Alfredo Colitto

E' nato a Campobasso e vive a Bologna.
Ha pubblicato i romanzi Café Nopal (Alacrán), Bodhi Tree (Crisalide), Aritmia Letale (Addictions).
Ha partecipato a varie antologie di racconti, tra cui Fez, struzzi e manganelli (Sonzogno), Killers & Co. (Sonzogno) Il ritorno del Duca (Garzanti).
Insegna scrittura creativa presso la scuola di scrittura "Zanna Bianca" di Bologna, della quale è tra i fondatori. È membro dell'Associazione Scrittori Bologna e dell'AIEP (Asociación Internacional de Escritores Policiacos).
Collabora anche come traduttore con alcune tra le maggiori case editrici italiane.
Ulteriori informazioni sul sito www.alfredo-colitto.com e su www.borderfiction.it

La spiaggia

Odiava dover morire senza rivedere il cielo. E odiava l'idea che a portarlo in ospedale fosse proprio sua moglie, la persona a cui più detestava dovere un favore.
Cercò di voltarsi verso di lei, ma il dolore era troppo forte, e ci riuscì solo a metà. Nora era al volante della sua utilitaria elettrica, con un'espressione concentrata, e guidava il più velocemente possibile lungo la galleria principale della Nuova Città, attraverso la folla del quartiere dei divertimenti.
Voleva parlarle. Voleva dirle che era una fatica inutile, che tanto sarebbe morto. Era una cosa che sentiva in tutte le fibre del suo corpo, una consapevolezza irrazionale, ma che non lasciava adito a dubbi. E il fatto che avesse ripreso conoscenza non voleva dire nulla. Era solo una piccola proroga.
Tutti questi pensieri gli si accavallarono nella mente a una velocità inusitata, ma non riuscirono a trovare la strada per arrivare alla bocca. Tutto quello che riuscì a fare fu emettere un debole lamento. Nora si voltò verso di lui, e per la prima volta da molto tempo sul suo volto stretto e pallido di donna ormai anziana non c'era la solita piega amara. C'era dolore. Autentico dolore per lui che se ne stava andando.
"Andrà tutto bene, vedrai" disse.
Giorgio Guerra vide una lacrima che le rotolava a scatti lungo la guancia destra, e sentì un moto di rabbia. Adesso piangeva, ma tutte le altre volte che avevano litigato, non aveva fatto che dargli sempre torto. Sempre. E non l'aveva mai ringraziato di tutto quello che faceva per lei. Mai una volta che avesse detto grazie.
Nora frenò bruscamente, per evitare un giovane biondo, interamente vestito di pelle nera, che barcollava in mezzo alla strada. Giorgio si sentì spinto in avanti, ma il suo corpo inerte fu trattenuto dalla cintura di sicurezza. La macchina ripartì, svoltando quasi subito in una galleria laterale. Le strade adesso erano completamente illuminate, perché era ancora 'giorno'. Più tardi la luce diffusa sarebbe diminuita poco alla volta, per lasciare il posto alla notte artificiale della Nuova Città.
I lampi colorati dei neon gli ferivano gli occhi, ma non riusciva a muovere le mani per coprirseli. Il dolore al petto era fortissimo. La città gli scorreva di lato come un incubo di vetro e cemento, che non aveva nulla di umano. Nora la trovava bella. Le piaceva l'aria purificata, che aveva eliminato il freddo dell'inverno e i calori eccessivi dell'estate, in quella che una volta era stata Milano. E trovava addirittura poetico lo spettacolo delle altissime arcate di cemento che formavano il soffitto delle strade, sui cui fianchi si arrampicava la geometria severa degli edifici. Diceva che in qualche modo le ricordavano le cattedrali gotiche. Cattedrali al neon, piene di gente a tutte le ore, pervase dall'attività frenetica di un formicaio. Lui invece, nonostante vivesse ormai da quindici anni nella Nuova Città, non si era mai adattato a quella vita da talpe. L'uomo era fatto per vivere sotto le stelle, non sotto migliaia di tonnellate di terra.
Era stato proprio parlando del cielo che avevano litigato, meno di mezz'ora prima, al ristorante. Lui stava parlando di come sarebbe stato bello, almeno una volta, passare una giornata in uno dei drive-in di lusso che si trovavano nel livello più alto della città.
Erano i posti in cui i ricchi andavano ad abbronzarsi al sole, sotto cupole di plexiglas che schermavano tutte le radiazioni nocive. La gente comune li chiamava semplicemente 'le spiagge'. Nessuno di sua conoscenza li aveva mai visti da dentro, ma si diceva che oltre il portone d'ingresso d'acciaio anodizzato si stendesse una strada di cemento piena di curve, circondata di dune di autentica sabbia del Sahara, sotto un cielo caldo e azzurro. I clienti parcheggiavano vicino a una delle tante piscine, e passavano la giornata stesi pigramente sulla sabbia, rinfrescandosi di tanto in tanto con un tuffo in acqua.
Mentre ne parlava si sentiva quasi trasportato da un sogno, ma sua moglie non aveva perso l'occasione di riportarlo bruscamente con i piedi per terra.
"Perché ti tormenti con questi desideri impossibili?" gli aveva detto. "Sai bene che l'ingresso alle spiagge costa come il mio stipendio di un anno."
In quel momento aveva avuto voglia di schiaffeggiarla. Sempre così pratica, così imperturbabile. Non era strano che il Test l'avesse considerata adatta a lavorare, mentre lui era stato condannato a vivere senza far niente, con una piccola pensione che non bastava neppure a pagare metà dell'affitto. Se non fosse stato per lo stipendio di Nora, sarebbe finito in una Casa di Riposo per Cittadini Bisognosi, un destino peggiore della morte. Lei non gli aveva mai rinfacciato di vivere alle sue spalle, ma sapeva che lo pensava. Doveva pensarlo per forza. Se non ci fosse stato lui ad appesantirla, Nora avrebbe potuto vivere in un modo abbastanza agiato. Pensò con stizza che comunque non avrebbe dovuto sopportarlo ancora per molto. Ormai stava per togliere il disturbo. Quella corsa frenetica verso l'ospedale era assolutamente inutile.
Sentì una specie di formicolio all'altezza del plesso solare, una sensazione languida e quasi piacevole, e si abbandonò sul sedile, tornando a guardare la strada. Se doveva morire, sarebbe morto, era inutile opporsi. E quella sarebbe stata una cosa in più di cui Nora avrebbe dovuto ringraziarlo. Stava per togliersi di mezzo senza chiasso, in un modo pulito, senza costringerla ad accudirlo durante una lunga malattia. Ancora un'ora, forse due, poi lei sarebbe stata libera di vivere come più le piaceva.
Stavano passando davanti a una fila di sale virtuali, lungo un marciapiede affollato di giovani. Ormai i videogiochi con cui Giorgio Guerra era cresciuto, cassoni di plastica dipinti a colori vivaci, con un monitor e un joystick, erano roba da museo, come i libri di carta e le macchine a benzina. Adesso il giocatore si sedeva su una poltroncina, infilava guanti e occhiali speciali, che si collegavano direttamente ai suoi centri sensori, e si immergeva totalmente nella realtà del gioco che aveva scelto.
Anche lui in quel momento si sentiva così, in balìa di una realtà estranea, vivida, piena di dettagli tanto perfetti da sembrare finti. La differenza era che non si trattava di un gioco, e soprattutto che non l'aveva scelta. Semplicemente il suo destino, che forse lo aspettava al varco da anni, all'improvviso gli era venuto incontro, rapido e inaspettato come un predatore notturno.
Quella notte aveva dormito male, e si era svegliato due volte con un dolore acuto al braccio sinistro. La mattina il male era passato, ma si era alzato depresso, e la depressione era aumentata non appena aveva aperto la finestra.
In realtà, non aveva mai capito il senso di costruire gli alloggi con le finestre, visto che non esisteva un vero 'fuori'. Poteva solo immaginare che gli architetti coinvolti nella ricostruzione, negli anni frenetici in cui c'era stata la corsa a nascondersi come topi, avessero voluto mantenere il più possibile l'illusione che nulla era cambiato. Ma non ci erano riusciti. Di giorno, la strada era illuminata da una luce diafana a 5000 gradi Kelvin, che anche se aveva la stessa temperatura di colore della luce solare, come sostenevano gli esperti, certamente non ne aveva la vita e il calore. Con l'avanzare delle ore, la luce prendeva una tonalità sempre più azzurra, di un azzurro elettrico e gelido, fino a spegnersi del tutto verso le otto di sera. Allora la città restava illuminata solo dalle insegne al neon e dai lampioni. Le architravi altissime, gli archi di cemento e le putrelle d'acciaio, che impedivano all'enorme massa di terra e roccia che li circondava di schiacciare la città, di notte si intuivano appena, perse in un'altezza vertiginosa sopra le case. Ma il senso d'oppressione di Giorgio Guerra non si lasciava ingannare. Anche se non vedeva le rocce e la terra che premevano sopra di loro, ne avvertiva il peso con tutto il suo corpo, e si sentiva soffocare.
Quel giorno aveva insistito per non pranzare in casa. Aveva aspettato il ritorno di Nora dal lavoro, e l'aveva invitata a mangiare al ristorante del suo amico Tanaka. Durante il tragitto Nora non aveva fatto altro che parlare del suo lavoro. Insegnava la Nuova Lingua in un Istituto d'Istruzione, e ne era entusiasta. Quello era un altro lato della sua personalità che sfidava le capacità di comprensione di Giorgio Guerra. Come era possibile che qualcuno potesse amare la Nuova Lingua? Era uno strumento rigido e freddo, forse perfetto per le transazioni commerciali e per la burocrazia, ma certamente inadatto a esprimere le passioni e i sentimenti che l'umanità, pur confinata sottoterra, continuava ad albergare nell'anima.
Al ristorante si erano seduti a un tavolo vicino alla vetrata che dava sulla strada, e avevano assaporato il sushi sintetico come se si trattasse di un manicaretto. Naturalmente Giorgio aveva insistito per essere lui a pagare. Ci teneva a dimostrare alla moglie che non era un parassita, e che non aveva bisogno del suo stipendio. Ma quando aveva cercato di infilare la carta di credito nell'apposita fessura che si trovava su un lato del tavolo, il dolore al braccio era tornato, fortissimo. Si era sentito mancare il respiro, e aveva avuto la sensazione di cadere in un vuoto nero. Poi si era risvegliato nell'utilitaria di Nora, diretto verso l'ospedale.
Ormai erano usciti dal centro, e stavano salendo verso il livello superiore della città. Si chiese quanto tempo era passato dall'infarto. Forse, visto che anche se non poteva muoversi né parlare, continuava a pensare, aveva qualche possibilità di cavarsela. Inoltre il dolore al braccio e al petto era diminuito.
Tutto il suo pessimismo lo abbandonò all'improvviso, e cominciò a desiderare di arrivare in fretta. A volte, salvare una vita era solo questione di poter intervenire entro un determinato limite di tempo.
Cercò di mandare un messaggio mentale a Nora, perché accelerasse, ma il suo volto tirato non mostrò di averlo captato. Quando mai captava qualcosa, quella.
Aveva sonno, un sonno e una stanchezza tremendi, totali. Non era una sensazione fisica, visto che non riusciva a sentire il suo corpo. Era piuttosto come una nebbia densa e pesante, che lo avvolgeva da tutti i lati, spingendolo ad abbandonarsi. Cercò di lottare, di non cedere, perché sapeva che se si fosse addormentato sarebbe stato per sempre. Scivolò quasi senza rendersene conto in uno stato semicosciente, dove non vedeva più nulla, non sapeva più nulla, e l'unico tenue filo che lo manteneva legato alla vita era il sommesso ronzio del motore. Sentì che la macchina si fermava, che Nora scambiava delle parole con qualcuno. Subito dopo ci fu il rumore di un cancello che si apriva, e l'automobile ripartì.
Capì che erano arrivati. Tra pochi secondi mani competenti l'avrebbero tirato fuori dall'abitacolo, adagiandolo su una barella, e se era possibile fare qualcosa per salvarlo, l'avrebbero fatto. Giorgio Guerra era diviso tra il sollievo e la paura. Desiderava con tutto il cuore essere salvato, ma se non era possibile, non voleva morire in un ospedale, pieno di fili e cannucce che lo collegavano a macchine e monitor. Quella era una morte da topo di laboratorio, non da essere umano.
Fu invaso da una sensazione di calore, e subito dopo percepì una luce bianca, lontano, che lo attirava inesorabilmente. Si spaventò, e aprì gli occhi di colpo.
Tutto il suo campo visivo fu invaso da un blu intenso e totale, e ci mise qualche secondo per capire dove si trovava. Era seduto su una duna di sabbia soffice, insieme a Nora, che l'aveva trascinato fuori dalla macchina, e lo teneva abbracciato. Sopra di loro i raggi violenti del sole erano schermati da una spessa cupola azzurrata. Erano su una 'spiaggia'. Provò una rabbia tanto forte che gli contrasse una guancia in un rictus. Invece di portarlo in ospedale, lei l'aveva portato a morire su una stupida duna di sabbia.
Ma non ebbe il tempo di abbandonarsi al rancore.
A un tratto fu cosciente di tutto allo stesso momento. Di sé, di Nora, della cupola e della gente stesa al sole, accanto ai rettangoli verdi e luccicanti delle piscine. Vedeva ogni cosa dall'alto, compreso il suo corpo sostenuto da Nora, e capì quello che stava accadendo. Capì che stava morendo, e che lei aveva sacrificato il suo salario di un anno, per regalargli quella vista. Dalle profondità della sua memoria emerse un ricordo che neppure sapeva di avere, e che possedeva la nitidezza di un'allucinazione. Nora che lo aspettava seduta al tavolino di un bar, il giorno del loro primo appuntamento, quando le radiazioni non avevano ancora avvelenato la terra. Poteva vedere tutti i dettagli. Il colore rosato del cielo pomeridiano, il bianco abbagliante del tavolino di metallo, il vestito a fiori di Nora, che allora non era ancora sua moglie, e neppure la sua fidanzata. I suoi occhi grigi erano sfocati, persi nel sapore del caffè che stava bevendo. Notò il mignolo sollevato della mano che reggeva la tazzina, e quel particolare insignificante gli fece venire voglia di piangere.
Sollevò la testa verso la moglie. Nora lo fissava con una tenerezza triste che non le aveva mai visto. Voleva dirle grazie, ma non poteva parlare. Riuscì soltanto a sorriderle, un sorriso in cui mise tutto se stesso, tutto l'amore che aveva trattenuto in quegli anni, tutta la tenerezza che non aveva mai manifestato, per paura che lei lo disprezzasse. E le strinse la mano, intrecciando le sue grosse dita con quelle sottili di lei.
Poi, dolcemente, si lasciò andare nel nulla.