quel mattino… E' da secoli, forse da millenni che la frusta spietata di un'entità druidica o atlantica, demoniaca o aborigena mi spinge dalle Alpi innevate agli assetati deserti dell' Africa settentrionale, e dalle steppe asiatiche alle più selvagge isole tropicali. Chi si ricorda il mio nome è la pipa messicana con cui un giorno, sotto uno zenit infuocato, ho fumato perfino la terra bollente del pianeta. Purtroppo non parla; ricorda ma non può parlare. Ah tutto quello che è passato sulla mia pelle infame! Mi sono lavato con ciottoli romani e con sabbie meridionali, ho grattato il mio sporco con taglienti coralli caraibici, bevuto l'acqua di lagune pacifiche e remote… Intere legioni di unti divini hanno intagliato simboli astrologici sulle piante dei miei piedi sanguinanti, ho mangiato alghe sospinto dalla marea, leccato la resina pungente dalle piaghe di alberi ad alta quota…
Se solo potessi ricordare! Dentro il cerchio ho sentito mutare le mie cellule, agitate da moti soprannaturali, incomprensibili. E tutto divenne finzione, all'interno. Io venivo indicato, perciò io venivo evocato. Ero forse io la visione scaturita dal potere di una mente obnubilata da fumi tossici?

2-Venenum transit
Non riconosco questo posto. Forse sono tornato ancora in Italia, a giudicare dall'architettura delle abitazioni e dai mormorii concitati tutt'attorno ciò che sembra essere una piazza. Non lo chiedo all'orrido e impassibile albanese che ho davanti, il quale regge con le dita della destra una bustina e con la sinistra mi batte continuamente la spalla incitandomi. Vuole denaro. Frugo in una tasca a caso e gli porgo una banconota; non guardo il suo valore, so che non ne capirei il significato. Prendo la bustina ed indico il mio braccio. Lui mi accompagna in un vicolo e si siede su una cassa, poi prende una siringa dalla tasca del giaccone. Io gli do la bustina e lui inizia a preparare la droga. Non so che tipo di droga sia. Quasi certamente eroina, forse cocaina. Non mi interessa se la siringa è usata: mi inietterei anche la mia stessa urina, oppure cemento. Tendo il braccio e lui infila l'ago, immettendo nel mio corpo quella che mi sembra una notevole quantità di liquido, poi mi mette in tasca la bustina che ho acquistato. Vedendo il mio sguardo privo di vita e la mia immobilità cambia idea, riprende la droga ed esce dal vicolo, lasciandomi lì in piedi. Tutto diventa nero e viscido, vampate di calore doloroso e piacevole mi prendono alternativamente gli arti superiori e inferiori. Sono a terra, i muscoli contratti. Vomito qualcosa di nero e puzzolente come escrementi. Forse mi sono rivoltato e ho il culo al posto della bocca. Ma sto anche defecando, la distinzione è difficile. Con un rimasuglio di volontà tento di aprire gli occhi. Impossibile. Tutto è nero, nero, nero, nero come la morte più nera. Spento e nero. E infatti sono morto.

3-Ricordo fallito
Strana gioia, quella di aprire gli occhi alla luce. L'avevo già provata?
Un attimo dopo comprendo che non è affatto una luce abbagliante, bensì il lume di una candela, che insieme ad altre rischiara un vasto ambiente, spoglio e privo di qualsiasi arredo a parte i candelabri.
Una penombra tiepida e quasi accogliente mi circonda. Sono pulito e mi sento reduce da un placido sonno ristoratore. Ritto così in piedi, con i capelli perfino pettinati, mi sento perfetto.
Ma…
CHI - SONO - IO ?
Un coro di voci baritonali rimbomba improvvisamente tra le pareti immerse nella semioscurità. Tutte le fiammelle tremolano per un brusco spostamento d'aria.
-Noi, i tuoi sacerdoti, noi i tuoi figli, - dicono le voci - imploriamo la tua nera fiamma. Oltre gli spazi esterni risuona il tuo urlo, oltre l'oscurità spazia la tua maestà. Fa che le nostre menti siano invase dalla più pura tenebra. Fa che i nostri neri cuori si uniscano con la tua caotica e maestosa essenza...- Mi passo una mano sul viso e mi massaggio le palpebre; gli occhi mi bruciano come se li avessi tenuti troppo aperti. E forse è la verità. C'era qualcosa di familiare, di molto familiare in quel coro di voci. Come se una di esse fosse quella di una persona conosciuta in passato. Ma quale, quale passato? C'è stato un passato? Tento di usare la voce per esprimere questi pensieri, ma non riesco a farli coincidere con le parole. Sono muto? Non credo di esserlo mai stato.
Mi tiro uno schiaffo. Due. Tre. Quattro. Sento il dolore alle guance, perché ho usato molta forza. Ma per il resto: niente di niente. La mia testa è un contenitore vuoto, ed ora anche dolente. Le tempie. Ah le tempie.
I miei pensieri sono semplici, elementari, espressi con pochi concetti. Non soltanto analisi delle sensazioni fisiche ed emotive; a tratti è come se il mio vuoto mentale venga guidato da fuori, con sporadiche impressioni di immagini e sollecitazioni di impulsi corporei.
Provo allora a piroettare su me stesso, facendo perno su un piede. Ad ogni giro mi fermo e il dolore al capo aumenta; una catena rovente circonda la mia scatola cranica, da dentro.
Chiudo gli occhi e faccio un altro giro. Appena li riapro cessa il dolore. Sto benissimo, così, di colpo. E davanti a me vedo qualcosa.
Due ragazzi sono seduti a terra, a gambe incrociate. Qualcosa sporge dal pavimento, in mezzo ai due. Una lunga punta metallica, annerita. Uno spiedo. E infatti i due ragazzi stanno strappando e portando alla bocca brandelli di arrosto. Mi sforzo di riconoscere la forma che vedo infilzata sullo spiedo. Nel frattempo un aroma delizioso si è sparso intorno a noi. Un aroma incredibilmente succulento. Poi la bocca mi si spalanca da sola.
L'arrosto è un bambino piccolo, anzi un neonato. Lo spiedo gli entra dalla bocca e la testa è reclinata all'indietro, per farlo passare attraverso il corpo ed uscire dall'ano, tra le gambe corte e gocciolanti grasso sciolto, rivolte verso l'alto e rimaste piegate dalla cottura.
Sento gli occhi che si rivoltano all'interno della testa, lentamente ma inesorabilmente.
I due mi guardano ora. Hanno facce giovani e bestiali. Uno di loro ha staccato il piccolo pene tra gambe del bambino e masticandolo mi sorride con lascivia.
-Io…io ti… conosco..?- riesco ad articolare.
La voce è roca, la gola è dolorante. La vista mi si oscura e cado privo di sensi. Se mai ne ho posseduto alcuno.

4- Postulatio mortis
Devo essere stato anche un assassino a pagamento, un sicario, o qualcosa del genere. Comunque devo aver fatto un qualche lavoro connesso con la morte. Altrimenti non si spiegherebbe la facilità con cui ho strangolato questa negretta sedicenne dal volto grazioso e dal corpo morbido, che ora vedo sdraiata sul grande letto a baldacchino.
I teneri occhi da cerbiatta con cui mi guardava, passando delicatamente e con perizia la lingua sul mio glande, ora sono sbarrati e privi di coscienza, grigi nella loro fine. Le cosce ben tornite e lisce che poco fa accarezzavo sono spalancate in una versione pornografica della morte. I capelli neri e profumati, i suoi boccoli seducenti, altro non sembrano ora che un'orrenda nidiata di serpenti sporchi di fango e morti.
I merletti rossi che ornano il letto a baldacchino, le luci soffuse… Gli aromi speziati che provengono dalla finestra aperta, questi profumi intensi di cui sembra essere intriso ogni oggetto ed ogni essere… Il caldo stesso… Dove sono? Noto con piacere che ho smesso di farmi l'altra domanda, quella insondabile.
Chiedo invece alla morta: - Ci siamo già conoscuti, vero?-
Mi sovviene anche il suo nome: Maryrose. Me lo ha detto prima, al bar che c'è al piano terra, quando è venuta a sedersi al mio tavolo, mentre sorseggiavo un drink con lo sguardo perso nel vuoto. Mi chino lentamente verso il suo volto. Abbassandomi su di lei vedo i segni violacei sul suo collo. Sono state le mie dita a provocarli, ma ne ho solo un ricordo confuso, poche immagini che sbiadiscono velocemente. Nei suoi occhi ancora umidi si riflette, nero e distante, il mio volto impassibile, vacuo. Ma poi guardando più attentamente, metto a fuoco un'altra immagine. Sempre il mio volto, ma deformato da una sorta di furia bestiale che ne distorce i lineamenti. Bocca ritorta in un ghigno orribile, occhi depravati e allucinati. Guardo ancora, ma cambiando angolazione, e l'immagine rimane lì, minuscolo cameo nero di follia. L'immagine impressa di un assassino che non esiste e che forse non è mai esistito. Allora la bacio teneramente sulle labbra fredde, sussurrandole all'orecchio: - Ti ho già amata, ne sono certo, Maryrose…-
Dopo aver infilato gli stivali (stivali?!), scendo le scale per tornare al bar al piano terra.

-Devi avere una bella vocazione al suicidio amico mio, - sta dicendo l'uomo quasi calvo seduto alla mia destra- ma d'altra parte non sembri minimamente ubriaco. Non ho mai visto nessuno reggere l'alcol come te.-
-Vorrei che il cuore mi si schiantasse all'istante e che il fegato mi si liquefacesse per poi uscirmi dal culo- gli rispondo con voce assente, guardando fisso davanti a me. In effetti sono più o meno due ore che ingurgito bevande alcoliche di ogni genere, senza far caso ai commenti degli altri avventori e al continuo sguardo allucinato della ragazza di colore dietro il bancone.
Almeno due bottiglie di tequila, svariati boccali di whisky in uno dei quali ho versato l'intero contenuto della pepiera, tre bottiglie di un liquore alle erbe in cui ho versato tabasco, paprika e anche aceto di vino. Il bidone della spazzatura dietro al bancone poi, è pieno di decine di bottiglie di birra vuote.
Sono perfettamente normale. Certo, gli intrugli che trangugio senza sosta mi bruciano lo stomaco, ma il dolore è coperto da una sensazione di leggerezza, come se fossi sospeso nell'aria, o se avessi il cranio vuoto. Noto lo sguardo stranamente preoccupato della barista, ma non ne traggo alcuna emozione; né timore, né imbarazzo… niente.
Ho le tasche piene di banconote, l'ho notato scendendo dalla stanza di sopra. Non ho la minima idea di come e dove posso averle trovate.
-New Orleans mi ha davvero stancato, qui l'unica cosa buona sono le donne. Credo che me ne andrò a nord… - continua il chiaccherone seduto accanto a me, sorseggiando il suo brandy.
-I miei operai giù al porto non fanno che lamentarsi del salario, per la metà sono negri quei figli di cani e porca puttana sono sicuro che faranno di tutto per fregarmi. Erano proprio altri tempi quando te le potevi scegliere al mercato quelle bestie, mio nonno mi diceva sempre che era come quando…-
Io sto guardando la bottiglia che reggo in mano, desiderando che sia piena di un veleno micidiale che possa uccidermi rapidamente, magari tra convulsioni e spasmi violenti. Invece è piena per tre quarti di vodka. La scolo tutta bevendo a garganella, mentre l'altro, pur osservandomi impressionato, non ha interrotto il suo inutile monologo. Finito di bere, guardo la bottiglia socchiudendo gli occhi. Niente, niente, niente.
Allora lo fisso dritto negli occhi. Lui vede nei miei una lucidità immane e qualcosa di tanto mostruoso da non riuscire a confessarselo. Tace, e mi guarda con un nuovo, autentico terrore.
-Non credo di essere mai stato razzista- gli dico; e dopo un istante di riflessione, gli sorrido.
E lui vede il mio sorriso, un sorriso eterno, fatto di infinito e di nulla, di tanti frammenti di vite diverse vissuti senza motivo, un'incomprensibile eternità. -No. Non credo proprio di esserlo mai stato.- Con uno scatto veloce e improvviso mi rompo la bottiglia vuota in faccia. Sanguino, i vetri mi hanno provocato larghi tagli sulle labbra, sulle palpebre, sul naso, sulla fronte. Molti frammenti di vetro sono rimasti conficcati nel mio volto.
-Dio onnipotente…- sussurra l'altro annichilito, forse più dal mio sorriso persistente che dalle deturpazioni che mi sono autoinflitto.
Con il collo della bottiglia inizio ad aprirmi la gola, spingendo a fondo a squarciando la carne verso il pomo d'adamo. Il sangue scende a fiotti sul mio torace ed esce a schizzi intermittenti, imbrattando il volto e le vesti del mancato mercante di schiavi davanti a me, che si piega su sé stesso vomitando. Il pezzo di vetro più grande, che mi ha reciso la carotide, si spezza e rimane conficcato dentro, mentre gli altri squarciano pelle, carne e vene in altri punti.
La vista mi si annebbia, il gelo della fine ha paralizzato le mie membra. Faccio in tempo a udire la ragazza che rompendo due boccali di birra strilla: -Chiamate qualcuno! Chiamate qualcuno, presto!-
Poi piombo a terra, rompendo i resti della bottiglia con una gola ridotta a tessuti divelti e sanguinanti, provocati dal mio atto pietoso.

5 - Ancestrale
Una mano pesante mi colpisce la guancia, e apro gli occhi febbricitanti su un uomo giovane e slanciato nella figura, dai tratti somatici medio-orientali. I suoi occhi severi mi fissano, scandagliando i recessi della mia anima.
-Non puoi addormentarti nel momento più importante della cerimonia, imbecille!-
Mi fa alzare e allora capisco di trovarmi in un bosco rigoglioso, insieme ad una ventina di persone, uomini, donne e bambini, tutti vestiti di tuniche bianche, composti e dall'espressione estatica.
Distesa a terra, davanti a un piccolo falò acceso con rami secchi e a un grezzo recipiente di pietra, c'è una donna, il cui ventre gonfio rivela una gravidanza abbastanza inoltrata.
-Forza avvicinati- dice intanto l'uomo che mi ha svegliato, tenendomi una mano sulla spalla.
-Sei tu che hai messo incinta Ezebhel, ed ora il frutto della conoscenza rivelatrice del Grande Padre Barbelo deve completare la Sapienza Cosmica, infondendosi nei Suoi fedelissimi, attraverso l'eucarestia del sangue e della carne.-
Stranamente, capisco. Anche il linguaggio del mio interlocutore non mi è estraneo, pur essendo una bizzarra e poco fluente mistura di latino, greco e un qualche antico dialetto turco o egiziano.
So perfettamente cosa devo fare sotto questa incredibile volta celeste, in cui migliaia di stelle infuocate illuminano una notte remota. La giovane donna, Ezebhel, è accudita da una ragazza che le sussurra una dolce e mistica cantilena all'orecchio, e a intervalli regolari le versa in gola un liquido verdastro, contenuto in una fiaschetta di pelle.
Mi avvicino alla donna e mi inginocchio davanti alle sue gambe divaricate, accanto a me il fuoco continua a bruciare, illuminando il rozzo e grosso mortaio scavato nella pietra. Una donna si separa dagli astanti, arriva al mortaio e sollevatasi la tunica, si accovaccia su di esso. Quando si alza nella cavità del mortaio si vede una consistente quantità di sangue scuro, mischiato ad alcuni grumi coagulati. Altre giovani donne seguono il suo esempio, rimanendo poi a farsi palpare i seni e i glutei dagli uomini, che si sono avvicinati a loro volta. Le loro tuniche sollevate sul ventre rivelano i membri eccitati, che in breve vengono accarezzati dalle mani delle donne ed induriti dalle loro lingue, prima di iniziare e penetrare vagine ed ani.
Due giovani eiaculano contemporaneamente nel recipiente di pietra, seguiti da altri, gridando: -Luce! Luce! Ti chiamiamo nel mondo non ancora redento, O Perfezione Incommensurabile!-
Intanto il maestro è alle mie spalle, e ha posto un manoscritto consunto sul mio capo. -Ecco, -proclama- io pongo sulla tua testa il vero libro di Giovanni, inizio della nascita dell'autentica fede, invitandoti, fratello, a compiere l'atto per cui sei stato chiamato. L'energia cosmica e vitale venga assorbita da questi eletti nella sua immacolata e santa purezza, affinchè la malvagità del mondo e del suo creatore possa essere per sempre sanata.-
Seguendo impulsi ben determinati ma forse non miei infilo prima le dita, poi l'intera mano nella vagina di Ezebhel, spingendo e sudando per lo sforzo. Le mie unghie graffiano l'interno del suo orifizio dilatato, mentre la mia mano risalendo l'utero trova ciò che deve afferrare: una materia scivolosa e calda, pulsante, che estraggo velocemente mentre la donna urlante è tenuta ferma da due confratelli. Il feto, parzialmente coperto dalla placenta gocciolante il liquido amniotico che ora ha nutrito la terra, è nella mia mano ferma, coperto di sangue come lo sono io fino all'avambraccio.
Allora lascio cadere il fardello mai nato nella brodaglia composta da mestruo e sperma, dove una donna versa da un'ampolla del miele d'acacia, che cola vischioso sopra il feto di Ezebhel. La stessa donna getta ora nel mortaio manciate di una polvere di spezie, pepe, cannella e noce moscata, attingendola da un astuccio di cuoio. Con diligenza io inizio a pestare gli ingredienti nel mortaio, servendomi di un pezzo di ramo la cui parte finale è grossa e acuminata.
In breve, a causa della tenerezza dei tessuti, diventa impossibile distinguere il feto dagli altri ingredienti. A questo punto volgo le braccia al cielo stellato gridando all'intera congrega seminuda: - Mangiate, fratelli! Nutritevi dell'essenza stessa della gnosi, la cui rivelazione unisce le due parti della Sapienza, generatrice di luce e divina intuizione!-
Allora tutti affondano le mani nella poltiglia, sorbendola dal palmo o masticandone le parti solide. Io stesso tuffo la faccia nel mortaio, ingoiando quanto riesco ad ingoiare, mentre un'energia corroborante invade le mie membra. Sorridendo con il volto coperto di sangue, noto l'ingordigia di Ezebhel mentre cerca di trovare nel contenitore pezzetti di carne o di placenta appartenuti al suo feto.
Ma ecco che improvvisamente, per quanto io sia convinto e compreso nel ruolo che questa volta mi è stato assegnato, il fuoco inizia lentamente a spegnersi, i celebranti svaniscono davanti a me, e un cerchio di luce compare sfavillando nel cielo di questa terra sconosciuta e primordiale, precipitando verso di me come un fulmine. Appena tocca il terreno, con me al centro, si trasforma con un boato immane in un cono di raggi roventi che mi scaglia in alto, aspirandomi, volente o nolente, verso il cielo più esterno, dove i guardiani del mondo regolano i flussi planetari e terrestri, dove l'etere stesso è rarefatto ma più puro, e dove il mio corpo è polverizzato eternamente nel cosmo.

6- Riunione
Quando ricevetti la telefonata, ero già pronto da almeno una settimana. In altre parole avevo recuperato una parvenza, anche se misera, di umanità.
Come sempre non sapevo in quale tempo mi trovavo, ma non me ne ero curato in quei giorni. Evitavo di entrare in contatto con altri esseri umani, leggermente rassicurato dalla consapevolezza che dovevo trovarmi più o meno nell'Italia del secondo dopoguerra.
Inoltre la mia totale assenza di identità era compensata dal ricordo degli stralci di vita già vissuti; e questo, in una situazione del genere, può essere di notevole conforto.
Era il dover pensare la vera condanna! Se solo avessi potuto ricordare il cerchio, ciò che è accaduto in esso , ma soprattutto tutto ciò che c'era prima. Prima che dannassi la mia anima costringendola a vagare per i tempi e per gli spazi, attraverso la stessa storia del pianeta Terra. La mia vera vita, il mio tempo. Il momento esatto in cui sono nato. Ma è ormai tardi per arrovellarsi il cervello in questo modo. -Prima o poi questa girandola si fermerà nel luogo e nel tempo dove il vento ha soffiato la prima volta,- pensavo speranzoso.
-Non dimentichi nessuno dei tre oggetti, mi raccomando- aveva detto quella voce solenne e leggermente beffarda al ricevitore, che sapevo appartenere a Nicola di Antiochia, il quale era convinto, con i suoi discepoli già condannati nell'Apocalisse, di aver conosciuto le profondità di Satana, e che si era coscienziosamente reincarnato, dopo la fine della sua esistenza terrena, in un'ancor più licenziosa trasfigurazione di sé stesso. Indubbiamente un uomo astuto. Certo più di me, che non sapevo né chi ero, né chi sarei stato dopo.
La notte precedente, in un sonno fatto di deliri e sofferenze, avevo visto il suo volto antico, la cui immagine emergeva enorme dall'acqua stellata dove galleggiavo, andando disperato alla deriva verso i sassosi lidi dello Stige, perdendomi nella visione dei bastioni di Dite, artigli dell'universale agonia.

-Hai passato tutte le tue inutili esistenze a far crescere i fagioli dalle teste dei morti ed ora credi di darmi a bere le tue frottole? Sei solo un fallito! Non funzionerà mai!!-
-Con quei fagioli almeno io ho carpito il segreto dell'invisibilità, e sono riuscito a rubare il Serpente Divino! Senza il mio aiuto avremmo dovuto farne a meno!-
-Sei un damerino mummificato puzzolente di naftalina, Howard! Se ti rimanesse un po' di cervello ci penserei io a fartelo uscire dagli occhi!-
Il diverbio stava degenerando. I pezzi grossi della Confraternita Atemporale per la Riedificazione della Sapienza avevano pensato che l'introduzione di uno scrittore, l'americano Lovecraft, e di un poeta, il suicida francese Gérard de Nerval, nella riunione, avrebbe mantenuto la discussione ad un livello sostenibile da tutti, ma stava accadendo l'esatto contrario. Purtroppo, come in vita erano stati dei folli, così lo erano anche nella morte.
La rosa, il serpente e l'occhio umano erano posati uno accanto all'altro al centro del lungo tavolo, mentre all'esterno del palazzo i tuoni cominciavano già a ruggire, facendo tremare le vetrate della sala. I tredici si erano riuniti nuovamente, alcuni provenienti dal passato ed altri dal futuro, e come di consueto, di molti non ricordavo i nomi.
Un uomo govane e riccamente abbigliato seduto accanto a me prese la parola, biascicando un'insensata affermazione con tono da ubriaco. -Ritengo doveroso mettervi al corrente, illustrissimi colleghi, dell'idea che da secoli cerco di mettere in pratica, ostacolato il più delle volte da atteggiamenti minacciosi e intolleranti.- Per un attimo nella sala calò un gradito silenzio.
-Dobbiamo semplicemente inserire l'occhio nella bocca del serpente, e poi trafiggerlo nel centro della pupilla con il gambo della rosa, in modo che combaci perfettamente…-
Una risata sguaiata, per metà divertita e per metà sprezzante, risuonò nella sala.
-E questo ti sembra un procedimento sensato?! Hai il cervello bacato, fuso da secoli e secoli di droga! E' meglio se ti rimetti a dormire, magari questa volta in eterno.-
In effetti, anche se continuavo a considerare Lovecraft un perdente, con i suoi esperimenti di magia quasi contadinesca, dovetti ammettere che la sua ultima frase era decisamente azzeccata: il marchese De Guaita aveva le palpebre socchiuse, un filo di bava gli usciva dalla bocca e mostrava un aspetto decisamente cadaverico. Come se ciò non bastasse, le scemenze che proferiva mi deprimevano pesantemente, facendomi desiderare per l'ennesima volta un mortale "change de role". Era palesemente zuppo di morfina.
Altri tuoni rimbombarono nella sala, i fulmini illuminavano senza sosta volti pallidi e seri, alcuni giovani e allucinati come il mio, la maggior parte vecchi e rugosi, dai nasi adunchi e dalle lunghe barbe sporgenti, deformati dal riflesso della pioggia battente sulle vetrate.
Decidemmo di non badargli, e infatti dopo pochi istanti il drogato crollò sul tavolo con la testa tra le braccia. -Uno di meno…- commentai, leggermente sollevato.
-Il Demone della Malvagità cavalca i terrori notturni,- scandì fastidiosamente un uomo giovane dai capelli lunghi e neri come il carbone, che portava la barba a pizzetto e baffetti sottili, continuando a giocherellare con il prezioso pugnale che avevo portato all'assemblea.
-Oystein, non usciamo dal seminato, ti prego! Dobbiamo raggiungere un accordo prima della mezzanotte, ricordalo.- Il mio tono di voce, da stanco che era, si trasformò in esausto.
Chissà -mi chiedevo- quante persone in questa sala conoscono il mio nome… e invariabilmente mi rispondevo: nessuno, povero imbecille, altrimenti glielo avresti chiesto…
-Tu preghi me, straniero?- quel norvegese sghignazzava sempre in maniera insopportabile.
-Davvero non è il caso,- mi fece notare, appoggiandosi allo schienale della sedia e scagliando un'atroce bestemmia.
Notai almeno due dei presenti farsi istintivamente il segno della croce. Uno dei due, Giovanni XII, il papa ucciso a soli 24 anni dal marito di una delle sue amanti, si rivolse direttamente a Nicola di Antiochia. -Noi cerchiamo il Potere e la Magna Scientia, e per ottenerli occorre combinare nel giusto modo le tre parti di cui è composta la spiritualità globale. Ecco, davanti a noi abbiamo il Serpente che conosce, la Rosa che ricorda e l'Occhio che vede. Come unirli?-
L'altro pareva perplesso, come tutti coloro che si interessavano all'argomento. Notai che non tutti i presenti partecipavano alla discussione esponendo le proprie idee. Infatti, seduto alla fine del lungo tavolo, un vegliardo di cui non ricordavo il nome palpava il prosperoso seno della contessa Erzbeth von Bathory, sostenuto dal ricchissimo corsetto della sanguinaria nobildonna; la quale, a sua volta, esplorava voluttuosamente con la lingua la bocca di una leggiadra ragazza bruna, proveniente con ogni probabilità da qualche remoto angolo degli anni oscuri.
Oystein Aarseth, il musicista norvegese chiamato anche Euronymous, continuava a manipolare il pugnale d'argento che avevo portato con me, la cui elsa dorata recava incise la testa e la coda del drago. Mi guardò sorridendo. -Ti hanno mai accoltellato in testa, straniero?-
Mi sentivo sull'orlo dello svenimento. Ero pallidissimo, assalito da una nausea continua.
Poi mi decisi. -Ecco gli altri due oggetti che mi è stato chiesto di portare,- dissi con un filo di voce, posando sul tavolo con mani tremanti una fiaschetta di metallo e una siringa.
-Le cose si complicano…- notò corrucciato Nerval, fissando i due oggetti.
Seguendo un impulso sconosciuto mi alzai in piedi, rovesciando la sedia. Davanti ai miei occhi vampate di fuochi iridescenti rendevano mostruosi i volti che mi circondavano, tuoni rabbiosi esplodevano nella mia testa, il sangue ribolliva come acido nelle mie vene sciogliendo la carne ed aprendo un passaggio di convulsioni viscerali che era il mio stesso corpo…
-Non ce la fa, l'ho sempre detto io…- osservò Lovecraft, rassegnato.
Balzai sul tavolo con energie che non sapevo di possedere e, afferrata la Rosa, alzai le braccia liberando un ruggito bestiale a cui migliaia di tuoni e saette risposero da ogni angolo del globo. Il Serpente, azzannato l'Occhio, risalì il mio corpo e lo pose sulla mia fronte ribollente, per poi attorcigliarsi intorno al mio collo.
Vidi i corpi fondersi, le carni unirsi lentamente in uno spaventoso moto circolare; le ossa scricchiolavano piegandosi verso la persona seduta accanto, per poi entrare in essa con rumori osceni e disgustosi di muscoli contorti e spasimanti… E ormai vedevo, vedevo veramente per la prima volta con L'Unico Occhio che può scrutare il Tutto: un cerchio di carne, un cerchio di morte e vita, il cerchio della mia esistenza al centro del quale mi scioglievo, squagliandomi come cera sul tavolo, mentre un'infinità di voci diverse sussurravano continuamente da ogni angolo dell'universo:
-Tu non sei mai morto, tu non sei mai morto, tu non sei mai morto…-

7-La Correzione
Non avevo mai visto casa mia così oscura. E' il tramonto, ma dalle finestre entra pochissima luce.
Lentamente provo ad alzarmi da terra. Ogni muscolo del mio corpo è dolorante, mentre mi metto a sedere al centro dell'ampio cerchio che è tracciato sul pavimento della mia stanza.
Sfioro con le dita la linea che delimita lo spazio in cui sono racchiuso, e noto che in corrispondenza di essa il pavimento è bruciato, anzi si direbbe fuso.
Accanto a me c'è un astuccio di pelle dal quale estraggo un pugnale scintillante, poi una siringa e infine una fiaschetta di metallo.
-Sono tornato, sono tornato, sono tornato…- inizio a mormorare, mentre un'incontrollabile gioia mi inumidisce gli occhi di pianto.
Davanti al circolo in cui mi trovo è tracciato con colore nero un triangolo, con la punta rivolta verso di me. E all'interno di esso è disteso un uomo. Un uomo vestito esattamente come me.
Allora raccolgo i tre strumenti e mi avvicino, uscendo dal circolo.
L'uomo ha i miei stessi vestiti; sì, perché ha anche il mio volto, la mia altezza, i miei capelli e i miei occhi. Sono io.
Mi chino su me stesso, versando lacrime sul mio volto rilassato nel sonno, e poso un delicato bacio sulla mia fronte serena. Poi, desiderando ardentemente ricordare chi siamo, chi sono, taglio la gola al mio alter ego addormentato, facendo balenare di una luce fredda l'argento del pugnale.
Pongo la fiaschetta sotto il getto di sangue scuro, fino a quando non si è sufficientemente riempita. Usando lo stantuffo della siringa aspiro dalla fiasca, assicurandomi subito dopo che non ci sia aria.
E piango ancora di gioia, ridendo contemporaneamente. Chiuso nella penombra della mia stanza, mi pare che tutte le creature conosciute ridano all'unisono con la mia anima, mentre il cadavere sgozzato sbiadisce rapidamente scomparendo nel nulla, e l'ago inietta nelle mie vene la mia vita, la mia memoria, la mia piccola esistenza sperduta nei tempi e finalmente ritrovata.

Venezia, luglio 2003