Okamoto

Io sono Simmonds Davidson Okamoto, è il mio nome d'arte; ho scelto questo "ambiguo" nome perchè credo fermanente nell'esistenza di un dualismo oriente-occidente (se vuoi giappo-americano) in ognuno di noi.O meglio in me, poi non so gli altri che mi circondano. Non è in realtà un nome d'arte perchè io sono Okamoto in carne ed ossa... è difficile da spiegare... ritengo che in ognuno di noi ci siano tanti personaggi che esigono l'emersione dal "corpo anagrifico". Per intenderci. Mamma e papà hanno fatto sesso. Lui ha inseminato lei. Lei ha generato. Loro hanno dato un nome a chi è stato procreato. Cioè a me. Un nome e un Cognome. Questi rimangono tali. Solo un nome e un cognome appunto "anagrafici". Ma non si sono accorti che dentro di me (e dentro di loro) esistevano ed esistono tanti personaggi. Tanti volti. Mille personalità. Quindi esiste l'omosessuale che è in me, l'eterosessuale che è in me, la lesbica che è in me, la donna che è in me, l'uomo che è in me, ma anche il poeta che è in me, lo scrittore che è in me, il cuoco che è in me, il critico che è in me, l'idiota che è in me, il fobico che è in me..... eccetera eccetera ecc. Potrei andare avanti all'infinitesimo. Infinito. Quindi ho tanti nomi. Ho tanti personaggi e gioco su questa cosa! Mi diverto a tirar fuori ogni giorno una persona diversa! Mi alzo la mattina e sono OKAMOTO. Poi il giorno dopo divento TONY (l'omosessuale che è in me) poi all'improvviso divento Davidoski Robert Angesokius un cuoco russo-americano e inizio a cucinare facendo esperimenti esplosivi tra i fornelli... e cosi via! Capito? Ora ad esempio ho un momento di "transizione". C'è Okamoto e c'è Setinkin Tinkul che è l'idiota che è in me. Non so chi potrebbe prevalere tra un momento all'altro. Vedremo.

Bene. Questa cosa che t'ho scritto sopra se t'è possibile vorrei che l'inserissi nella mia scheda sempre se intendi aprirmel'a.

Casomai concluderei quella cosa dicendo "Grazie a tutti coloro che mi leggeranno e che avranno la pazienza di prendersi qualche antidolorifico per il mal di testa prima di posare l'orbite o'culari sulle mie parole".

Il guaio di Okamoto è che non parlo con la voce. Quando sono Okamoto sto zitto e scrivo... Mia madre spesso mi parla e non le risponde. Lei s'incazza e io le scrivo i bigliettini dicendole "Sono Okamoto ora! Aspetta che divento n'antro e poi parliamo".

Insomma torniamo nella sanità e nella normalità (esiste?).

Polvere di Giada

Kamikoko era davanti a lui. I suoi capelli lunghi, raccolti con un elastico nero, scendevano dietro la schiena regalando al suo corpo ondeggianti movimenti. Okinawa si stava facendo ritrarre su di un foglio di carta. Chine colorate e pennini in platino marchiavano a vita linee fisionomiche. Kamikoko era una pittrice, amava particolarmente ritrarre volti, immortalare paesaggi incantevoli imprigionandoli su cellulosa bianca. Il rumore dei pennini di platino spezzava i silenzi di quello spazio limitato. Un monolocale era la casa di Okinawa arredato da controsensi e paradossi. Un crocefisso vicino ad una statua di Buddha; una tazza giapponese accanto ad un bicchiere di plastica; un divano americano circondato da cuscini cinesi. Lampadari di carta; abat-joiur di coccio. Poche cose; solo l’essenziale; in una casa dallo stile orientale ed occidentale, localizzato a Hojijuri, un paese lontano dal mondo, lontano dalla comune normalità. Distante dalle cartine geografiche e dall’universo. Kamikoko veniva spesso a trovarlo, amava dialogare con lui ma era attratta specialmente da quegli improvvisi silenzi meditativi. Riflessivi. In quel piccolo monolocale trovava una nicchia dove perdere la cognizione del tempo e dei problemi. Un rifugio dove cercare sicurezza. Protezione..

<<Okinawa ho voglia di tè.…>>

<<Hai voglia di guardarmi mentre faccio il tè..…>>

<<Come si fa a non essere affascinati dal cha-no-yu1>>

<<Io non conosco l’antica tradizione del tè giapponese…>>

<<Non fare il modesto! Anche se non conosci l’antica tradizione comunque è affascinante guardarti mente prepari il tè…>>

 

Nel piccolo monolocale, separé di pioppo nascondevano un angolo di incantevole perfezione; una pianta di tè verde dentro un vaso di terracotta era posizionata vicino al basso tavolo di ciliegio. Due cuscini duri servivano da sedie; sul tavolo tutto era gia apparecchiato. Ogni utensile era sistemato in perfetta armonia. I cucchiaini in bambù, le tazze chawan2, il chaire3 dove finissima polvere brillante di tè verde giaceva, il kama4 di ghisa dove l’acqua sarebbe stata riscaldata sopra al furo4. Okinawa accese il piccolo braciere posandoci sopra il recipiente in ghisa riempito dalla giusta quantità d’acqua da usare; ogni suo movimento era leggero, pacato, rallentato. Come se il tempo si fosse dimenticato di scorrere. Come se non esistesse più ragione per pensare alla luce e al buio. Al giorno e alla notte. Vicino al tavolo una statua di bronzo raffigurante Buddha osservava con occhio marmoreo. Kamikoko accese un bastoncino di incenso conficcandolo in un vasetto dentro a dei chicchi di grano misti a sale e terriccio. Sacro silenzio avvolgeva quegli istanti trasmutati in eternità. Il pensiero quasi errava in quella apparente staticità. Sorrisi sui loro volti. Rilassamento. Tranquillità. Kamikoko guardava scrupolosamente ogni movimento dell’amico. Dimora del vuoto. Dimora della fantasia. Nonostante fosse profano, Okinawa cercava in tutti i modi di esprimere in quella pratica giornaliera la più sublime eleganza. Amava fare il tè con il dovuto rituale. Con i dovuti attimi di riflessione e perdizione. Non gli importava di sbagliare un gesto o di non rispettare un sacro ordine; tutto per lui spariva e diveniva dimora del vuoto e dimora della fantasia. Prendendo le chawan Okinawa si preparava alla loro pulizia. Una brocca di porcellana versò dell’acqua di fonte nelle tazze; con amorevoli movimenti le faceva roteare affinché si pulissero da ogni sporcizia. Anche dal più fine grano di polvere. Da quello percettibile a quello impercettibile.

Vicino al tavolo un kensui5 riceveva l’acqua che aveva appena purificato le tazze. Con il chakin6 in mano iniziò ad asciugarle delicatamente, come se queste fossero vive e quindi degne di ogni premura e rispetto. Su un vassoio, Okinawa posizionò dei deliziosi kashi7, né mise soltanto due.

 

Dal vaso dei fiori perennemente pieno di delicati petali, prese due grossi boccioli di giglio mettendoli vicino a quei dolcetti. Né offrì subito uno a Kamikoko che con lo sguardo quasi imbarazzato né colse uno mettendolo vicino a se, aspettando. L’acqua arrivò alla giusta temperatura. La mano di Okinawa spostò il recipiente di ghisa dal furo sino al tavolo di ciliegio sopra ad un pezzo di bambù. Versò dell’acqua calda nelle chawan e con il chashaku6 raccolse la giusta dose di polvere verde gettandola prima in una tazza poi nell’altra. Con il chasen8 iniziò a mescolare il tè con gesti né forti né deboli. La giusta via di mezzo. La giusta pacatezza. Nelle tazze spuma di giada fluida stava prendendo vita. Stava prendendo anima. Kamikoko era emozionata, ricevette la tazza dalla parte del viso. I due iniziarono a mangiare piccoli pezzi di kashi con lentezza quasi monotona ma poetica. Kamikoko pronunciò poche parole di rispetto ed educazione chiedendo scusa al suo amico se avrebbe per prima bevuto quel nettare. Delicatamente girò la tazza come forma di rispetto per il volto della chawan affinché non fosse né toccato né nascosto. Un delicato movimento, un ovattato struscio di tazza sul tavolo di ciliegio; sospensione profonda e lenta. Le labbra si posarono sul bordo della tazza, un perpetuo movimento d’inclinazione così lento da sembrare infinito e finalmente il nettare di giada inebriava ogni senso.

<<Ma perché devo bere prima io… non saresti tu l’ospite principale?>>

<<Kamikoko… silenzio. Parla con me attraverso la tua interiorità e ricorda che ciò che tieni in mano ha un’anima… non offenderla…>>

<<Scusa…>>

 

Lento consumo. Buddha continuava a essere pervaso dai fumi dell’incenso; dalla finestra si intravedeva un grosso sole tramontante che regalava alla piccola dimora del vuoto e della fantasia sfumature di rosso ed arancio.

<<Ogni volta sembra di vivere una magia…>>

<<Trovo l’oriente affascinante per questo. Ogni cosa per loro merita rispetto. In America il tè al massimo te lo versano in un bicchiere di plastica…>>

<<Okinawa, qui da te trovo sempre pace e tranquillità… Ma ora dimmi… perché fai sempre bere per prima me?>>

<<Perché per me sei tu l’ospite più importante. Non sono io. Non posso essere io l’ospite della mia casa… se fossi per primo a bere peccherei di arroganza…>>

<<Giusto. Non ci avevo mai pensato.>>

<<Finisci il tè e goditi il panorama di questa stanza…>>

<<Mi viene da ridere…>>

<<Perché?>>

<<Perché il colore del tramonto ti sta dipingendo il viso di rosso… sembri ustionato…>>

<<Kamikoko ti prego…>>

<<Giusto. Il tè ha un anima… per me sta ridendo anche lui nel guardarti…>>

<<Finiscila…>>

 

Il rituale del tè finiva sempre con il ridere spensieratamente. Forse questo era il regalo di quel nettare verde, un regalo compiacente per aver rispettato con amore e diligenza quella spuma di giada. Kamikoko e Okinawa si estraniavano così dal mondo, dalla sua solita routine, dai problemi della vita quotidiana. E in quelle tazze di giada il loro pensiero vagava. Errante.

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1. Cha-no-yu: acqua calda del tè; si tratta della cerimonia del tè giapponese

2. Chawan: tazza tipica giapponese dove si prepara e si beve il tè

3. Chaire: contenitore di porcellana dove viene conservata la polvere del tè verde

4. Furo: piccolo braciere portatile che viene usato quando la cha-no-yu avviene in casa

5. Kensui: recipiente che raccoglie l’acqua utilizzata per lavare le chawan prima di preparare il tè

6. Chakin: tovagliolo di lino usato per asciugare le chawan

7. Kashi: piccoli dolci offerti prima di consumare il tè

8. Chasen: attrezzo in bambù usato per frullare e miscelare l'acqua insieme alla polvere del tè verde

 

Parole in libertà

Cazzo com’è complicato. A volte violenterei me stesso per la terribile sensazione di non riuscire a dire ciò che si vuole dire. Mi sembra di avere un sasso in bocca, manette alle mani. Una benda sugli occhi. Dei tappi alle orecchie. Per fortuna mi rimane il naso. Almeno posso respirare.

 

Mi pare impossibile esplicare ciò che l’anima mia ha da dire ch'è come sasso che chiude il flusso di un fiume calmo.

A volte poi escono fuori come nulla fosse. Non c’è bisogno nemmeno di pensare. Diventano libere, sciolte, veloci, rapide ma poi un qualcosa mi fa ricadere in basso; a terra in un cesso d’autostrada. Pieno di scritte maniache e porche. Di cellulari vogliosi di squilli; di piscia secca sulle tavolette. Di vomiti. E allora bestemmio me stesso perché iniziano ad uscire parole mozzate, sbagliate e due dita diventano due diti. E trovo poetico questo. Sublime. Non c’è più frenesia di ricercare la perfezione. Cazzo! Sono uno scrittore, affanculo la forma, uscissero come cazzo vogliono e se sembreranno parole ripetute cazzo me ne frega!

 

Parole in libertà e confusione in me si crea che tali consonanti e vocali come vortice d'aria e sabbia girano e m'avvolgono tutto e gli occhi miei diventano rossi ed umidi e il respiro s'affanna a tal punto che rantolo di dolore e le parole escono come turbine di forze naturali. E s'affanna il pensier mio a riflettere sulle vocali e consonanti da unire e dividere da associare ed eliminare e nascono parole a volte senza senso a volte sbagliate ma piene di mio ed ora m'è tutto chiaro come il cielo d'inverno percorso da un vento forte di ghiaccio che tutto fa sembrar più azzurro ma nulla c'è di poetico in un cielo di tal beltade agli occhi di un cinico che dirà: <<è solo ozono!>>

 

Sensazioni di una strana ebbrezza

Silenzi. Cecità. La lampada di questa maledetta stanza s’è spenta. Lampadina fulminata. Proprio ora dovevi morire? Cosi torno al ricordo recondito di quel che fu. Mi stendo a terra e sento le mie membra pesanti. Esse si smaterializzano e s’inglobano al pavimento di marmo freddo. Sento gelo. La finestra è aperta ma a volte si ha il culo così pesante da non riuscire ad alzarsi e si sussurra un “sti cazzi” indifferente. Scivolano via lacrime dalle guance. Bagnano il pavimento. Sento il loro precipitare e frantumarsi in tante piccole gocce. Fino a pochi istanti fa la lampadina era accesa. Ora s’è fulminata. Sei una bastarda. Proprio ora dovevi morire?

Sono incazzato. Si lo sono. Dovevo finire una cosa. Dovevo finire di scrivere il primo capitolo della mia biografia e ora… ora non posso farlo più. Potrei alzarmi e accendere la lampadina di un lampadario che è allappato. Però. Pensandoci bene nulla accade per caso. Non mi va di alzarmi dal pavimento.

Cara pagina vuota sai che ti dico? Io mi addormento. Qui. Sul pavimento. Domani penserò al funerale da fare per quella stramaledetta lampadina.

 

Elaborazione di un delirio

Ambiente.

Uno spicchio d’aglio. Lo taglio. Odore forte. Pungente.

Un pezzo di legno inzuppato d’acqua senza tarme, grani di polvere.

I fiori del vaso bisognerebbe cambiarli. Sono mosci. Forse con una pasticca di anti-impotente si risollevano e diventano dritti e duri. E poi c’è tutta questa terra qui. Quando mi deciderò di toglierla?

La mia vicina fa sempre come vuole. Questa stronza di notte accende la luce del terrazzo come se avesse paura che qualche ladro entri nella sua deprimente casetta di periferia a rubargli la pensione che tiene sotto il cuscino. Ma non puoi metterti un antifurto invece di molestare i miei occhi a quest’ora?

Non trovo le bustine di tè al limone. Ho lo stomaco contorto. Ambiguo. Ho voglia di andare al bagno ma non ci riesco. Non per defecare ma per vomitare.

 

Invece di impegnarmi alla ricerca estenuante di “bustine” me ne vado al cesso. Il sale dicono che faccia vomitare. Proviamo.

Ne prendo una scatola intera. Grosso. Tutto giù. Sto per soffocare. La saliva non cessa di formarsi. Sbavo. Tossisco. Ho sete per dio. Ho sete! E vomito.

Vomito fino a quando posso e il nano che è in me inizia a profilare cantilene perlate, perlate di parole, parole poetiche, che mi fanno ruttare ed evacuare!

 

Ancestrale essenza

di uno spicchio d’aglio

che emana odore e sapore,

morto legno

abbandonato dalle tarme

abitato da madre acqua

nella quale si inzuppano

granelli di polvere e sabbia

che danzano e si muovano,

fiore appassito e privato dei petali

che in terra si polverizzano

entrando a far parte della terra,

e vedo la luce di un faro

che mi indica la meta

che io tento di raggiungere

in un mare piatto

con onde alte e terrificanti,

tutto è sabbia bianca

la luce della luna illumina

lo specchio d’acqua immobile

che è animato da onde spumeggianti

che si infrangono su scogli neri

dove si rompe la mia barca,

che intatta raggiunge la riva,

dove scendo sulla terra ferma

e cado in un abisso eterno,

senza fondo

e cado senza più fermarmi

e intanto cammino

per raggiungere la mia dimora

e mentre entro in casa e apro la porta

trovo una vallata di insondabile misura,

verde e profumata

e corro senza più pensare al tempo

che ora scorre tra le mie dita,

per poi cadere sul prato verde

che è divenuto palude arida,

dove esce acqua

sgorgando chissà da dove

e io mi avvicino con le labbra

a queste sorgenti

per assetare la mia sete

ma sete ancora ho.