Mario de Benedictis

è nato a Pescara nel 1965 e insegna nella scuola Primaria dal '92. Ha collaborato per oltre un decennio (dalle Olimpiadi di Seoul a quelle di Atene), come allenatore nel settore marcia, con la Nazionale Italiana di Atletica Leggera (FIDAL).

La scrittura però, è una passione più antica...

Il paradosso del competitore

Sport: if you want to build character, try something else.
B.C Ogilvie., T.A. Tukto

A volte mi capita di ricordare brani dei miei quattordici-quindici-sedici-anni che credevo definitivamente consegnati all'oblio di una dolorosissima rimozione. A volte - ma solo poche volte - riesco anche a sorridere di qualche episodio legato all'esperienza sportiva che feci in quegli anni: due ore e mezza senza mai fermarmi, in salita, in discesa e sul piano; sole, vento, pioggia e neve, da gennaio a dicembre. Mi allenava mio padre. Mi impediva di fermarmi quando avevo male ai tendini, quando mi veniva da piangere e c'erano ancora venti chilometri da fare. Mi sfotteva ricordandomi l'ultima sconfitta: ché quello non era l'evento che avvicinava l'eroe agli uomini, ma l'umiliazione al buon nome della famiglia. La sua. Ricordo di come cercavo d'inventarmi un modo per passare il tempo, quel tempo fatto di minuti che duravano ore, quando mi arrampicavo sui colli di Pescara, e di ore che fuggivano via come secondi, una volta a letto, la sera. Un modo era quello di dilatare il più possibile il riscaldamento - durava circa cinque chilometri - prima di tuffarmi in un'angosciante progressione cronometrica, nell'ennesima sfida quotidiana con l'avversario di turno (fratellino compreso, ahimè).

Nella stagione agonistica '79/'80 cercai di dividere la mia solitudine marciando con Domenico. Quattordicenne come me, andava un po' più piano di me. Mio padre non avrebbe mai allenato un atleta bravo quanto il sottoscritto. Pur essendo mio coetaneo Domenico sembrava molto più maturo. Per intenderci, io, filiforme e piccino, dimostravo sì e no dodici-tredici anni; lui almeno quattro di più. Alto già quasi un metro e settanta, era di corporatura robusta; gambe come due tronchi e torace impettito a conferirgli un aspetto quasi tracotante. Domenico, con i suoi capelli rossi, grossi come fili di rame e ondulati, portati sempre in ordine. In quel periodo l'allenamento consisteva nel ripetere venti volte un circuito asfaltato di un chilometro. Teatro dello stillicidio podistico era la pineta D'Avalos di Pescara. Io e Domenico eravamo amici. Ventidue ore al giorno. Partivamo, dopo aver allacciato nervosamente le scarpette (guai fermarsi durante la prova!); iniziava così il riscaldamento su quel maledetto circuito. Un riscaldamento per modo di dire. La gara prendeva il via dal secondo chilometro, in barba alla regola dei cinque chilometri. Lo sguardo fisso oltre l'orizzonte, i piedi rapidi a guadagnare quei pochi ma preziosissimi metri che davano a me la certezza di una superiorità atletica - molto spesso soltanto psicologica - e a lui, il placido Domenico, Mimmo per gli amici (anche quelli per ventidue ore su ventiquattro), il segnale di un tragico conto alla rovescia. Mi spiego meglio. Mio padre stabiliva le regole del gioco. Dovevo doppiare Mimmo. Dargli cioè un chilometro di distacco entro venti chilometri. L'anello di grigio bitume diventava allora il Circo Massimo. I nostri sguardi si cercavano ad ogni giro, gli occhi come quelli di camaleonti in canottiera e pantaloncini: nervosissimi e indipendenti per lasciare la testa indifferente e persa in direzione dell'infinito (guai dare all'avversario l'impressione di essere osservato, di contare per l'altro, qualcosa). Cercavamo riferimenti: "questo giro gli ho preso quaranta metri", "me ne ha dati quaranta, non mi doppierà mai", eccetera eccetera. E giorno dopo giorno il doppiaggio, da mio padre dato per scontato, chiedeva un tributo sempre più alto. Un'emorragia di zuccheri e sudore, impastata a imprecazioni luridissime - all'indirizzo dell'amico part time -, piccole cattiverie di cui ancora oggi mi pento sinceramente. E già. Perché se per me diventava sempre più difficile aggiungere qualcosa alla mia condizione atletica, per Mimmo i margini di miglioramento erano più ampi: aveva iniziato ad allenarsi da poco e, sebbene il suo talento non fosse grandissimo, tra noi la differenza, diciamo così, prestazionale, andava pian piano riducendosi. Mimmo ogni giorno era qualche metro più bravo. Così si consumò la sua vendetta bonsai, un capolavoro di filosofia eleatica. Quel giorno mi concesse circa cinquanta metri a giro, dandomi l'illusione di essere, come sempre, doppiato nelle ultimissime tornate. Ma così non fu. Mimmo era insolitamente tranquillo, non sbuffava come una locomotiva ingolfata. La sua azione appariva innaturalmente lineare, composta, terribilmente efficace. La sua testa, solitamente inclinata nel senso della curva, stava ben dritta, a cercare il traguardo (un chilometro più in là). Io non ne avevo quasi più e attendevo che l'amico part time andasse incontro al suo quotidiano destino di vittima sacrificale, immolata sull'ara dell'innocente sadismo di mio padre. A quattrocento metri circa dall'arrivo, quando avevo Mimmo a dieci passi da me, lo vidi partire. Al triplo della mia velocità. Praticamente irraggiungibile. E non valeva niente il fatto che io stavo concludendo e che lui aveva ancora un giro da compiere. Che gli avevo smollato, comunque, novecento e passa metri. Io avevo perso. Avevo perso per mio padre. Avevo perso per il passante che vide soltanto l'accelerazione di Mimmo. Su un circuito primo e secondo non esistono; e c'è un momento, eterno e immobile, in cui è il secondo a precedere il primo. Quella meravigliosa metafora esistenziale è uno dei doni più preziosi - soltanto oggi lo comprendo - avuti da un amico.

 

Dal barbiere

Il barbiere, oggi I Parrucchieri perché, parafrasando Pontiggia, in Italia le rivoluzioni sono solo nominali.
Li trovi negli ipermercati; almeno quindici föhn accesi e roteanti, poltrone girevoli dappertutto e lavandini bianchi come denti, a comporre un sorriso imprenditoriale inquietante. Si è belli e pronti per il consumo in meno di diciotto minuti; la tonnara è qualche metro più in là.

Una volta i barbieri suonavano mandolino e chitarra. Nelle pause, tra una "mascagna" e una pettinatura "all'Umberto", improvvisavano mazurche e fox trot, magari accompagnando la voce intonata di qualche avventore dal repertorio musicale apprezzato sia da anziani nostalgici che da giovanotti innamorati.

Quando ero bambino dal barbiere andavo con mio nonno. Gli sedevo di fianco; lui sulla poltrona "dei grandi", io su quella piccolina, a cavalcioni di un cavallo d'argento. Ricordo lo specchio enorme e l'odore di brillantina Linetti e lozioni Cepelic; i capelli , bianchi e neri, per terra come lana da cardare. Venivano raccolti con scopa e paletta e "nascosti" dietro un paravento prima dell'inizio di un nuovo taglio o di una barba.
Ero convinto che servissero a qualcosa di importante, tanta era la cura con cui venivano "accompagnati" dietro il paravento.
E poi c'era l'attesissimo momento del proibito.
Prima di uscire, dopo aver ricevuto il dovuto (c'era anche la mancia) - poco prima delle festività natalizie - il barbiere lasciava scivolare nella tasca del paltò di mio nonno l'oggetto del desiderio: il calendarietto profumato e scostumato. Una piccola fisarmonica, dodici pieghe per dodici mesi. Dodici erano le immagini di signorine velate e "svelate", culetti sorridenti, tettine o tettone; zinna vedo non vedo.
Fino all'idea di quella cosa scura - l'idea, solo l'idea - magnetico e misterioso peluche, tormento degli anni a venire.
Una volta a casa seguivo di nascosto le operazioni di occultamento: mio nonno riponeva il peccato in un tiretto con serratura, nel suo studio.
Un gioco troppo facile per le mie agili manine impertinenti.
Credo sia iniziato così, almeno per me, il dramma della visibilità; dramma della mia generazione, cresciuta a Maghella e Biancaneve, "specializzatasi" con Le Ore e Caballero, Pontello e Cicciolina, nei lunghi e silenziosi pomeriggi estivi.

Il mio barbiere in verità "sono" due.
Due simpaticissimi fratelli dal talento professionale netto e dal cuore enorme. Romolo e Aurelio, non stanno in nessun ipermercato e vanno al ritmo della parola. Ascoltano i clienti, li coccolano; raccontano storie incredibili e portano via, assieme a qualche ciocca, la malinconia del giorno che finisce.
Non suonano il mandolino né la chitarra; lo spettacolo che si replica quotidianamente nel loro salone è la vita; questa. Si recita a soggetto, sempre. E le loro poltrone somigliano sempre più a chaise-longue freudiane.

§ § §

Arrivo un venerdì mattina. Saluto con un abbraccio Romolo e Aurelio, non ci si vede da un po'; scambiamo qualche battuta d'approccio.
Aurelio è alle prese con la tinta dei capelli di una giovane e bionda cliente.
Romolo, dopo aver condiviso con me un caffè affettuoso (fa parte del rituale che precede il taglio), mi indica la poltrona dello shampoo.
Mi accomodo.
Il taglio, a capelli rigorosamente bagnati, inizia cinque minuti più tardi. Sulla poltrona davanti allo specchio. Lo specchio che mi permette di vedere chi entra e chi esce. Senza pericolose torsioni.
La porta si apre appena dopo il taglio d'inizio di Romolo. Entrano una mamma sulla quarantina, sua figlia di sei-sette anni e un refolo di vento gelido.
Romolo e Aurelio la salutano con affetto; pare si conoscano da tempo. Anche la ragazza della tinta la saluta in modo confidenziale.
La signora ha i capelli rosso super, lunghi e lisci. Un viso che mi sembra irregolare, segnato da una bocca che vorrebbe farsi apprezzare per un talento di cui non dubito affatto. Il trucco lo sottolinea. Le mani, ingioiellate e curate a dovere, parlano delle sue inutili e leziose giornate.
Cammina nervosamente.
La signora è incazzata e vuole vuotare il sacco.

"Bisognerebbe fondare un club di divorziati" esordisce d'un fiato.
"Mi iscrivo subito" fa Romolo con sorriso furbetto e marpione.
"Ma se sei sposato!" le risponde prontamente la signora.
"Però se ci sei tu, ne vale la pena".

Il bottone è attaccato, Romolo si sta caricando. Aurelio, in attesa, arrotola un paio di ciocche. La ragazza bionda sorride in silenzio.
La bambina, sul divano dell'ingresso, gioca con un cellulare da trecentocinquanta euro.
Io sprofondo nella poltrona scivolando sulla schiena.
La mantellina che ho addosso quasi mi strangola.

"Divorziata?" le fa Romolo.
"Due volte".
"Dai... ma allora ti piace".
Il marpione rompe gli indugi.
"No, è che quello stronzo mi ha fregata due volte".
Inizia lo sfogo.
"Due volte con lo stesso marito è masochismo. A quel punto ti conveniva tenerlo".
"M'ha messo le corna lo stronzo. Devo dire che ha sempre avuto un debole per le femmine...".
"Insomma te l'ha fatt' capa'" la stoppa Romolo con la velocità di un cobra.
"Ma va'. Quando l'ho sposato era uno sfigato. Faceva schifo, non si poteva guardare".
"Però era già commercialista..." s'insinua malizioso Romolo.
"Beh... comunque poi è migliorato. Com'è mio marito mo'?" fa la signora alla ragazza della tinta.
"Bbbono, se mmi capitess' nin mi li facess' scappa'. Nu bell' poll' da spenna'" esordisce sguaiatamente la tinta.

La bambina nel frattempo ha già telefonato tre volte alla madre e ride divertita.

"Mo' lo stronzo le ha pure comprato il cellulare. Per farmi dispetto. Così la può sentire quando vuole. Co 'na donna delle pulizie m'ha tradito, brutta come la fame e co' due figli".
Dallo "sprofondo" della mia poltrona censuro un pensiero che stava per farsi suono: se non sa scopare una donna delle pulizie...
Il commercialista inizia ad essermi simpatico.

"Lo sapevo che c'aveva un'altra, a me voleva frega'? Un giorno l'ho seguito, andava al lavoro; dopo cena. L'ho tanato in flagrante, l'ho chiamato sul cellulare, ha negato l'evidenza, ha ammesso l'evidenza... l'ho smerdato quello stronzo. Oggi ha un appartamento per conto suo. Non vive con lei. La separazione l'ha chiesta lui e vuole darmi una fesseria per gli alimenti. Mi so' presentat' dall'avvucat' 'ngh la minigonn' di pelle... "freghete chi moje che tieni" gli avrà detto quello. Mo' voglio milleduecento euro per me e cinquecento per lei (indica la figlia); al mese. È arrivato il momento di fare la signora. Se avessi voluto tradirlo... ma da oggi tutta vita" gongola guardando la figlia che nel frattempo continua a rompere le palle col cellulare.

Romolo tiene botta egregiamente. Aurelio di tanto in tanto interviene, con arguzia consumata. La bionda tinta fa il tifo per la signora, con apprezzamenti da camionista in autogrill.
Io penso ai "miei" centosettantadue alunni di sei, sette, otto, nove, dieci, undici anni. Alle ragioni dei loro atteggiamenti, comportamenti, in classe; delle loro evidenti nevrosi. Penso alle devastazioni familiari che non conosco. Penso alla bambina col cellulare che rompe le palle, dietro di me.
Perciò intervengo.
Invito la rossa signora a non fare commenti di quella "caratura" in presenza della bambina; a non massacrare la figura del padre di sua figlia. Parlo di costruzione dell'identità, di modelli genitoriali, di valori; mi avvito su Freud e Piaget. Tiro in ballo Bruner. Per ultimo, sfiancato dell'espressione assolutamente ebete della donna, faccio appello al buon senso e alla carità di Dio.

La bambina risponde per lei ricordando di quando, insieme alla figlia della donna delle pulizie, sfregiò l'auto del padre perché questi baciava l'amante in loro presenza.
La madre approva sguaiatamente. Così come la bionda, tinta, ormai pronta per uscire dal salone; sta per sposarsi; farà tesoro dei consigli della rossa amica. Ne sono sicuro.
Salutano rumorosamente con il sottofondo polifonico del cellulare della bimba scassa palle, ed escono tutte e tre. Guadagneranno - è lì ad un passo - una Mercedes Classe A, Elegance.
La porta si chiude, automaticamente, alle loro spalle.
Un refolo di vento gelido torna a salutarci.