Marcolino

Angelo Australi è nato il 27 luglio 1954 a Figline Valdarno, dove tutt'ora vive con la moglie Sabrina e i figli Egle e Nilo.
Molto giovane comincia a coltivare la sua grande passione per la musica rock e jazz, fondando nel 1973 il periodico "Musica in Piazza", un ciclostilato di breve vita (solo tre numeri), ma sufficiente a delineare uno scenario locale di riferimento, dove muoversi con la scrittura. Compone anche i primi lavori poetici e scopre il piacere della lettura grazie ad autori come Vittorini, Jack Kerouac e Jean Genet, di cui subisce il fascino durante gli anni (1974/75) del servizio militare a Roma.
Con un itinerario incerto e faticoso, Australi si costruisce nel tempo, un'immensa e caotica cultura da autodidatta, soprattutto dal 1976, quando, sempre sotto l'influsso di Vittorini, legge i maestri della letteratura americana e inizia a scrivere i suoi primi racconti, che suscitano l'interesse del poeta figlinese Eugenio Centini e il giudizio positivo di Davide Lajolo.
Nel 1980 esordisce con il romanzo Roscio, nella collana "Narrare oggi" diretta dallo scrittore Vincenzo Guerrazzi per i tipi dell'Editrice Ciminiera di Reggio Emilia.
Nel 1985 pubblica spartaco e cannabis, per le edizioni Gazebo, dirette da Mariella Bettarini e Gabriella Maleti. I due volumi ottengono un buon successo di critica.
Nel 1986, con alcuni amici, fonda il Circolo Letterario Semmelweis con l'intento di favorire la crescita culturale del proprio territorio ricercando un confronto tra identità territoriali diverse. Il Circolo Letterario Semmelweis è tutt'oggi attivo nel territorio valdarnese, ed Australi ne è stato presidente fino al 1991.
Nella collana di narrativa dell'associazione escono le plaquettes di racconti Magalodiare (1989), I grandi navigatori (1996), e I sogni in Tv (2002).
Tra il 1989 ed il 1991 è ideatore e direttore del periodico di cultura valdarnese "MicroMacro" e lavora come consulente culturale del centro "Informagiovani" del Comune di Figline Valdarno.
Dal 1990 al 1995 ricopre la carica di segretario della locale sezione prima PCI e poi PDS.
Nel 1999 pubblica, ancora per le Edizioni Gazebo Vittoria.
Sempre nello stesso anno, insieme all'amico Fabrizio Bagatti e in collaborazione con il Circolo Letterario Semmelweis e i Comuni di Figline V.no, San Giovanni V.no e Terranova Bracciolini, organizza "Onde di Terra", il paesaggio nella letteratura Toscana del Novecento. E' un'iniziativa triennale ideata per riproporre all'attenzione del mercato editoriale e per promuovere nelle scuole la rilettura di alcuni autori toscani.
E' del dicembre 2003 la pubblicazione per l'Editore Pezzini di Viareggio il racconto "Zia Oria".
Dal 1980 ad oggi suoi racconti e poesie sono stati pubblicati sulle riviste "Morgana", "Salvo Imprevisti", "Abiti e Lavoro", "La Valliva", "Il Cobold", "Stazione di Posta", "Il foglio del Varldarno", "L'Unità", "Fermenti", "Emergenze", "Nuovi Argomenti", "L'area di broca", "Arx", "Onde di terra".

è caduta la neve

Non so come l'affrontano i miei coetanei, ma l'dea che quest'anno compirò mezzo secolo è presa davvero male. Mi sento instabile, prigioniero di un'agitazione che riduce tutto a briciole. Certe volte sembro un cane randagio che chiunque può prendere impunemente a calci, altre è come se non fosse trascorsa un'ora da quando a vent'anni mi cibavo solo di musica. Il ventisette luglio del 2004 compirò cinquant'anni e non sono mai stato così insicuro come adesso. Bel regalo mi aspetto dal futuro, se resta questo sapore salato in bocca! Lo spazio e il tempo nella mente si sono ristretti, le mie fughe visionarie di pochi mesi fa ora non hanno più la dimensione della vastità, ma poi la fonte maggiore della mia agitazione risiede nel passato con il quale ormai stento ad entrare in contatto, perché tutto ciò che provo a visitare sembra accaduto appena ieri. In questa sorta di collasso temporale il mio organismo diventa reattivo, agisce impulsivamente. Sembro un motorino di avviamento andato fuori fase, che aumenta i giri quando dovrei procedere con cautela, e rallenta quando sento di più il bisogno di spingere. Non è facile andare avanti in queste condizioni, sto rischiando di inebetirmi scaraventando il cappello per aria, come feci quella volta con il vocabolario di francese, appena dato l'esame di riparazione a settembre. Lo scagliai su in alto dalla scalinata esterna della scuola, con forza, in alto fino a sbattere nella grondaia del tetto. Basta con la scuola! Un urlo bestiale, raccapricciante... Mi sono rotto i coglioni! Al secondo lancio poi le pagine del vocabolario, ormai già mezzo sfaldato, iniziarono a volare e a disperdersi come tante farfalle bianche, nel cortile dove gli altri rimandati mi guardavano esterrefatti.
Alla pensione manca una vita, perché dieci anni adesso sono ancora una vita, e se per caso mi volto indietro vorrei tanto spendere queste nuove energie nei sogni che non ho mai smesso di coltivare.
Anche Gino sente che la mia testa non gira come dovrebbe, forse in casa è l'unico a percepire la scia luminosa che emano in questo periodo, ha fiutato subito un po' tutte le fasi in crescita del mio innamoramento, e sembra guardarmi quasi in un modo disperato, come se volesse tentare di fermarmi. Grande Gino!… Quest'inverno mi sono seduto su di una panchina ancora bagnata dalla pioggia caduta nella notte, e sono rimasto per un'ora buona a fissare due canne striminzite che crescevano sul bordo del torrente, così lui si è sdraiato, ha teso le orecchie ed ha fissato la stessa mia immagine. Ci vedevo mia moglie, e lei… Elena. Ma ero perso, andavo verso la deriva con questa immagine di donne alle quali non posso rinunciare. Per motivi diversi, certo. Ormai Gino non si aspetta più niente da me, mi guarda con tenerezza, quando piega il muso e aspetta gli ordini. Se lo libero dal guinzaglio mi segue remissivo, cerca addirittura di imitare le espressioni del mio volto. Il cane che avevo comprato per farci giocare i miei figli ora è diventato lo specchio della mia confusione mentale. Triste?... triste anche lui. Allegro?... allegro. Se sono frenetico lui sembra impazzire, mi saltella intorno, finge un approccio di corsa, uno scatto, e mi guarda con la lingua fuori, pieno di fiducia. Un cane che si è adeguato agli umori del suo padrone. Stranamente ha smesso anche di abbaiare ai volatili, la sua passione quasi nevrotica, quando lo faccio salire in macchina. Proprio quest'anno ho cominciato a guardarmi allo specchio, un gesto che non facevo dai tempi delle prime rasature. Sarò pazzo?! La testa, nei momenti che c'è, dice che faccio davvero schifo, ma è più forte di me… Lasciarsi andare, là dove ti sospingono le correnti ascensionali, almeno a cinquant'anni.
Negli ultimi mesi ho proprio cambiato pelle, nonostante gli sforzi per far credere che il ritmo non ha subito accelerazioni… E poi lei è sposata, ha un bambino, è bellissima. La magia della luna a volte colpisce anche i fessi, con il suo candido bagliore. Quando avrò sessant'anni lei è a quarantacinque. Dio, come sono vecchio! La domenica mattina, in questi primi mesi del 2004, costringo Gino a una breve passeggiata intorno casa per sbrigare le sue funzioni fisiologiche, poi cerco di piazzarlo in giardino e di restare alcune ore da solo con i miei pensieri. In piazza compro il giornale all'edicola di Ernesto, lo sfoglio un po' non perdendo il passo, ma poi preferisco fermarmi a parlare con gli anziani che già passeggiano perché soffrono d'insonnia e temono la solitudine. Cerco di capire come potrei essere fra non molto. Ogni tanto ne muore qualcuno, ma sono ancora un bel gruppetto agguerrito, si radunano come le bestie, forse solo per abitudine, ma senz'altro per solidarizzare contro la piega che sta prendendo la loro vita. Non serve neanche chiedere, le ultime novità sul paese arrivano come in un crescendo musicale. Spesso le loro notizie scadono al pettegolezzo più becero, vere e proprie chiacchiere da bar, ma la maggior parte di questi vecchi li ho conosciuti quando ancora scorrazzavo come una peste per le strade, in pantaloni corti, la camicia rimboccata sopra il gomito, gli occhiali neri e i capelli rossi, quasi color oro, pettinati alla francescana. L'altro lusso che mi permetto volentieri è una breve visita al cimitero, mi si è attaccato addosso da quando ho assistito alla riesumazione delle ossa di mia madre. Essendo figlio unico quella mattina ho sostenuto in una solitudine spaventosa tutta la valanga dei ricordi che si affacciava. Mio padre era infermo e vecchio, non gli ho neppure detto che avrebbero scardinato la tomba della mamma, l'ho guardato negli occhi la mattina prima di uscire, e gli ho detto che quando sarei rientrato avremmo fatto un briscola-ventuno. Ha alzato la mano e sorriso come un santo che impartisce la benedizione senza sapere dove va il mondo. Il tempo aveva collassato, il giorno diventava tale solo perché non era necessario accendere la luce, e sulla strada del cimitero ho pianto, senza farmi rubare da nessuno il senso di quelle lacrime, pensando a quell'uomo che ormai non distingueva più la domenica dagli altri giorni. Però giocava a carte come un dio, pur essendo rincoglionito non riuscivo a spuntarla. Mio padre sbavava sulle carte, sulla tavola, arrotolava le pupille come se fosse sempre il suo ultimo respiro, gocciolava dal naso e si cacava addosso, ma a briscola-ventuno non lasciava neppure una partita.
Vidi lanciare le sue piccole ossa come se fossero delle patate. Alla bara dopo tutti quegli anni aveva ceduto il coperchio sotto il peso della terra, quindi era tutto mescolato e non suscitava particolari emozioni. Cominciai a perdere il controllo quando quelle ossa ormai impersonali si sparpagliarono sul prato verde, dal lato opposto il riporto di terra. Quella era mia madre, dio santo! Le calze di nailon ancora intatte rivestivano le ossa delle gambe, che mentre i necrofori le maneggiavano sembravano dondolare guidate da un filo trasparente. Tutti i capelli restavano attaccati al cranio, ormai erano diventati biondi perché colorati con i liquidi della sua decomposizione. Sì, era lei! In un primo momento non riuscivo ad associare quelle ossa a niente di definito, me la ricordavo muoversi scattante per la casa e darmi di nascosto a mio padre ancora da sposato dei soldi come faceva quando ero bambino. Che ci faccio con questi, mamma? Ti ci compri un libro, amore mio… No le sigarette però!… Ti fa male fumare… Spartaco. Me la ricordavo sempre nei suoi capelli bianchi che sfumavano, nei punti dove resistevano folti, quasi in un celeste immacolato. A un certo punto ho avuto la certezza che quelle ossa fossero tutto ciò che mi rimaneva di lei e allora ho fatto un passo indietro, volevo chiudere gli occhi ma restavano lì, sgranati su quella miseria. Poi mi sono messo a tremare e a piangere, e il necroforo mi ha offerto una sigaretta, che era l'unica cosa che poteva darmi. Cercavo di trattenerle in tutti i modi, stringendo i pugni, piantando i piedi nel terreno, ma avevo una sorta di singhiozzo convulso e gli occhi assillati dal bruciore. I necrofori affrettarono le operazioni perché avevano intuito che stavo male. Era meglio se riuscivo a sfogarmi con uno di quei pianti a scroscio nei quali cacci fuori tutto il malessere. Ma io non sono così, vacca bestia, la lupa!
Solo dopo la sua esumazione ho iniziato a frequentare il cimitero. Prima faticavo ad andarci anche il giorno della festa dei morti, i nonni e tutti gli altri parenti defunti prima di lei me li portavo in testa custodendo i ricordi della loro vita, non sentivo questa necessità come un obbligo per il rispetto delle convenzioni. Le prime volte che andavo al cimitero mi fermavo solo da mia madre, ormai murata in un piccolo ossarietto insignificante, insieme a tanti altri, e poi me ne uscivo con il cervello libero, senza pensare a niente e a nessuno, né ai morti, e tanto meno ai vivi, per capirci. A forza di andarci però ho iniziato a incuriosirmi dei nomi che stavano incisi sulle altre tombe, così ho finito per scoprire un mondo. Sul serio, sembrava che tutto il paese cominciasse a muoversi fuori dal tempo, a venirmi incontro, a incontrarmi bambino, ragazzo, uomo, padre, cinquantenne scoppiato. Strano quanti ricordi riesci a materializzare osservando un nome e una fotografia appiccicate sul freddo marmo. Immagini e gesti riaffiorano dalla palude, e dentro a quel recinto allora il tempo sembra sospendersi. Stranamente solo allora il paese iniziava a vivere, perché riuscivo ad ambientare i ricordi in scorci di paesaggio e situazioni simili, ma non identiche a quelle prigioniere della mia confusione mentale. Ecco perché ho cinquant'anni e non mi allarmo più di tanto se presto potrà capitare a me di stare a farsi ricordare in questo paesaggio piatto e uniforme. Mia moglie se parlo così mi fa una carezza e sorride, Elena invece mi guarda con due occhi grandi come il cielo e scaccia gli orrori di una possibile realtà. Vorrei tanto giocare con quello che mi detta il cuore, ma poi resto invischiato nella tela del ragno e l'agitazione sfonda degli equilibri così precari. Fumo molto, ma non bevo più da un pezzo, eppure è come se fossi ubriaco quando ricostruisco la giornata seguendo le traiettorie dei suoi occhi scuri che mi lanciano le note misteriose del desiderio. Sono così innamorato che a volte il suo volto mi appare al bar mentre ho il caffè davanti e chiedo irritato che mi servano. Sì, è come se a volte sentissi la necessità di stare solo, di fare a meno anche di lei fisicamente, di costruirmi i varchi verso la felicità solo grazie alle immagini che riesco a decodificare. Anche il sesso quando lo facciamo, poi rimbalza nell'amore, e se io le sto vicino mi sento svenire, e se lei chiude gli occhi quando la bacio io muoio e rinasco, muoio e rinasco… Pazzo cinquantenne!
Le visite al cimitero si sono intensificate dopo la morte di mio padre, un uomo con il quale da vivo non sono mai riuscito a fare una discussione compiuta, a chiarire le ombre sui sentimenti che ci legavano. Eppure da quando non c'è più guardo in faccia mio figlio e non capisco dove arriverà da grande. Mio padre è morto a novant'anni, ma non mi sarei mai aspettato di subire così in modo intenso la sua mancanza, soprattutto perché ci siamo sempre detti poco. Era come una vendetta la nostra incomprensione, e dopo la sua morte se mi voltavo indietro non riuscivo più a legare con il passato. Sono stati mesi di sbandamento, di visioni riflesse, di profondo senso di solitudine, quasi incolmabile. I primi due mesi dalla sua morte ho addirittura pensato di non essere mai stato bambino, quella parte di passato era stata cancellata. Poi anche il presente finiva per non avere senso, ero appeso all'albero degli impiccati, dondolavo e dondolavo, custodendo almeno un secolo di ricordi, dagli ultimi garibaldini conosciuti dal nonno, alle due guerre mondiali scoppiate nel novecento. Ma il bambino, nel rapporto con mio padre, era sparito di circolazione.
Oggi, quando vado al cimitero, porto alla luce questo mondo anche senza volerlo. Riaffiorano volti di uomini e donne, tutto quello che è stato e non sarà più… E poi ci sono i vivi, quella razza che non fa mai tesoro degli errori conduce per mano altre immagini, altri momenti ai quali mi sento fortemente legato. Una domenica mattina per esempio, proprio mentre stavo uscendo dal cimitero ho incrociato la madre di una mia amica d'infanzia che stava recandosi alla tomba del marito. L'ho salutata, sicché lei ha detto: "Spartaco, come si fa a non invecchiare, se cominci a mettere i capelli bianchi anche tu". Le ho chiesto notizie di sua figlia, di Marinella. "Marinella è sposata a Siena, con un banchiere. Ha due bambini, un maschio e una femmina, come te. Il maschio è il primo nato". Ho sorriso mentre Teresa mi abbracciava e baciava affettuosamente sulla guancia, poi mi sono allontanato senza neanche voltarmi indietro. Marinella è stata la mia prima fidanzata, quella che per prima mi ha baciato il pisello. Avevamo solo undici anni. Suo padre è morto appena costruita la nuova casa nella collina a ridosso del paese, che adesso ha il valore almeno di un miliardo e mezzo. Se la tirava su nei giorni di festa. Non ricordo quanti anni ci abbia lavorato, però è morto di tumore perché fumava ottanta sigarette al giorno, neanche un anno dopo esserci tornato ad abitare. Al suo funerale c'erano tutti i muratori del paese. Non mi ero voltato uscendo dal cimitero, ma avevo subito messo a fuoco nella mente la fisionomia di Marinella, era il giorno della prima comunione e mia madre l'aveva invitata al rinfresco, lei era apparsa in casa nostra con un vestitino bianco, così corto che le spuntavano le mutandine a fiori rosa. Appena entrata mi prese per una mano e cominciò a guardare imbarazzata tutti gli altri invitati. Io le stringevo la mano per farla sentire a suo agio. Forse prese appena un pasticcino, ma lo posò subito sulla tavola imbandita. La guardai negli occhi chiedendole se voleva uscire. Marinella… il giorno che avevo promesso di essere un soldato di Gesù mi baciò il pisello. Non avere paura Marinella, le avevo detto, io poi da grande ti sposo, faccio il muratore come tuo padre, ci costruiamo una casa di cento stanze. Baciami il pisello. Poi il suo gesto non risultò niente di trascendentale, avevo undici anni, ma era stato solo un bacio e una sensazione piacevole si diffuse al corpo lungo la spina dorsale, ma quando raggiunse il cervello rimase intrappolata nel lato oscuro che nessuno dice. Solo ora sta riemergendo, casualmente, dopo tanti anni.
Alzai per un attimo lo sguardo al cielo prima di montare in macchina, era di un grigio compatto e presagiva una nevicata. I cipressi che da bambino si allineavano sui lati della vecchia entrata, adesso erano stati assorbiti dai loculi costruiti su tre piani come delle abitazioni, se ne vedevano appena le punte, un po' ricurve e affaticate, malandate. Decisi di farmi un giro in collina con la macchina, era presto per tornare a casa, per mettermi a cucinare il pranzo alla famiglia. Un giro in macchina e la musica per compagnia, sull'altopiano che si affaccia sulle colline del Chianti coperte di vigne, e che nasconde il fondo valle frenetico, dove imperversano solitudini ancestrali, simili alla mia, che non hanno quasi più riscontro nella realtà.
Mi ero isolato, sembrava che da un momento all'altro Marinella dovesse tornare a baciarmi il pisello. La strada intanto cominciava a salire e affrontavo una curva dopo l'altra. Ero solo come un cane, non passava neanche una macchina. Viaggiavo a venti all'ora, con la musica… "No, non ho voglia del caffè, grazie tante, grazie no… Vieni qui, vicino a me"… Cantavo anch'io, pensando a Elena che nel fine settimana non si faceva mai sentire. Plof… Sparita nel suo mondo, nei panni da stirare, in quella casa che non avevo mai visitato, nella storia di tutti gli uomini e di tutte le donne che hanno un figlio e degli obblighi. Il volto di Elena ormai si sovrapponeva a quello di Marinella, ne trasferiva la purezza delle attese. Avevo salito molto con la macchina, la strada non accennava più a dei falsi pendii. Salivo, salivo decisamente, senza aumentare di velocità, ritmando con le dita la batteria sul manubrio. Alzai la radio fino al punto in cui i suoni cominciarono a distorcersi, proprio per essere un fatto unico con la musica e la natura che mi circondava. Improvvisamente il cruscotto della macchina fu macchiato da dei minuscoli fiocchi di neve, guardai verso l'alto, verso l'alito di Dio, e vidi gli le cime dei castagni già leggermente imbiancate. MI facevano un po' male i reni, non so spiegare perché, e poi un fastidioso e pungente dolore mi stava aggredendo alla bocca dello stomaco, come se percepissi internamente il bisogno di abbracciare qualcosa. Mano a mano che salivo i fiocchi si facevano più grandi e aumentavano di intensità. Ai bordi della strada la neve sembrava già consolidarsi in un sottile mantello bianco. Vedevo appena due strisce davanti a me, disegnate sul bianco della neve. Il silenzio si stava facendo impenetrabile, sembrava far rimbalzare indietro anche la musica, e i boschi ai lati della strada sembravano indifferenti a tutta questa mia voglia di movimento, proprio come le lapidi del cimitero che mi costringevo a far rivivere sui ricordi del passato. Così il mio pensiero esplodeva costruendo miliardi e miliardi di immagini, dove c'erano sempre gli occhi di lei che mi abbracciavano il corpo. Sul bianco costruivo mille figure, senza far rumore. Dio, che dolcezza! Si potrebbe morire, pensai. Cinquanta, venti… gli anni sono solo il peso di un numero… Come dicevo a mia moglie, tanto tempo fa: gli anni non contano, amore mio, è la felicità condensata in un momento, quello che dobbiamo cercare.
All'improvviso squillò il cellulare. Ebbi un sobbalzo perché temevo che fosse uno dei miei colleghi di lavoro, avevano preso l'abitudine di consultarmi anche alla domenica, il giorno di festa comandato da Dio. Feci ripetere lo squillo più volte prima di guardare il numero che appariva sul display, ma ormai l'incantesimo si era aperto in una voce.
- Sì?
- Spartaco, c'è la neve! … Andrea… Andrea è felicissimo… Vorrei averti qui con me.
- Sono circondato anch'io dalla neve, Elena… e ti stavo cercando, in tutto questo bianco. Avrei quasi voglia di fuggire… Subito, però.
- Che bello! Andrea è la prima volta che vede questo spettacolo.
La sua voce però si interruppe bruscamente, lasciando svanire la conversazione sul suono magico dei fiocchi di neve. Decisi di andare avanti, sperando di ritrovarmi in un punto dove fosse possibile distinguere di nuovo il segnale del cellulare. La macchina ora soffriva a salire calpestando lo strato di neve dove nessuno aveva ancora messo le ruote. Anche se era solo uno strato di cinque centimetri, già sembrava un tappeto. A volte slittavo appena, a volte sbandavo e come un forsennato tentavo di rimettermi in linea, di riprendere una guida rilassata. Ma andavo avanti, sotto quei fiocchi di neve che somigliavano sempre di più a farfalle, così bianchi che sembravano risplendere nei bagliori celesti, come i capelli di mia madre. Quattro, cinque donne… tutte mi venivano incontro in quella nevicata, a baciare l'avvenimento dei miei prossimi cinquant'anni, che avrei compiuto il ventisette luglio dell'anno duemilaquattro. Forse lassù era molto che nevicava, perché gli alberi già stavano piegandosi sotto il peso della neve. Avrei ancora potuto tornare indietro, facendo una manovra azzardata, ma il segnale sul cellulare sarebbe ricomparso solo se avessi scollinato. Io volevo provare ancora a chiamarla, a rinascere con l'ultima donna della mia vita. La sua voce ormai era diventata il punto dove il destino mi chiedeva di raggiungerlo. Quel paesaggio mi sembrò in un momento trasformarsi nei prati verdi del cimitero dove, più o meno, anche sotto il sole cocente di luglio, regnava la stessa pace. Sentivo come dei brividi, forse era solo il freddo, o forse stavo entrando nel mondo dei morti e delle emozioni senza tempo.
Appena raggiunsi la vetta riapparvero due tacche sul segnale di ricezione. Digitai il suo numero che ai primi tre tentativi diede occupato, poi il segnale indicò libero e restai in attesa di sentire la sua voce. Avevo parcheggiato in un punto strategico, dove al solito con il sole si vedeva tutta la valle nella sua vastità, ma in quel momento sembrava sommersa da un mare grigio dove andavano a disperdersi tutte quelle farfalle bianche. Io ero comunque felice, avrei potuto scappare in quel preciso momento e far perdere le mie tracce. Sarei andato al Polo Nord o nella foresta amazzonica, comunque in un posto dove la solitudine non mi sarebbe affatto pesata. Poi avrei spostato le lancette dell'orologio in avanti di mille anni, per ritrovarmi a planare con la mia navicella spaziale lo stesso sulla terra ricoperta… ricoperta di neve, che ammorbidisce i rumori.