Stefano Comper

pallido venticinquenne neolaureato in lettere con serie ambizioni letterarie. ho avuto modo di vedere il vostro sito ed apprezzare l'opportunità che concedete agli scrittori in erba, quindi vi invio quindici paginette che spero siano all'altezza di essere inserite nel vostro spazio in rete, cosìcchè qualcuno magari le potrà leggere e comunicarmi le sue impressioni a riguardo.

Il palco

Il mio migliore maestro (quello morto giovane) era solito enunciare come il fallimento fosse un fatto singolare.
Per una serie di motivi misteriosi una persona proprio non interagisce con il tempo e il luogo.
Accade che i diurni e le lune si rincorrono con la bava alla bocca mentre un corpicino gracile gracile soccombe ad ogni secco colpo di tosse.
Tosse. Dolore intercostale. Labbro avvizzito.
Preoccupante ascesa di macchie violacee su guance e fronte.
Ogni sfuggente sguardo allo specchio è terribilmente sintomo di un nuovo bubbone grosso come un limone rossastro marcio.
E passare la mano rancida tra i capelli significa ritrarla colma di fili spezzati.
Dente marrone. Tu solo tu sai a cosa alludo.
Questo il mio pensare in questo stupefacente orripilante viversi addosso del giorno dopo. Ogni cosa ha il suo postumo ed ogni postumo ha la sua frocia posa. Prendete ieri e il suo scorrere urlante di false primizie. Ai tre baldi pretendenti miei chiedevo solo una presa di posizione tale da farmi scopare fuori il nauseante bruttume del mio tempo malaticcio. Mi pareva buona cosa farmi avvinghiare in un animalesco spingere nella speme che ciò sfangasse me e la mia da quanto di più male addosso mi portavo e porto tuttora. Occhi Piccoli era il più audace. Mentre camminavamo contro il vento mi sfiorava ora una spalla ora un fianco. Mi squadrava con lascivia col suo ovale piuttosto abbronzato. La sua coppia di iridi sbarazzine e brille mi sembrava entrassero come dolciumi dentro i recessi più profondi del mio tempestato io. Davanti a noi il Negro e lo Smilzo giocavano a picchiare vetrine e automobili. Ogni tanto si allacciavano in uno sbronzo tango e a squarciagola intonavano (stonavano) inni e sigle dalla pronunciata voglia di vivere. Stupita scoprivo che stavo abbozzando un sorriso. La qual cosa non capitava dai tempi immemori in cui il mio maestro migliore mi stuzzicava il senso con vocali e consonanti forgiate come per sempre. Giunti nel luogo ho preferito troncare subito il disagio che come un alone tossico minacciava di storpiarmi il momento propizio (Era il mio momento propizio come non lo assaporavo da annali e annali). Con gesti lievi e lo sguardo socchiuso mi sfilavo ad uno ad uno i capi che mi celavano. Sfiorandomi come per incanto con le dita sottili sottili. Potevo sentire i loro occhi sbarrati scendere su giù e poi ancora su per le mie forme delicate sfatte.
Quando sono nuda riapro gli occhi e scruto l'imbarazzo dei tre. Apro le mani al cielo e mormoro una cosa del tipo vi prego vi prego vi prego. D'un colpo ho mille mani addosso che stralciano con violenza e affetto i miei contorni e i miei antri. Esco la lingua dalle labbra e la offro al mondo. Come un'ossessa slaccio a più non posso bottoni e cinture. Sorrido ad Occhi Piccoli con una smorfia di lussuria che quasi lo atterra. Mi sembra giusto che sia lui il primo. Intanto il Negro e lo Smilzo mangiano a più non posso le mie cavità. Teneramente prima impugno e poi imbocco il suo strumento che tristemente però al pari degli occhi non possiede una dimensione di riguardo. E' grande il mio sconcerto nel sentirmi in men che non si dica la bocca piena e appiccicosa. Nell' estrarre il suo moscio da dentro me lancio a quel faccino di sgomento una severa fucilata di occhi che allo stesso tempo significa disprezzo ma anche grazie per le carezze. Il poveretto crolla al suolo ansimante come una donna post parto. Ho comunque discreta fiducia negli altri due giovani. Confido nella buona riuscita del tempo rimanente. Mi divincolo in uno strappo dalla presa delle loro due lingue e con una verve mascolina li prendo per il collo con le mani come una leonessa fa con i suoi cuccioli. In un movimento li adagio su un giaciglio improvvisato e prendo a succhiare succhiare prima uno dopo l'altro prima uno dopo l'altro. Ripetutamente alla velocità delle lucciole. Come ogni leggenda che si rispetti l'arto del Negro è tre volte tanto. Tanto che devo divaricare le mie mascelle come uno sproposito. Come una leonessa appunto. Ma vuoi per la sbronza vuoi per l'esser colto di sorpresa l'omaccione scuro non da' segni di divenir cemento tra le gambe. La sua mimica è tutto un rammarico a forma di lacrima. Disperata disperata tento e ritento con una foga degna di chili e chili di sudore. Ma il successo non abita qui. Quasi scoppio a piangere nel mirare quale lunghezza e grossezza non avrò il piacere di ricevere in grembo ma tant'è. Per fortuna lo Smilzo è ritto al cielo come un soldatino sull'attenti. Do un'ultimo bacio al suo pezzo di carne e poi gli accarezzo le costole con i polpastrelli. Dolce dolce come la mamma che non ha mai avuto. Quindi m'infilo sulla sua punta e adagio lo avvolgo in un andirivieni sinuoso e inebriante. Questo bastardo lo voglio cavalcare come un'onda di miriadi di chilometri e chilometri. Voglio essere veloce fino a librarmi in un urlo spaccatimpani. Voglio scalare e gettarmi a strapiombo in uno strappo scavezzacollo a perdifiato.
E invece mesta realizzo che tutto è già terminato finito chiuso in un classico battito cigliare. Mi sono mossa neanche due volte. Non mi ha amato neanche due volte. Brucio.
Per certo stanotte brucerò le mie cervella a pensare al cosa e al quando del mio esserci che per forza o per amore non può placarsi mai. Ramingo va e viene senza un buon sussulto. La mia linea d'ombra è una frusta. Il male che a me l'esperienza o il soliloquio spandono dentro è impossibile da lavar via. Sia che il sangue che il sonno che la martoriata voglia di spingermi matta in questo sventurato crocevia d'incontri.
Questo è ciò che stralcio tra me e me stessa mentre furiosa mi rivesto e quasi senza accorgermene esplodo in un impressionante serie d'insulti e offese che farebbero dispiacere chiunque e qualsiasi.
I tre falsi re magi incassano le mie maledizioni come una sterminata raffica di rivoltellate mortalmente velenose allo spirito.
Pur annebbiata dall'ira di Dio riesco distintamente a distinguere le loro labbra tremanti e le ciglia colme di cornee lucide lucide. Mentre sbatto la porta scaraventando in terra il mondo mi sembra quasi di poter sentire i loro bulbi iniziare a svuotarsi d'acqua con secchi singhiozzi. Solo quando sono in strada smetto di imprecare i firmamenti. Con una manica mi asciugo la bocca. Scopro di avere un braccio lungo la pancia. Il dito dentro dentro che non smette di rovistarmi.

Fucking Freak Johnny Rotten Big Junkie.
Così mi conoscono tutti dai Balcani all'iperspazio, dalle pendici del monte Nulla al Tamigi fin giù alle sperdute lande del centromondo, e il riverbero del mio nome è sintomo di un fitto scomporsi affatto bello, di un battente disio che porta i malnati come me a scheggiarsi l'entrocranio con ogni cosa appuntita o fosforescente.
Il diavolo probabilmente guida i miei geni come truppe scavate in fronte e armate fino alle gengive di uno spergiuro a rotta di pelle.
Caravaggio era solito sbronzarsi, Elvis muore che è un mappamondo, le clochard sarà ancora qui baluardo quando la Via Lattea si staccherà in un tremendo tonfo.
Il mio verbo è piuttosto niente che non sia il mio unico e solo divincolarsi svelto e naufrago, come un pugno pugnale che mi sbatte nei denti tutto il suo ovattato candore di un docile altroquando.
Qualcosa non va decisamente mentre cammini come una serpe calpestando i ciotoli ruvidi di vie trite e ritrite, mente cartacce e fogliastre si scontrano in turbini di mosche e miasmi. Sotto il cappotto stringi le tue maniglie due al collo di un vetro coloratissimo colmo fino agli orli. Affretti i passi, vuoi per il freddo vuoi per la sete, ed è così che dietro un angolo di mattoni rovini contro due tizi anch'essi veloci. Il pandemonio assume connotati mastodontici dato che la triade di passanti crolla all'unisono al suolo disperdendo nell'etere un quintale di oggetti. Mi par di notar che essi lamentano la rottura di pacchi alquanto preziosi, io da parte di me tasto con profondo rammarico il mio ventre bagnato e tempestato di schegge. Con una pazienza certosina estraggo ad uno ad uno gli appuntiti pezzi trasparenti dalle mie viscere. Nel farlo non pronuncio il benché minimo strazio, nemmeno nell'ultimo caso quando ad uscire dalle budella è un cuneo piatto grande come una siringa. Lo fisso con la bocca spalancata come fosse l'ultima pepita dell'Alaska. Sulla punta è rosso di un rosso proprio brillante.
Ho come qualcosa che mi ronza nei timpani, alché giro il cranio distogliendo gli occhi dal reperto e li ficco nel volto dei miei nuovi amici, in realtà piuttosto scontrosi. Mi abbaiano addosso una sfilza di cosucce affatto carine, riesco perfino a sentire la loro saliva schiaffeggiarmi le gote. Per vedere codesti personaggi in faccia devo roteare il collo verso il cielo, tanto sono massicci e slanciati al soffitto.
Forse perché irritato dalla mia granitica noncuranza, uno dei due stringe il bavero del mio cappotto con forza e con forza mi sbatte contro il muro. Riesco a muovere i piedi nel vuoto, alché deduco non sto toccando la terra. Una ginocchiata nelle parti molli mi fa sobbalzare la laringe e strabuzzare il sangue fin nel cervelletto. Riesco comunque a pensare che è una puntura di zanzara in confronto agli esperimenti nottambuli che conduco con viva passione assieme ai gemelli. Lì per lì mi vien anzi da ridere a pensare al terrore di ieri dipinto sui loro zigomi uguali mentre mi fissano ficcarmi uno spillone di centimetri venti nel petto. Ieri volevo vedere quanto vicino potevo spingermi al cuore mio.
Nel frattempo il presente è a forma di anfibio che s'infrange sulle mie costole e sulle mie fattezze in generale. Mohammed Alì era tra le tante cose un ottimo incassatore. Avverto delle mani non mie frugare nelle mie tasche, forse alla ricerca di quattrini da catturare come indennizzo, ma so per certo che sono asciutto e infatti non mi stupisco di un ulteriore colpo nell'intestino che chiaramente mi appare come segno di frustrazione per il mancato ritrovamento di denari. Finalmente apro le palpebre madide, giusto in tempo per scorgere i due giganti allontanarsi lenti lenti abbracciati ai loro cocci.
Un piglio satanico mi si dipinge sottopelle, una scintilla che conosco a tal punto da ricevere un fremito consueto ogni qual volta me l'avverto formarsi dentro. Realizzo che ho ancora in mano un'arma impropria insanguinata del sangue del mio sangue. E inoltre che ho l'aidiesse.
Un poco poco a fatica mi rialzo incurante dei fiotti che macchiano spudoratamente gli stracci che porto addosso. Affretto il passo dietro agli sfortunati che mi hanno appena conciato piuttosto malino. Faccio fatica a non perderli di vista ma poi in un qual certo modo pur dolorosissimo riesco ad ingranare la cadenza dei miei passi sbilenchi, e quatto quatto inizio a recuperare terreno. Arrivo talmente vicino agli assassini della mia bottiglia che quasi avverto il loro dialogo. Mi appresto a colpire con la risolutezza e la grazia del truce alfiere del Dio del Vecchio Testamento. Raccolgo il respiro e quindi con una rincorsa assesto un calcio alla schiena al tizio di sinistra, facendolo rovinare dal marciapiede sulla strada proprio nel mentre in cui una vettura sta sfrecciando a più non posso. Ho sempre avuto una perfetta sincronia.
L'altro energumeno neanche fa in tempo a comprendere un che, che la mia neo moderna sciabola gli entra nella giugulare dando subito vita ad un simpatico siparietto che vede il ferito assumere un'espressione sbarrata e incredula nel mentre in cui cerca scioccamente di tappare con le due mani strette al collo il rigurgito che da quest'ultimo fuoriesce ad una smodata velocità.
Come uno sbadato passante l'investito giace sull'asfalto privo di sensi. La mia speranza è che si sia rotto la colonna in più punti, ma per non rischiare che se la cavi con poco gli appioppo tre quattro coltellate nello stomaco, giusto per accertarmi che riceva anch'egli qualche germe del morbo dell'età moderna.
Faccio per allontanarmi fiero del mio operato quando delle grida tipicamente femminili mi squarciano la spiritualità. E' la conducente dell'automezzo. Se ne sta ferma immobile piantata sul sedile dinnanzi alla cruenta scena, le mani che orribilmente le stropicciano il volto e i capelli. Medito seriamente di aggiungerla al club dei morituri, dato che mi ha chiaramente visto in volto e potrebbe in futuro rappresentare un problema, ma mi pare così scossa che neanche saprebbe distinguere la leva del cambio dal cazzo del suo maritino. E poi vado di fretta che devo andare dai gemelli, ahimè a mani vuote.
Due o tre vicoli dopo sono distante come al solito. Sento delle sirene spiegate rompere il torpore di questa lurida fetida insignificante cittadina di strazia provincia. Che Dio la possa cancellare dalla Geografia. Uno stormo di uccellacci neri si stacca in un colpo solo dai fili dell'alta tensione e prende possesso di una fetta di cielo con dei ghirigori inarrivabili per qualsiasi uomo. Da parte di me, ogni calpestio che mi separa dalla meta è un rodersi dentro che nemmeno un genocidio può sperare di placare.

Quante volte te lo devo dire.
Joyce è andato e tu sfoggi un ridicolo tono di rosa che fa sganasciare le pareti.
Te l'ho detto prima e te lo dirò ad oltranza finché non sarai un miglio sotto terra.
Te lo vibrerò contro come un fendente di fuoco finché non capterai la tua bassezza tanto da chiuderti dentro fino a non più ricordare i climi e le latitudini.
Chi ti spiegava come asciugarsi al vento del delitto?
Ebbene lui ora è via.
A nulla giova scandirti in fasi e umori di stenti.
Non un nome ti è detto abisso, bensì avello.
Ora non vale farti beffe della Santa Alleanza e sostituirti al cielo e ai tendini.
Quanto stolto eri nell'abbracciare la pioggia e le oceaniche distese di ebano.
Quanto male agivi nello scrutare con un respiro le albe sciolte nel mare.
Ora. Tutto. Questo. È. Mai. Più.
Guarda la mia prima pinta e il mio nerissimo portamento così elegante da far sobbalzare le vergini come le scrofe. Forse un giorno ti sarà di aiuto riportare alla mente le stagioni del tuo scontento fertile, inzuppate di stigmate come di meraviglia in quelle strofe e controstrofe. Quei due estremi ti donavano uno scorrere mai fiacco. E il perdere sempre era salutato con dittonghi e lacci dal sempre nuovo portento. Adolescente illusione di poter battezzare ogni turpe risvolto del vivibile con sgargianti e gutturali rumori solo miei.
Ora guarda la mia quarta pinta e dimmi cosa ho fatto lo scorso tempo. Per caso fu il fine e la trama e le tracce e il pendolo e il marrano e la trincea e la pioggia strappavesti e il barattolo in cui chiudevo il pianeta e il buco dove infilavo il testicolo e l'ammazzavampiri così impassibile e il mantello trapuntato di stelle e il dardo che non si spegne con cui trafiggevo le mie zavorre e il marchio e le sbandate e i paurosi ma terribilmente belli scarti della vettura insetto con cui ebbro di guai mi dondolavo e trastullavo e ancora una volta mi rialzavo perfetto dalle esecuzioni che avrebbero raso al suolo i continenti in un secondo fratto e circonciso gli eroi maiuscoli di cui questa palla di sterco che gira è mostruosamente piena.
Decima pinta e gozzo ed edema mi s'incarnano come si fa con le pisciate delle ore tarde, appoggiato ad un tubo o ad una lamiera, incurante dello strusciare il membro contro…….
Una quindicina che non esiterei a tramutare or ora nel più marrone dei liquorosi torcibudella ninna nanna dichiara che tentenno e affido a quello scuotermi fino ai calcagni un infuocato scendere che mi fa girare tutte le prospettive a tutto tondo in una morbosa danza di proposizioni a metà tra il detto e il non detto che proprio mi ripugnavo con quel mio fare da vecchia quindi crepa e scompari come la feccia del peggio…
…ed era tutto uno spulciare sentimenti e goduria e la banda era tutta felice e dispensava momenti e attimi che poi a lungo e per sempre chiamavamo memorabili e noi ci chiamavamo piccoli poeti e schiumavamo ben bene il presente e mordevamo furenti gli angoli veraci del futuro ed era tutto un susseguirsi di venti ed eventi ed era tutto un tendere le braccia alla volta come quando fuori piove. Adesso invece guarda la mia nuova prima pinta e il mio nerissimo ornamento così elegante da far sobbalzare le vergini come le scrofe. Da quando lei mi ha eliminato dal suo bagaglio ho preso un cassetto e in qualunque modo lo apri ci puoi trovare un fottio di cose diverse tali da spararti con fragore in ogni dove, dal legaccio al gomito al dolce sciogliersi sotto la lingua.
Lo dice il pattine con la sua eloquente ruggine.
Lo dice il mattino fradicio che sa di aver perso.
Lo dice una bizzarra arancia meccanica che stride le vette e i vortici e i riprovevoli lasciti.
Or ora e per chissà quando m'industrio coscienza d'incubo e il foglio bianchiccio nemmeno con una virgola tingo Subentro nel pozzo del perdermi dentro come un qualsiasi cialtrone che si consacra all'inerzia. Sono diventato come voi un grado alla volta che neanche ne ho concepito l'accortezza. Prima di ripiombare in un sonno non giusto quasi m'illudo di poter infondere energia ad un nuovo stile che della poesia ha lo stesso slancio ma non la medesima fattura immortalata.
Gregor Samsa un giorno si sveglia e….
Questa è la vicenda singolare ed irripetibile di…
L'eroe sbanda e schiva le pallottole come…
Sempre caro mi fu quest'ermo cazzo che….
Una quarantena di mezza pagina vuota è la logica.










E ancora mi scandisco quando tutti sono via. Joyce è via.
Un'altra speciale penuria come un idioma impossibile e poi posso crollare orizzontale nel turbine del rimorso come un…
Sono l'impero romano nel mentre in cui certifica le proprie decadi.





























Il palco non è nient'altro che un pontile lungo e sottile alle cui estremità vi è un baratro frastagliato. Fissarlo significa nella migliore delle ipotesi scovare un garbuglio tremendo di braccia e pelle in quanto molti prima di oggi si sono spezzati con voli apocalittici nella malriposta speranza di coprire con un balzo mostruoso le distanze che li inchiodavano.
Altri invece rimangono vicoli ciechi. Picchiano due o tre odissee contro una parete colma di alghe velenose al tatto per poi andarsene in sordina proprio come sono venuti.
All'ora sedici invece puoi spalancare un qualsiasi tuo poro e macchinalmente dar di pancia nello studiare i meschini con le ventiquattrore ad un palmo dal loro sgraziato naso. In modo distinto scoperchiano le loro teste sagomate e ad ogni colpo d'ossa lasciano partire muffe dal loro cerchio che si sta drammaticamente stringendo ognora.
Una volta un insettivoro appena più scaltro della mandria aprì a raffica la sua particola con un migliaio di benefici che in un lasso di lampo troncarono buona parte del cancro. Le divise lo malmenarono e poi gettarono e poi di nuovo malmenarono finché egli stesso si sfracellò appeso ad un lenzuolo. Nessuno a tutt'oggi si è preso la briga di spostarne i rimasugli dal selciato.
Per quanto riguarda i fuggi fuggi, essi piuttosto si accalcano con scorrettezze nel tentamento di entrare con una buona posizione dalla porta principale dell'esodo. Tale assembramento di piani e stipiti è, in realtà, piccolo e lieve come un buchino di culo infante. Gli sfortunati che non muoiono nella calca ed hanno la sventura di verificare con le pupille proprie quanto amaro sia creder di potere, nell'attraversare ciò si smarriscono vedendo i brandelli dei falliti che colano dal soffitto lenti come un coagulo. Sopravvissuti si ghiacciano le tempie e legnosi come pupazzi di cenere alzano i palmi al greto e miserabondi s'interrogano con secchi pugni ad altezza ombelico e un vitreo buio fissarsi tra le gambe. Come farò a dire a mia madre che ho paura?

Mentre stendevamo lunghe strisce bianche capimmo che il palco poteva essere ribaltato in un solo sordo e secco movimento delle anche. All'inizio i nomi cadevano come le mosche e in piazza potevi udirne gli strepiti sempre e comunque, tanto che alla lunga tutte le copertine ci appartenevano come quadri di una infinibile Via Crucis. Quello che eravamo ero e so.
Una donnina che squarciava il silenzio con la sua stridula vocina.
Un folto sopra nome che collezionava lividi.
Il figlio mai nato della nuova lirica, perenne nella sua tronca eleganza.
Era ottobre credo. Forse novembre. Dicembre sicuramente no.

Ancor oggi amo agghindarmi con lustrini e corvini capelli sciolti o raccolti. Passo le ore del crepuscolo a mirami e rimirarmi in centinaia di stoffe e velluti, cangiando in fretta e furia le mie pose allo specchio come una bambinetta nell'attesa del gran ballo. Poi quando la tenebra scende scende prendo a sgattaiolare furtiva di loco in loco, mostrandomi ai banconi con gli occhi roteanti che ammiccano in tutti i punti cardinali. Sono particolarmente euforica quando la mia pelle mi da' una tregua, e magari appena un paio di sgradevoli punti brutti deturpano la mia faccia che peraltro ogni giorno è più raggrinzita.
C'è un Bello che spesse volte mi avvicina quando è sbronzo, farfugliando in una lingua tutta sua come il mio sfiorire sia fulcro di un'energia sconosciuta ai più. Io lo guardo in silenzio sognandolo tra le mie mura ma ho come il sentore che in lui scorra una brutta matematica, una nera aritmetica del sopravvivere che perfino me potrebbe trascinare a fondo fondo. Odio quando dalla sua bocca esce un frasario scuotiossa che mi lascia interdetta e ammirante, oltretutto perché al solito dopo poco accade che quella giacca da lutto si tinge di follia e prende a parlare da sola, rivangando come un travaglio una grandezza che fu e che ora non è più per sempre. C'è molta passione in quel volto mentre si cristallizza in un angolo vuoto come fosse cieco e muove le labbra ubriache come alla ricerca della filastrocca che sappia sciogliere il nesso del vivibile.
Cerchiamo di capirci, ragazzo. Qui è l'inferno maiuscolo. Un momentino distratto ti potrebbe comportare un buco nella scapola. Hai sentito le news a riguardo dell'ultima settimana di ottobre?
Io c'ero e ti giuro su quanto di più caro avrei mai avuto che ho sentito le corde del mio collo tirarsi in un'orripilante morsa.

Avevo questo piccolo libricino nero dove a sera annotavo quanto di più mirabile mi attraversava durante la giornata ma se lo apri tra ottobre e novembre ci puoi trovare solo mezze pagine bianche dato che in quel tempo Gesù era solito andare a zonzo con un fardello che lo rendeva orribilmente ricurvo di occhi sbilenchi.
Chissà chissà la fortuna chi l'avrà. La pioggerellina fitta e leggera sembra dire nessuno.
Ugualmente le campane secche che spiegano al mondo la domenica mattina.
Schiacciato alla finestra conto mollemente le vetture e i polveroni di gocce che alzano e sorso dopo sorso mi aggrappo ad una tazza che oramai ha smesso di fumare quindi ritorno sconsolato al tavolo e stralcio qualche fiacca linea nel disperato tentativo di ritrovare un lembo o uno spigolo degni di nota.
Di Sydney ricordo principalmente il sole a picco che rimbalzava con violenza sulle case coloniali quasi volesse abbatterle.
Non è vero.
Di Sydney non ricordo pressoché nulla.

Eccomi ipnosi, mi stendo sul tuo giaciglio di spine e gaudente e sporadico m'avventuro nell'entroterra della city, la lurida Miserabilia. Non fossi un drugo pur malvestito, di certo la disseminerei con pacchi che sembrano orologi ma bada ben bada ben bada ben orologi non sono. Amo gli schermi quando passano le scene dei soccorsi, quegli spazi ancora densi di fresca nebbia che lasciano appena intravedere i pezzi di case e persone. Mio sogno sarebbe imbottire un camper e porlo d'innanzi all'edificio dove le leggi sono uguali per tutti. Dura lex sed lex, oh yes!
Ma la mia lista di nomi da battaglia m'impone un approccio più diretto e animalesco, un vortice di situazioni da scacco è matto in cui o la va o mi spezzo. Quanto mi seduce il vagare ! Le armi e la virtù ! L'occhio lesto che si rizza al minimo guaio ! Le fanciulle disadorne appoggiate ai lampioni ! Quelle illibate che raschiano i muri con il cuoricino in gola !
Ricordo d'aver letto di una ribellione troppo radicale per avere un seguito. Immagino radicale quanto una vecchia negra divaricata e piegata a testa in giù sul cemento di un cortile interno e periferico al freddo tremendo di una nottata qualsiasi che le fa grondare il corpo sfatto di sbobba subito rinsecchita.
Stropiccio un contante e glielo getto ai piedi nel mentre in cui la troiona si riveste dei suoi stracci. Mi si urla contro che non è il compenso pattuito, alché mi sovviene il bacio alla scozzese inteso come un secco dar di fronte sulla canna del naso altrui. M'emoziono sempre nel vedere il piscio rosso sgorgare in un crack col consueto sottofondo di strepiti e singhiozzi e male dizioni.
E dunque via col panico per le strette del porto, dove una deliziosa mi chiede un tallero e allora l'accompagno in lungo e in largo. E' così un bel vedere con quelle spalle nude incurante dei tremiti, mentre si fa largo tra le folle e ritorna con un sorrisino e due calici colmi. Le do un premere soffice di labbra in mezzo agli occhi e quindi la trascino nelle danze. Ma tu mi ami come ti amo io?
Poi ci si struscia in riva all'acqua salata ma niente saliva o gemiti, solo siamo attaccati alla luna e silenziosi ci scambiamo carezze e brezze. Domani non sarà adesso neanche un po'.

Mi sono tirata in casa uno stempiato. Sbarbato e olezzoso era solito raccontarmi del suo bel tempo. Gli si velava il grugno nel descrivere qualcuno ora scomparso.
Quando saliamo le scale è ancora tutto un parlare di questo e quello. Io do un cenno ogni tanto. E' immobile e sconcertato mentre dopo il cappotto gli sottraggo camicia e quant'altro. Riesce appena a mormorare un che a riguardo del guanto. Dice che è sempre bene usarlo che non si sa mai. Ma proprio mai. Invece gli balzo addosso come si fa con un innamorato di ritorno dalle guerre. Ci agitiamo per bene ed è proprio quasi come un'oratoria del mio migliore maestro. Alla fine ho il rilasso sottopelle e neanche mi curo del vecchio che sbrodola paure e timori della mia presunta infetta vagina. Così per riderci gli sbatto lì una confessione inventata e questo sbianca che a me mi vien da pisciarmi dentro. Proprio credo di crepare quando mi scrolla la testa e con quei due buchi nella faccia mi guarda con terrore. Quando qualcuno mi da' della puttana allora è proprio l'inizio del riso sguaiato. Ottengo un paio di sberle ma date come fosse la prima volta. L'inutile senzacapelli non ha evidentemente trascorsi di vita. Indi sento sbattere la porta e mi ritrovo a divincolarmi dalla felicità sul pavimento. Mi ritrovo a ripensare a quel membro finalmente lungo e ferreo come nei cartoni animati che sognavo a dodici anni. Così ancora eccitata che prendo e taglio a piedi la grande fogna. Incontro i gemelli di fatto che stanno scuotendo un passante. Il Negro che mi guarda con la vergogna fin sopra quei merdosi capelli crespi. Una bimba sognante che mi chiede con la voce rotta se ho visto il Johnny. Alcuni vestiti color notte che si recitano addosso l'un l'altro la convinzione d'esser migliori.
C'è anche il Bello. Pinta e giornale aperto da tre ore sempre sulla stessa pagina. Lo avvicino così per vedere se tutto è.
Che l'onnipotente dazio possa sdoganare i maltolti e mitigare i settimi figli come le estati scorticate su muri scoscesi e le mani che mi brandivano tinte e tele si stacchino in un amen furibondo allo stesso modo del maglio rumore rincorso invano giù per le feritoie medioevali e l'intruglio riempia le sacche di resistenza putride di una donzella con la vena blu giù fino alla droga…
Addio. Oggi non mi curo del tuo magnetico strambo alone. Ancora mi freme l'interzona per il dono di poc'anzi ricevuto da un imperfetto sconosciuto.
Meglio fissare il sommo Freak Junkie mentre si fa beffe della piccola femmina che gli chiede un po' di caldo. La fa uscire dal suo bagaglio con uno spintone che le manda in frantumi il trucco e la treccia. Treccia che era stata confezionata per lui con una cura sovraumana. Forse addirittura dalla di lei mamma. Solo qualche mese fa avrei raccolto la poverina con un cenno benevolo. Ma non ora che la mia pelle è così secca da portarmi via tutto l'intento.

Il palco è un bitume di giunture sconnesse e claudicanti, ha il bianco degli occhi striato che anche a ragguardevole distanza incute disdegno e malvolontà. Chi si arrampica sui muri per sovrastarlo frana con un pauroso boato dalle unghie crepate e inizia lamenti tipici di un marrano castrato. Incuranti i soldati lo calpestano lasciandogli bolle viola su braccia e gambe.
Eppure a memoria d'uomo ci si ricorda di un qualcuno che lo seppe sedare, pur minando per sempre il suo contorno e le sue fattezze parnassiane. Egli era un uomo oppure un dio oppure un guru oppure una fantomatica figura dalle scosse sempre pronte e appropriate. Dove calpestava vedevi nascerne lunghe file di plebei adoranti a guisa di discepoli. E il ragazzo ci andava giù a piombo senza rete sotto ma miracolosamente rimediava al massimo qualche lieve frattura al contrario dei suoi adepti che in numero di migliaia ci lasciavano l'esperienza e la possibilità di continuare. Molti di questi sono or ora ridotti ad una panca di metallo, la testa che pesa sulle loro braccia congiunte, il loro culo assiderato che non da' segni di alzarli.
E il palco è sempre il medesimo travaglio. Una selva di occhi senza palpebre sempre puntati sul punto di non ritorno. L'astinenza che ti può uccidere tre volte in un'alba. Il darti tutto ad un'entità sfaccettata che un giorno è l'apice e il giorno dopo è il disagio matto che sradica il cuoio capelluto. Un bizzarro andirivieni antimelodico il cui spartito si smette di punto in bianco. Corridoi tagliati dal sottozero che ghiaccia sempre e comunque le piastre metalliche. Decadenti mezzi di locuzione indecenti a spiegare anche solo un tratto di un malore che lontano dalla purezza rimane terribile goffo. Non innalza non.
Dunque squagliati e sparisci, prendi quell'unica traccia che ancora ti rischiara un minimo di nottata senza astri dopodiché vai per la tua sconclusionata bussola scardinando gli allori. Proprio non sai dove adagiarti fiacco, misero bullone di un ingranaggio a te avverso come il fato color lapide. Ci metti tutti in guazzabuglio col tuo discorrere arioso tanto depravato quanto oppiomane. Complimenti al tuo vestiario che non fosse il tuo asimmetrico faccione di spigoli sarebbe anche quasi umano (mio piccolo tumore ad altezza laringe). Alzandoti per colazionare, scorrendo ad una a duna le tue stanze giallognole di nicotina, imprecando il masso sempre al collo pronto per buttarsi di sotto ma di sotto dove? Tu meglio fai a correr sbrego. La tua testa a punta in saccoccia così da rendere ogni vomito potenzialmente l'ultimo. L'energica protuberanza tra il seno e il coseno impugnala così come si fa con le pantofole logore dell'ultravecchio, una mano che srotola la pelle, l'altra a forma di conca pronta a raccoglierne gli spruzzi.
Industriàti a sdraiàrti la sera con i tuoi panni sporchi ben nascosti, che i tuoi fratelli da te così diversi non li scovino quando ti afferreranno per i brandelli al fine di schiaffarti sottosotto terra. Ricorda il cosa e il come quando l'ultimissimo respiro elettrico solleverà la tua membrana come per spasso. Poi sbarra le iridi e attendi. Quindi prendi e dacci dentro, arido e spaiato. Sfanga la volta e il piano. Solleva gli oceani con un singolo colpo d'inconscio. Rivolta il luccichio dei corpi ed infine sperpera quanto di più brutto hai mai seppellito. L'hotel di Dio forse ti chiuderà contro i suoi cancelli sfavillanti. E tu allora prendi le tue meningi e chiudi loro attorno le tue braccia bucate alla rinfusa, come sempre hai fatto fin dagli infanti coriandoli dell'antevita. Giàssai che la tua infanzia nient'altro è che la prova evidente che sei sopravvissuto al parto.
Nessuna sorpresa nel crollare rovinosamente dal palco come una fallita stella del rock end roll.

Che importa di te, Joyce?
Vomita il tuo fluttuante e poi piegati al divino-pioggia di sterco e dì la tua prosa e srotola quei manti d'oltralpe tanto cari alle femminelle. Ogni coercizione t'intristisce l'alzabandiera bianchiccia e ancora non trovi un polline che a te si confaccia, mio piccolo variopinto morso di vedova.
E poi, per chi è il tuo libro? Per i quori dolci? Spremuta di occhi? Vampa bianca dai capelli sciolti sciolti? Una minoranza che per te non morirebbe neanche da lei alle eternità?
Dai retta al tuo ombelico, lurido irlandese gran figlio di troia. Scegli un mezzo e divoralo come hai sempre immaginato saper fare. Come sapevi fare prima che l'idea del diluvio riempisse il tuo angolo con le madonne di Caravaggio dalla bocca colma di morte verde. Buona vita a te, fallo.

C'è questo Bello che più lo fisso più m'ammazza. Quasi lo incontro per davvero ma il dannato Johnny Rotten mi urta con un gomito l'arcata sopraccigliare destra o sinistra Ben attento a non rovesciare un goccio di bevanda più che al male che mi causa. Non mi degno d'insultarlo a quel poggiamerda. Lui e i due uguali sgorbi tossici che si tira dietro come due malsane pretese. Giro il capo e lui non c'è più. Grazie tante fottuto Freak. Allora è il tuo turno di calmarmi i bollori. Tuo e dei tuoi fraterni escrementi color pallidi.

Sembra ieri. Sembra e smembra e offende e vomita e muore. A nulla mi è valso il vincere il vento.
E lei\lui ha pianto via la neve e sorriso via il tuono e io tempo fa stringevo veramente al petto quel fagotto di ossicini e noi eravamo uno e uno è di troppo.
Mio corpo come tramite strumento porta clivo blu.
Io m'impedirò le cose dannose ma non il danno. Ecco l'Agnello diddio.
Io m'industrierò a parare e colpire in corsa. Io me stesso/a e la linea dell'Orrido accatastata al purpureo.
E ancora mi scandirò quando tutto sarà via.
Joyce è via.

Solo perché mi hai sottopelle non credere che non reagisco le dita verso il nero del tuo orizzontale che quand'ero una spanna avevo già messo in ghiacciaia i miei tremiti e fruscii e adesso lo spasso ha divelto i miei libri in cima al rampicamento del dovere che quelle così lunghe parole m'opprimevano il tatto e quello stolto medicamento m'imbarazzava le ore dunque eccola la matematica nera che anche me or ora gira come una sottile paginetta di libricino con cui solo il baloccarsi è carino.
Sordida mostro la mia età che va a pezzi. Ascoltami Bello.
Una domandina l'accendi?
Sono le dita o la cervicale che ti spintonano la retina in fondo al tunnel delle droghe così fiaccamente masticate e il giorno dopo subito di nuovo rincorse?

Gesù gesù, gesù cristico! Una quindicina di ore treno è il dramma, oltretutto con la scorta di bibite et polveri che all'ora terza già sono esaurite. I maiali gemellari dormono della grossa, tanto che demolirli a scarpate nemmeno un segno di risveglio in loro desta. Il vagone è pieno come un pulman di ebrei, non si contano gli strepiti e gli odori così tipicamente umanoidi. Riesco un attimino a perdermi via pensando alla vecchiarda che ieri sera ci ha fatto impazzire a tutti e tre, incurante degli insulti sbronzi che le giungevano alla carotide come armi improprie. Snodata la porca e alquanto insaziabile, forse in virtù della menopausa imminente. Col mio piede di porco si è divertita almeno quanto me. E pensare che…
Merda! C'è questo poppante attorno ai tre anni che non la smette di urlare e sbraitare. E i tizi che l'hanno messo al mondo neanche fiatano, al contrario si dedicano al prendere sonno e sembra ce la stiano facendo. Fingo di dormire ma con l'occhio destro o sinistro scruto la situazione, sempre oppresso da quella vocina stridula. Quando mi sembra che i due siano in letargo definitivo agisco come il miglior testa di cuoio mai visto. Uno: aprire il finestrino con uno scatto fulmineo. Due: impugnare il feto mal cresciuto. Tre: farlo volar fuori con un singolo movimento da un secondo e mezzo. Il povero bamboccio nemmeno si rende conto di un niente che in men che non si dica è già rotolante per un pendio di verde erbetta.
Vado al bagno soddisfatto di me stesso e succhio una sigara fino in fondo mentre ammiro allo specchio il volto di un vero uomo. Torno al posto con un sorriso di compiacimento e subito prendo il sonno dei giusti. Vengo svegliato ore dopo dal panico dei due ex genitori, alchè li zittisco con urla caparbie che li fanno sbiancare. Il maschietto azzarda una protesta e osa afferrarmi il braccio. Gli assesto un bacio alla scozzese che li manda ancor più fuori di senno, lui e la sua consorte zoccola che inizia a correre avanti e in dietro per gli scompartimenti urlando nonsocosa. Ma non tutto il malleolo vien per nuocere. Infatti scorgo fuori dalla finestra un paesaggio famigliare e realizzo che siamo alla nostra fermata. Massacro di pugni allo sterno i due stronzi identici finché finalmente ritornano tra i vivi. Incuranti del parapiglia ci destreggiamo tra la gentaglia e subito siamo nella capitale. Una tappa al bar della stazione è d'obbligo. Ordino qualcosa che vada giù bene, così da destare in maniera definitiva ambedue i miei compagni di viaggio. Brucia in gola sta merda ma funziona. Altro giro. Brucia in gola sta merda ma funziona. Quintultimo giro. Brucia in gola sta…….
Ai giardinetti rimediamo al volo un po' di diversivi da un tizio niente male che avevo conosciuto in gattabuia. Tentato omicidio!!!! Un anno e mezzo per un crimine che non ho neanche commesso!!!
Di buono mi rimangono solo i tatuaggi con cui ho decorato la mia pellaccia.
Comunque, non appena un attimino ci calmiamo e smettiamo di azzuffarci l'un l'altro, faccio presente ai due perché siamo qui. C'è questa casetta in collina zeppa di ori e gemme e una sola persona che l'abita oltretutto mal ridotta dall'età e da vari acciacchi. E' per domani.

Sono il biblico guerriero da Bisanzio e il verme solitario di tutti i furori che a colpi di gemme disfa e trotta come un bizzarro portapena marrone in questo sventurato unonovenovequattro che tanta parte di guado ha divelto e poi crocifisso e poi ancora una volta gettato alle terre come si fa con le posate logore indurite al tatto brillo di una diciannovenne tutta pepe e pruriti che mi si posa sopra assieme lieve e funerea e il suo corpo è una pallottola e io le schiaffo dentro il mio morbillo al pari di una tonnellata di bambocci mai nati e lei bara come il più vissuto degli stilisti.
Sono la morbida macchina che si barcamena flaccida dal trapezio dell'eroina per le vie sudate biancognole e lei, la vecchia, la calzo a pennello da sopra in un incastro furibondo di carnagione dal fuoco inspegnibile. Ogni tanto gira la testa e fa il demonio. Ripete scalciando con un fare a bocca larga: questo è il mio punto sì.
Dal canto mio amo le neve emisferro come fossi un pazzerello gocciolare color porpora e matto da legare mi ossessionano quelle forme così parlanti ben bene.
Hey Joe ! Sarò martello e incudine !
Velocipede che gareggia le tramontane e soccorso nei pressi delle rapide.
Non un muscolo mi farò prendere la mano. Non io.
Non mia la corsia sbalestrata di uno sperduto ospedale con le infermiere grassoccie che penzolano sigarette di lerciume.
IMMAGINATE PER FAVORE L'ESPLOSIONE DI UNA CABINA.
Le cose che debbo esser stato sono un pessimo surfista e un ladro di singhiozzi.
Ora il palmo rosso punto alle stelle in un'inebriante luce rossa tale da scardinare i parallelepipedi.
Se la croce fosse un filo sai che divertimento?
William Burroughs e la sua macchina da scrittura si destreggiano sempre e dovunque al pari di un cunicolo che sbuca con le unghie colme di terra. Non esiste un livello di saturazione delle geometrie.

Nell'entroterra di mastice sgambetto leggero eppure con in groppa un mobilio di polvere che ad ogni pozzanghera scavalcata sembra aprirsi e scrosciare al suolo i suoi pezzi legnosi con corti boati.
Un volto teppista mi si addice nel mentre in cui picchio la morbida pelle del mio pugno serrato sul piano viscido di un tavolo divorato dalle formiche rosse. Sto lavorando a questo progetto per una bomba nuova come dimensioni ed effetti sonori. La sua deflagrazione nel mio intento dovrebbe ricondurre i blocchi teutonici ad una Pangea oceanica priva di parassiti e malattie.
Poi però guardo in mezzo alle gambe di Lei e credo dovrei iniziare da Lei con una lama di dodici pollici
che sappia dondolare i rimasugli di Lei fin dentro al di Lei entroterra.

Riecco quel Big Junkie di un narratore folto di aneddoti.
Sono e sarò sempre un massone, inteso come un grosso sasso pluridecorato da battaglie e spintoni senza intervalli.
The Next Is The Best.
Nere ellissi in ogni dove.
I told you before that you look so pink.
Preferire significa ferire prima.
Fila e strocca come quando fuori piove merda. Ci voleva un po' di refrigerio.

Forse è proprio vero che amiamo un altropalco.