Mauro Garofalo

trentanni, abito vicino roma.
"alternative" è come nascere da altro, come da derive.

Cinque per dieci

Inizio da questo detrito. Questo ricordo breve che ti ha portato qui mentre aspettavo il sonno, prima che mi scoprisse, ladro e furtivo, forse indeciso.
Non ti ho vista oggi.
Tu eri stanca. Il lavoro ti annoia, mi hai detto. E confondo i soggetti, mistifico le occasioni.
Sembra quasi ci vergogniamo, ora.
Ma, del resto, non si può fare altrimenti.
Ti avevo promesso che ti avrei raccontata un giorno.
Che sarei arrivato alla "parola".
Questo è un tentativo, allora... Perciò inizio da te.
Inizio da dove terminano le tue parole: pressoché da subito, allora.
Inizio dalle tue sillabe, ritrose e lontane, quasi indifferenti.
Inizio dai momenti di passaggio, e dai saluti anticipati, di fretta, al passo col tempo.
Mentre io annegavo di parole. Che tacevo. Solo occhi che ti seguivano.
La prima volta in cui parlammo non lo ricordo. Il mio è più un'idea dispiegata, un alternarsi presente e continuo di orari, carezze, pietre, e acqua, e fiori rifiutati dall'esclusività dei nostri vuoti misurati.
Ridesti quando ti illustrai la mia teoria sul vuoto apparente dei tuoi silenzi.
Del peso verticale di quei silenzi. La loro compressa identità. Dello scarto, del cono d'ombra di quelle parole che racchiudevano la tua fragilità, il cedere alle paure.
Il tuo blocco, la tua ombra. Lui.
Lui che non c'era più.
Lui che era stato. Ed era fuggito poi. Vigliacco. A lasciarti sola, per sempre.
Perché quando si diventa una stella lontana, quando si scompare, vigliacco e prematuro, non si torna indietro. Neanche per amore. Semplicemente ci si spegne.
E così fa il mondo per chi rimane.
Tu. Ti eri spenta. Avevi preferito così. Lui ti aveva lasciata mentre il cielo si sporcava appena d'autunno.
Dopodiché eri rimasta sola.
Non ne avevi fatto una questione privata. Semplicemente, il dolore è un frutto egoistico.
Cosa vuoi che ne sappiano gli altri di quello che c'è dietro un nome? Dentro le poche lettere aggrappate ormai a un universo estinto?
In uno di quei pomeriggi mi dicesti che la vita ti scivolava addosso, la tua pelle neutra, al contatto, inaderiva, respingeva.
Impermeabile. Priva della malinconia necessaria a sentire. Fredda. Neutra al contatto, sostenevi, ti interessava appena.
Io ti guardavo le mani, invece.
Mentre sfilavi le idee dal movimento dell'aria, quel respiro attorno a te che cercavo io, invece, per ripararmi dalle mie interpretazioni, inefficacemente.
Quel pomeriggio, o forse la somma di questi, e chissà quanti altri giorni sovrappongo, vedemmo le strade strette, e i fiori appesi alle case normali, quotidiani manifesti senza pretese al diritto di un colore appena. Almeno quello.
La penombra favoriva il pensiero e riuscimmo a fare presto da sederci, piano, a scaldarci le mani col fiato tiepido di umidità.
Ci guardammo molto quel giorno, e io seppi in quel preciso istante che non ci saremmo più trovati così.
Un istante scomparso.
Un'irrazionalità esclusiva. E forse frutto di infondata irragionevolezza.
Ti ho rivista da poco, poi.
Dopo la mia malattia, e il tuo vivere imprevedibile, insoddisfatto.
Hai tagliato un poco i capelli, che ti scendono ora tra gli orecchi e il collo, appena sopra la linea che giunge ai muscoli delle spalle, delle tue spalle magre da nuoto e corpo abituato all'acqua del mare.
Parliamo sempre un po'. Quando non sei troppo stanca, e allora non mi aspetti.
Porti gli occhiali ora, ti fanno sembrare più vecchia - scusa -, meno attraente forse ma più segnata, e vera allora, un'ombra sulla pelle, il velo delle parole che ti ostini a tenere. Proteggendole fra i seni, e le labbra, e le dita imperfette. Di vergogna antica, evidente dal rossore che appare sul tuo viso, ancora oggi che il tempo s'è allontanato dagli scherni e le parole d'offesa.
Il tuo disaccordo. Lo tieni per te.
Lontano dal fruttuoso sfruttamento degli altri, di cui ti fai oggetto complice e sbadato. Indifferente.
Mi hai detto che ancora ti doni senza risparmiare. Né forze né denaro, quel poco di risparmi per i tuoi concreti lati comprensibilmente umani.
Ma amare è donare.
È solo questo. L'ho sentito dire.
Tu hai sorriso. Poi tanto è arrivata la mia fermata, e lo sapevi che non ti potevo ancora più invadere con la mia insistenza puerile.

Oggi non ti ho vista.
Chissà cosa stai facendo, adesso.
Mentre anch'io amo la vita, e dono, e penso al domani.
Ti avevo detto che un giorno avrei voluto dire di te. Preferisco questo però. Perdonami.
Ma le parole servono a me. Per non perdere il ricordo. E tenere (per me) quel vuoto riflettuto che comincia col volto di te e finisce dentro il suono delle tue mani. Nell'aria di quei pomeriggi.
Accanto ai tuoi sguardi e ai tuoi sorrisi, e alle lacrime di dentro, che non ho confessato.
Solo adesso.
Incomprensibile gesto d'oltraggio e perdòno.