Matteo Petruzzellis

Teste rosse 

Dicembre, tre giorni dopo Natale.

Avevo un volo Roma-Dublino.

L’aereo partí in orario. Dopo nemmeno due ore fece scalo a Bruxelles. Scendemmo tutti, aspettammo una mezz’ora, poi tornammo a bordo. Ai passeggeri saliti a Roma se ne aggiunse qualcun altro. Uno di loro attirò la mia attenzione: era un uomo sui trentacinque, capelli rossi tagliati molto corti e rasati sulla nuca, barba di almeno tre giorni, larghe occhiaie scure sprofondate sotto due occhi lucidi come se avesse pianto. Indossava una giacca di velluto nero, tutta stropicciata, jeans neri rotti alle ginocchia e un paio di stivaloni a punta, anche quelli neri.

Teneva le labbra piegate in un sorriso sconclusionato come quello di un ubriaco seduto tutto solo in un bar, e procedeva ondeggiando lungo il corridoio, tormentandosi le mani nelle tasche della giacca e voltando la testa indietro ogni secondo, in direzione del portello da cui era entrato.

Chissà perché, sorrisi anch’io. In effetti il suo sorriso, malgrado rovinato da una doppia fila di denti marci, era contagioso come quello di un vecchio, caro amico. Ma naturalmente io non avevo mai visto quel tizio prima di allora.

Venne a sedersi proprio nella poltrona davanti alla mia. Il posto accanto al suo rimase vacante. Infischiandosene del divieto di fumare, sfilò una sigaretta da un pacchetto di Camel e l’accese. Poi vide un’hostess e la chiamò con un cenno della mano. L’hostess arrivò. Parlottarono per un paio di minuti e si scambiarono una muta occhiata d’intesa. L’hostess trotterellò via, verso la cabina di pilotaggio.

Una voce morbida annunciò la partenza e ci pregò di allacciare le cinture. Io eseguii diligentemente. L’uomo dai capelli rossi lasciò perdere. Spense il mozzicone della prima Camel e ne prese un’altra, che si sistemò dietro un orecchio.

Guardai fuori del finestrino. Stava piovendo. Un airbus della Lufthansa stava accostandosi alla banchina di parcheggio.

Il nostro aereo pareva sul punto di spostarsi verso la pista. Il rumore dei motori crebbe d’intensità, si fece piú forte, sempre piú forte.

Poi calò di colpo.

Un’improvvisa agitazione s’impadroní delle hostess. Una di loro aprí un portello, si sporse fuori e con un gesto irritato invitò qualcuno ad entrare.

Trattenni il fiato.

In fondo alla cabina apparve una ragazza.

L’uomo dai capelli rossi saltò in piedi.

Anche la ragazza aveva i capelli rossi, rossi come il segnale di stop del semaforo, e lunghi fin sulle spalle, e lucenti. Anche lei era completamente vestita di nero: un semplice maglione di lana e una gonna lunga che le arrivava alle caviglie.

Stava piangendo in silenzio. Gli occhi erano blu e arrossati dalle lacrime e scintillavano nella luce asettica come pietre preziose imprigionate in una bacheca.

Il personale di bordo pareva imbarazzato, e indeciso sul da farsi. Poi qualcuno meno impacciato degli altri – l’hostess che aveva parlato con l’uomo dai capelli rossi – agganciò la ragazza per un gomito e la pilotò nella nostra direzione. L’uomo mosse due passi in avanti e le si fece incontro. L’hostess mollò il gomito e scivolò indietro.

L’uomo prese le mani della ragazza. Nessuno dei due parlò. Rimasero lí in piedi, immobili come statue, gli sguardi incastrati l’uno nell’altro, al centro del corridoio di un aereo di linea in procinto di partire e già in forte ritardo. Ma questo, per loro due, non sembrava volesse dir nulla.

Poi lui sfoderò quello splendido sorriso strampalato, mosse le labbra senza pronunciare una sola parola, e la condusse alla sua poltrona. Si sedettero. Vidi l’uomo sfilarsi la sigaretta da dietro l’orecchio, infilarsela tra le labbra e accenderla. Un pennacchio sottile di fumo azzurro si levò da dietro lo schienale. Lo guardai salire dritto e poi spandersi in larghe volute irregolari. L’aereo, intanto, aveva finalmente iniziato la sua manovra di decollo.

L’uomo si chinò sulla ragazza e con un dito le asciugò le lacrime. Lei inclinò la testa di lato e la poggiò sulla sua spalla. Tirò su col naso e sorrise.

L’aereo si staccò da terra.

Quando sbucò fuori dalle nuvole e si distese pigramente sotto il sole, sentii un assurdo profumo di marmellata di more arrivare sino a me e riempirmi le narici.