Dario Becci

è nato il 14.04.1974 a Napoli. Laureato in “Tecnica Pubblicitaria” presso l’università per stranieri di Perugia, vive attualmente a Mannheim, in Germania, dove insegna italiano, lessico operistico e fonetica contrastiva presso l’accademia musicale della stessa città. È autore di due sillogi poetiche, Il Periodo Bianco e mitigata mole, di un romanzo, libro per poveri idioti, e di alcuni racconti. Si occupa da anni di commercio equo.

E la barca tornò sola.

Con la bocca piena e le mascelle trituranti, l'uomo che mi sedeva di fianco prese improvvisamente a rovesciarmi addosso i suoi pensieri, ma io non avevo minimamente voglia di ascoltare le solite baggianate buttate lí tra un boccale e un altro, cosí, tanto per cercare di alleviare la frustrazione.
Era la solita cena di lavoro, il mio compito solo quello di tenere compagnia agli ospiti appena arrivati: offrire loro la gaia scintilla ed evitare che il fuoco del tripudio si spegnesse. Null'altro. La predisposizione alla crapula l'avrebbero portata loro, e alla fine a me sarebbe toccato solo far finta di prestare un orecchio ai discorsi viziati dall'euforia e ancor piú dall'alcol.
Difficilmente potrebbe immaginare, chi non l'abbia mai provato, quanto faccia soffrire l'essere coscienti di tutto quello che verrà detto in una tale situazione, potendone stabilire in anticipo i tempi e la progressione della pesantezza delle battute, e tuttavia non poter evitare quanto accadrà. È come essere costretti a rivedere piú volte un brutto film. Alla fine si corre il rischio di diventare violenti e di non riuscire piú a trattenersi. Anche l'indole piú paziente e remissiva si sente trascinare da un vasto senso di ribellione.
A me era toccata la particolare sventura di avere come vicino un signore piuttosto loquace, grezzo nei modi e nei lineamenti: il naso solcato da fitte venuzze violacee tradiva la propensione al bere, le guance paffute e ingrassate di sudore quella al mangiare smodato, mentre le mani, dal palmo largo e l'unghia lunga al mignolo, sudicia come le altre, esageravano nel mostrare un potere fisico, non potendo competere con l'eleganza e non volendo misurarsi con la modestia. Ancora piú sfortunato mi sentii quando mi accorsi che gli altri commensali seduti accanto a noi non avrebbero opposto nessuna resistenza all'impeto del loro compagno; anzi, pareva che questi gli avessero dato tacitamente il mandato di sproloquiare, e il furbacchione, avendolo intuito ancor prima di sedersi, s'era probabilmente cercato il pulpito migliore dal quale tenere le sue orazioni. E ciò che piú mi sconvolgeva era la sensazione ormai certa che costui volesse fare presa proprio su di me.
- Bella cittadina, questa, di Manneim. -
Inutile ribattergli che il dittongo "ei" in tedesco si pronuncia "ai", e che il nome corretto era "Mannheim" con l'acca aspirata.
- Sí, - gli risposi in tono rassegnato, - non proprio turistica come Heidelberg… - e pronunciai questo nome accanendomi sfacciatamente sull'acca.
Facendo finta di non accorgersene continuò:
- Eh, certo che anche da noi, insomma, mica si scherza. Con tutti i bei posti che abbiamo, in Italia! -
Stavo per chiedergli perché allora non se ne fosse rimasto a casa sua, ma non me ne dette il tempo. Con voce di sopraffazione, tendente al monologo:
- Da noi c'è tutto: il mare, la montagna, le colline… -
Nemmeno in Germania mancano questi elementi naturali, pensai.
- …e le belle donne! - concluse, come ad indicare che in fondo non desiderava altro che arrivare a quest'argomento, e che tutta l'introduzione gli era servita solo da pretesto. - Qui non ne abbiamo viste ancora di carine. Ma ce ne sono? -
Tentai allora d'incastrarlo:
- E come no? E poi agli italiani piacciono le bionde, no? Qui ne trovate quante ne volete. - Avrei voluto aggiungere: - Dipende se loro vi vogliono, però. - Mi limitai a sorridere.
Intanto cominciai a capire dove voleva andare a parare, con tutti questi bei preamboli, l'omaccione. Potevo prevedere ormai l'inevitabile richiesta, ma venni salvato dall'insalata, che i camerieri con grande concitazione ci stavano servendo per evitare che l'appetito degli avventori si ribellasse contro di loro. Avreste dovuto vedere lo sguardo dei commensali che seguivano quei modesti piatti in cerca di una plausibile spiegazione: le gote cadenti non ritenevano possibile l'ipotesi dello scherzo né le bocche ristrette potevano accettare una simile umiliazione.
- Che fanno, ci portano l'insalata per primo? - fu l'unico commento verbale del mio vicino, che ormai non vedeva piú né i bei paesaggi né le forme generose delle sue connazionali.
Capii in un momento che evitare lo sviluppo tragico della situazione sarebbe dipeso da quello che avrei detto per giustificare un fenomeno tanto strano, quanto evidentemente inspiegabile: che a pance mortificate dalla fame ci si presentasse con scialbe foglie di lattuga.
- E solo per prepararvi lo stomaco a quello che vi verrà portato tra poco. - rassicurai tutti ufficialmente, e in quel momento mi sentii piú potente di un ambasciatore che si fa intermediario tra due Paesi circa usi e costumi assai diversi.
E per rendere piú credibile la giustificazione che avevo apportato, introdussi le pietanze che sarebbero giunte di lí a poco. Studiarsi il menu fisso di un ristorante è il primo dovere di chi ha a che fare con cittadini del Paese dove in assoluto si mangia meglio al mondo.
- Stinco di maiale tenerissimo con crosta croccante, crauti e patate al forno, innaffiati da vera birra bavarese. -
Non so dire se queste due frasi recitate come un orazione avessero procurato l'effetto di stemperare gli animi. Fatto sta che - forse perché che fosse vero o meno quello che avevo annunciato non era in loro potere cambiare il tipo delle pietanze - già qualcuno aveva tolto lo sguardo e mutato argomento, tanto che minacciava di ritornare al solito tema principe tra gli uomini, quelli veri: le femmine!
- E dimmi… - piegò il collo taurino verso di me il vicino. Notavo che si stava scaldando. - Ma come mai c'è cosí poca gente in giro? E cosí poche belle ragazze? - Lanciò un'occhiata complice agli amici seduti di fronte, che pure si stavano infocando. Questi risero come a comando. Poi ritornò sulla sua preda. - Un mio amico che è già stato da queste parti mi ha detto che c'è una certa strada… un po' particolare… magari dopo cena ci accompagni… magari conosci altri locali… -
Feci lo gnorri.
- Sí, di locali ce ne sono tanti. Basta andare in centro e trovate tutto quello che volete, anche i bar che rimangono aperti fino a notte fonda. -
Ero certo che ormai questo termine aveva espanso la rosa delle sue accezioni anche per cotal signorotti, a cui brillavano gli occhi ogniqualvolta lo pronunciavano. Il codice comune ci permetteva ora di intenderci perfettamente, e nessuno di loro si aspettava di trovarci cornetti e cappuccini in questi bar. D'altronde bastava aver dato una volta una scorsa alle vetrine per rendersi conto di quali articoli venissero smerciati all'interno.
Non mi aspettavo però una domanda cosí diretta. L'ardimentoso non aveva piú voglia di andare tanto per il sottile e scostò l'ultimo velo di pudore dalla bocca:
- Senti un po', tu la conosci la Lupinenstraße? -
Pronunciò il nome della via in modo perfetto. Si capiva che si era esercitato a lungo per farsi afferrare al volo dal tassista, ed evitare quindi che il tassametro infierisse troppo sulle risorse economiche destinate a far gioire piuttosto il basso ventre che il sedere sul sedile a spasso per la città. Me lo immaginavo davanti allo specchio mentre domava la zazzera a ripetere "Lupiniens-trass, Lupinenschtrass, Lupinenstraße…"
- Tira piú un pelo de mona che un caro de bòi. - sentenziò l'omino magro di fronte a me con voce baritonale e marcato accento veneto, esplicitando il motivo che avrebbe dovuto rendere tale via piuttosto conosciuta, e per evitare di farmi "ciapare cassi par fis-ci" .
- Sí, ne ho sentito parlare, ma non mi pare che ci sia molto d'interessante, a quanto mi hanno detto. -
- Insoma zóvane, è là indove ghe son le zanbràche . - sbottò lo smilzo fuor di metafora.
- Sto omo xe un porselo! Prima se ciapa le pastilie e po' il vegne il morbin de montare. - commentò il grosso accompagnando le parole con il lancio del tovagliolo, ma si capiva bene che scherzava. Ormai gigioneggiavano.
- Sai, - si rivolse quindi a me con fare chiarificatore - questo signore si è fatto prescrivere dal medico il Viagra, e stasera lo ha preso perché ha cattive intenzioni. Non gli starei vicino nemmeno da uomo, figuriamoci da donna, poareta ela, che va con lui. Vero Michele, che nemmeno tua moglie te porta passiensa? -
- Mia son fora de testa, mi, che provo il Viagra con mia mojére? Po' mi domanda: cossa xe tuto sto cambiamento? Prima no l'era bon da gnente gnanca se il mettei vanti la piú bela mona de Venessia, e 'desso el pare de marmo! Xe mèjo una baldraca, che almeno no se abitua male, parché se un zórno te finise l'ecitassion, cossa il conti a la tua fémena ch'el ghe ga ciapà el lecheto? -
Scoppiò una risata grassa, e perfino io che masticavo poco il dialetto mi misi a ridere di gusto. Un tramestio dietro di noi ci avvertiva che adesso veniva servito il tanto sospirato stinco, e sperai che a bocca piena faticassero di piú a cavar fuori discorsi.
Fui io però che, stupendomene, non riuscii a trattenermi, e mi rivolsi a Michele:
- Ma lei ha mai provato con altri mezzi? Si racconta sempre che il peperoncino sia un rimedio efficacissimo contro l'impotenza, c'è chi dice anche la cioccolata… -
- …e le òstreghe, el sènsero, el sèano, i spàrasi, el tartufo bianco, la mandragola, la polenta, la vanilia, el vin, perdio, tuto mi ga provà, ma con quele pilole là no gh'è confronto! Drito e longo come un spàraso cressú a l'onbra. -
Il vino! Chissà quanto ne ingollava costui. Sfido io che non gli faceva l'effetto desiderato. Già Shakespeare raccomandava di assumerlo in piccole dosi, altrimenti, diceva, "provoca il desiderio, ma rende l'atto impossibile". Certo è che se davvero il Viagra dà i risultati promessi, oggidí qualunque uomo può levarsi l'uzzolo di andar per femmine, correndo il rischio di restare al verde, visto i prezzi che tirano, ma di certo non in bianco.
- Però, - concluse - se no gh'è la voja, gnanca le pilolete blu fano miracoli. Xe come quel disgrassià che vuole vínsare al loto ma no conpra mai el bilieto. Jútate che Dio te juta! -
Il tavolo era tutto un traballio e le pance si dimenavano in su e in giú dall'allegria.
Questo Michele, che tanto s'affaticava a decantare il medicinale portentoso, mi ricordava Dulcamara, il furbo imbonitore de "L'elisir d'amore". Avrebbe fatto affari d'oro con un prodotto del genere, e non sarebbe stato costretto ad andar di paese in paese a spacciare boccette dal contenuto molto dubbio che chiaramente non apportavano i benefici promessi, anzi lo costringevano a lasciare le piazze entro breve, onde evitare che i clienti scontenti pretendessero di essere risarciti con le buone e ancor piú di sovente con le cattive. Se il dottor Dulcamara, "che ogni virtú preclara", avesse disposto di un tale antidoto contro l'impotenza, non gli sarebbe stato necessario millantare la guarigione di scrofole e rachitidi né la certezza d'un amore corrisposto, perché se l'uomo può ammirare se stesso tutto intero, accade spesso che sia meno propenso all'affetto che al sollazzo.
- Allora è deciso. Piú tardi ci accompagni alla Lupinenstraße. -
Il mio vicino non era affatto intenzionato ad abbandonare il suo tema preferito. Io non sapevo se prendere tale invito come un onore, segno di accettazione nel gruppo, o piuttosto come dileggio: magari volevano divertirsi a mie spese. In nessuno dei due casi avrei comunque potuto accettare, per due buone ragioni: la mia veste ufficiale di rappresentante della ditta grazie alla quale i signori ospiti mangiavano stasera a sbafo, e le poche ore di riposo che mi spettavano fino all'indomani, quando li avrei portati a spasso per lo stabilimento che gli era concesso visitare. V'era anche un terzo motivo, l'unico in fondo importante: mi era già di peso la loro compagnia per il tempo che spendevo con loro, ma che mi veniva almeno retribuito, e non ero disposto a fare del volontariato per mettere in pratica la loro filosofia spicciola e a condurli in un posto come tanti se ne trovano anche nelle zone da cui poche ore prima erano partiti.
Feci valere le mie ragioni, tranne l'ultima, ovviamente.
- Levatemi una curiosità, - aggiunsi - ma i bordelli non esistono dalle vostre parti? -
- Certo che ghe son, ma là te riconóssano anca i muri! - esclamò Michele, come enunciando una verità assoluta. E in effetti lo era. - Nevero - rivolgendosi al mio vicino - che la zente ormai te ciama Don Giovanni, e no parché xe davero el to nome, né parché xe un omo de cesa o un sior? Sto qua no se ne lassa scanpare una, e il belo xe che xe ancora sposà. Per tute le volte che ga fà beco la mojére, o ela xe una santa, o ga un bon intaresse. -
- Io ho una tattica particolare. - spiegò il grosso allargando le braccia e mostrando i denti con falsa modestia. Il mio metodo è semplicissimo, tanto semplice che mia moglie ci casca sempre: ogni volta che mi scopre fare un sorriso o l'occhiolino a qualche ragazza per strada e mi fa scenate di gelosia io le dico: " Ci sono andato a letto ieri sera. " oppure: " Abbiamo una relazione da un mese. " La verità è tanto lampante che lei si arrabbia perché pensa che la prenda in giro e non mi crede. Funziona sempre. Le metto ogni volta la verità sotto gli occhi e faccio come mi pare. Le tengo anche il conto delle mie conquiste. Piú tutto è vero e piú sembra incredibile. -
D'un tratto mi sentii Leporello subissato dalle pretese del seduttore, ostinato a tenere aggiornato il registro della sua concupiscenza:

In Italia seicento e quaranta;
In Almagna duecento e trentuna;
Cento in Francia, in Turchia novantuna;
Ma a Venessia son già mille e tre.

- Secondo me tua moglie mangia la foglia. - intervenne improvvisamente il signore con la barbetta seduto accanto a Michele, che fino ad ora se n'era stato buono buono nel suo cantuccio come se l'argomento non lo riguardasse affatto. - Tua moglie fa finta di crederti, cosí ha il tempo anche lei d'incontrare i suoi amanti. -
- Sta' zitto, Paolino, - protestò il grosso benevolmente, come chi è in potere di annientare una persona ma ha già deciso per questa volta di risparmiarla - che solo perché non riesci a contentare tua moglie, pensi che tutte si cercano il moroso? -
- Mia moglie è la donna piú fedele del mondo! - protestò senza troppa convinzione Paolino.
- Vorrei anche vedere, l'hai legata in casa! Poareta ela, neanche la domenica in chiesa la lasci un minuto chiacchierare da sola con un'amica, per la fifa che hai che parlino di uomini. -
Detto ciò, il grosso riprese subito a mangiare e a sciacquarsi la gola. L'argomento era chiuso. Il cibo non gli interessava piú, e il semifreddo che gli avevano servito se lo stava divorando Michele, che aveva assoluta necessità di non deflagrare in anticipo. Il grosso uscí con una sigaretta spenta a penzoloni tra le labbra.

L'ultimo sportello si chiuse e il taxi filò via lungo lo stradone, trascinato dal bianco fascio dei fari. In quel momento cominciarono a crepitare grosse gocce d'acqua seguite da un'immancabile pioggia di bestemmie. Tre sagome proiettate su un'alta parete di mattoni rossi messi su alla men peggio, formante nel mezzo un interstizio, sembravano tre statuine di Giacometti che si ingrassavano sempre piú, fino quasi a coincidere, sotto la luce giallastra di uno squallido lampioncino, con la carne viva, i peli e i vestiti dei loro padroni. Le tre ombre rimasero immobili davanti all'ingresso semibuio della nuova via, poi ne vennero risucchiate.

Tre paia di occhi sbucarono all'estremità della strada, scandagli stereoscopici delle voluttuose profondità simmetriche.
Il Paese dei Balocchi.
Paolino furono costretti ad acchiapparlo per il collo: si stava già scagliando in uno qualsiasi di quegli antri - E speta un àtimo! Se ti prude, gratate. Non lo vedi quanto bendidio? -
Toc toc, batté leggermente con le nocche una finta bionda di dubbia avvenenza contro la vetrina dietro la quale si affannava a mettere in mostra gli intimi di biancheria gridellini. Si contorceva e spalancava la bocca, la poverina, sembrava che soffrisse. In disparte, accostato alla porta adiacente alla gabbia, un bell'esemplare giovane di gorilla vigilava i frequentatori.
- Chi le salva la vita? - chiese il playboy sbottando in una risata che sembrava non avere piú fine.
Dall'altro lato le fece eco una mulatta tutta svestita di bianco che, non potendo far udire la sua voce, slinguava passionalmente il vetro.
- Mi me vo far latare da la mora. Mama, vegno! - furono le ultime parole di Michele gridate in corsa. Sparí su per le scalette che portavano ad una stanzetta seminascosta al primo piano.
Una frotta di sirene si uní subito al canto, travestite nei modi piú disparati:

V'han fra queste contadine,
Cameriere, cittadine,
V'han contesse, baronesse,
Marchesine, principesse.
E v'han donne d'ogni grado,
D'ogni forma, d'ogni età.
[…] È la grande maestosa,
La piccina e ognor vezzosa.

Per adescare i due naviganti, che - per loro conto non avevano né le orecchie turate di cera né si erano fatti legare ad un palo - non ci volle molto. Bastò che la Fata Turchina si passasse la lingua sulle labbra e scoprisse una mammella, perché l'ultimo cattivo pensiero di Paolino per quella serata svanisse, e cioè quello che sua moglie stesse approfittando della sua assenza per concedersi anche lei disinibiti passatempi.
Ci pensò l'amico a ricordarglielo, quando vedendolo avvicinarsi alle lucette al neon lo congedò sghignazzando:
- Pensaci bene Paolino prima di buttar via le palanche, ché con queste qui non è come con to mugere! A queste non bastano i tre schei che sei alto . -
- Ma va' in malora, va'! - furono le tenere parole di commiato di Paolino accompagnate dal fin troppo esplicito gesto.
L'uomo, rimasto solo, si dette un ultimo sguardo intorno: la donna piú vicina era piuttosto in su con gli anni e sedeva a gambe divaricate su di una grossa poltrona stile Luigi XVI. La guardò disgustato: - la ga le scarpíe! - proferí a mezza voce.
Si voltò cercando il meglio, quella piú generosa, la piú vogliosa, la tetona, e incrociò lo sguardo di un pappone. Doveva risolversi, altrimenti sarebbe stato preso presto a calci nel preterito. Ah, che crudeltà! Tutte avrebbe volute possederle! Si sentiva soffocare.
Passò davanti all'ultima vetrina e gli venne lo sconforto. Cambiò marciapiede e ritornò indietro, ma gli si spezzava il cuore ogni volta che si lasciava alle spalle un'offerta. Cosí sembrava un matto: andava e veniva, dopo pochi metri si girava di scatto e faceva due passi indietro, poi cambiava lato, con gli occhi che guardavano in tutte le direzioni, soffermandosi ora sulla coscia ora sulle poppe, sulla bocca e sul grembo. Quando intercettava il ruffiano, gli implorava per carità, di avere pazienza, che era la prima volta che veniva lí e che un'occasione del genere gli capitava solo una volta all'anno, non gli venisse la voglia di venire ai ferri corti, che se fosse dipeso da lui sarebbe rimasto lí per sempre, ah, amore malvagio, ardore spietato!
Il magnaccia lo squadrò un'ultima volta, si accese comodamente una sigaretta e tirò un paio di lente boccate, quindi infilò una mano nella tasca della giacca e ne trasse un coltello, mentre con l'altra raccolse un pezzetto di legno da terra e cominciò ad intagliarlo svogliatamente, senza distogliere lo sguardo dal cliente e buttando raramente fuori il fumo che gli entrava negli occhi, e forse per questo lo rendeva ancora piú indifferente.


Luglio - settembre 2006

 

 

Compromesso

Guglielmo Soriani giurò a se stesso di diventare scrittore. Si provò a immaginare temi per possibili argomentazioni, ma si accorse che non gli venivano idee, e allora, credendo che fosse un problema di concentrazione, promise di dedicare tutto il suo tempo a questa recente infatuazione.

Buttando giù qualche riga però, gli venne in mente che non avrebbe potuto andare avanti per molto, perché se è vero che di tempo ne aveva, gli mancava il pane, e senza pane, si sa, non si vive di sola acqua. E poi anche l’acqua costa. Quindi ebbe un’idea: avrebbe cercato un lavoro, in modo tale da permettersi il minimo necessario per vivere. Primum vivere, deinde philosophari.

Superò fortunatamente un colloquio, e d’ora in avanti avrebbe aiutato ospiti illustri a sentirsi a loro agio durante la visita in uno stabilimento in cui si producevano macchine straordinarie, dotate della tecnologia piú avanzata, l’inimmaginabile a veduta ravvicinata. Mirate gente, mirate. Della sua passione letteraria si sarebbe occupato nei giorni festivi e prefestivi.

- Beh, - rifletté, - problema risolto. Bisogna pur dunque accettare compromessi nella vita. Vorrà dire che nelle giornate libere scriverò di piú, per recuperare il tempo perduto. -

Cosí purtroppo non avvenne, perché quel solo lavoro non gli bastava a far fronte alle minime spese.

Dovette cercarsi allora un secondo impiego.

- Tanto peggio. Se anche sarò libero soltanto la domenica, vorrà dire che sacrificherò il solo dí di festa per la mia attività prediletta. -

Tanta era la forza d’animo di costui. In realtà, la seconda occupazione lo impegnava quasi piú della prima, perché, se è vero che per questa ulteriore mansione gli spettava la retribuzione di un solo giorno a settimana, occorreva moltissimo tempo per i preparativi. Era richiesta una concentrazione enorme. Una responsabilità massima. Sissignore.

Si verificò di conseguenza che anche quelle misere ore festive erano riempite dagli obblighi. Cosa fare? - Bene - rifletté il nostro amico, con un po’ meno enfasi del solito. - Vorrà dire che mi limiterò a pensare a scrivere. Quando un giorno sarà, che si presenterà un’occasione migliore, potrò tentare con piú successo. -

 

Le ferie arrivano per chiunque, anche per i poveri disgraziati, che in quanto tali, non le hanno nemmeno retribuite. Fu cosí che anche il futuro Tabucchi trovò inaspettatamente di fronte a sé qualche meriggio da dedicare alla prosa, da spartire s’intende con i doveri casalinghi, omessi a causa della già citata penuria di quello spazio indefinito nel quale scorrono gli eventi in successione. Tentò disperatamente di macchiare il foglio con qualche iscrizione, ma lí per lí nella cocuzza non affiorò nulla. Per mesi e mesi aveva cercato di tessere le fila di una trama, che in alcuni punti sarebbe dovuta essere rivista, senza fallo, e ora che gli veniva concessa una breve tregua, era afflitto da sterilità creativa. Dette la colpa al troppo stress.

Lo fulminò l’idea di scrivere poesie, perché giudicò si confacessero maggiormente alla sua condizione. Scriveva quando poteva: la sera, tornato tardi dal lavoro, prima di andare a dormire; la mattina presto, svegliatosi in anticipo, prima di recarsi al lavoro; qui, in un attimo di pausa, prima di far ritorno a casa. I versi scorrevano veloci, con sua fiera soddisfazione, e nell’arco di un paio di mesi aveva addirittura portato a termine la sua prima silloge.

Poi accadde il peggio.

Qualcuno gli disse che la poesia era morta.

Nessuno più leggeva questo genere. Roba superata, dei tempi di Ungaretti, anzi, ancora precedente, molto precedente. Oggi la gente vuole assassinii, storie di sangue e d’amore, pettegolezzi, scandali, barzellette, ma per favore, basta poesie. Gli dissero per la verità anche qualcosa di peggio, che c’era troppa gente che scriveva, che ognuno, anche l’analfabeta, provava lo stimolo irrefrenabile di combinare due o piú parole insieme, per poi apporre in calce la propria firma e vantarsi con tutti: - L’ho scritto io! L’ho scritto io! -

I poeti poi…

A sentire questi discorsi, il futuro Neruda ci rimase un po’ male, in effetti. Vabbè che scriveva soprattutto per sé, però, che diavolo, un giudizio meno severo se lo sarebbe pure meritato in fondo, tanto piú che si trattava di una condanna a priori, del genere poesia tutto. Ovviamente Guglielmo, se avesse prestato un po’ più d’attenzione, avrebbe saputo che già da millenni questa verità risulta nota: carmina non dant panem, le poesie non procurano il pane.

 

È risaputo che il declinarsi dei nostri sentimenti segue in gran parte la regola dell’ideale: se si pensa di poter star bene un giorno, si sta bene anche adesso, cosí come sembrerebbe vero anche il contrario. E il nostro idealista non se la passava tanto bene, né tantomeno gli riusciva facile immaginarsi un futuro meno crudele.

Smise di conseguenza anche di sciorinare distici, tentando di allentare la frustrazione tramite la lettura, da lui da sempre reputata medicina dell’anima. Il suo motto era: “Un buon libro aiuta piú di uno psicologo, e non ti indebita.”

Si verificò però un fatto insolito.

Inghiottendo pagine su pagine, il fu Montale venne preso da un irresistibile desiderio di ritornare a scrivere, come se la lettura gli avesse solleticato l’appetito, e si contorceva, faceva smorfie, provava insomma a castrare quella voglia pericolosa. Si rese conto infine che l’unico modo perché quella smania lo lasciasse finalmente in pace, era interrompere anche l’ultimo rimasto dei piaceri letterari. Una maledizione. La cura che ti si rivolta contro.

 

Era tardi quella notte, quando fu colto da malori a circa metà del libro che si era tuttavia prefissato di portare a termine, per poi levarsi definitivamente il vizio. Come il fumatore ravveduto, il quale poco prima della mezzanotte gusta l’ultima sigaretta per cominciare l’anno nuovo in completa astinenza, non fuma soltanto, bensí rivive nel sapore del tabacco i piaceri di una vita intera, Guglielmo, voltando pagina, tirò un lunghissimo sospiro, interrotto bruscamente dal segnale cupo di un orologio che non indicava il naturale passaggio da un giorno a un altro, ma la prova che già due ore erano trascorse del rinnovato ciclo quotidiano. Tre ore dopo avrebbe dovuto svegliarsi per andare a lavorare.

Raggiunse il letto, e avvertí lo stomaco che si agitava e pareva volersi svuotare da un momento all’altro. Perfino la testa minacciava di esplodere, come se il contenitore fosse diventato ormai troppo piccolo per poter arginare l’inquietudine.

In bilico tra costrizione e desiderio di autonomia, a Guglielmo parve anche l’ultimo respiro un sacrificio eccessivo.

 

Plauso

Gli ultimi giri di pista. Zarrini è in testa, ed ha un certo margine di vantaggio sulle vetture che seguono. Gli spettatori trattengono il fiato. Nessuno commenta con il vicino. Si attende con ansia il momento in cui sarà costretto a passare dai box, per il rifornimento. Il carburante non basta. Chissà se gli altri lo raggiungeranno. L’ultima curva, poi l’uscita. I meccanici sono pronti. Vogliono che perda meno millesimi di secondo possibili. Solo una spruzzata nel serbatoio. Via. Forse è ancora primo. Sí, ma solo a patto che riesca a infilarsi sul percorso un instante prima del pilota avversario che nel frattempo ha recuperato. Un flash. Un cattivo ricordo. Rientra in sé. Concentratissimo. Non c’è tempo per scegliere. Si lancia sul circuito come un razzo, mentre il concorrente sopraggiunge e frena per non finirgli contro. Nessun impatto. Non come tre anni fa. Il nostro uomo si accorge di essere al comando. Gli viene da piangere, ma ha imparato a rimanere freddo, in momenti molto peggiori.

Taglia la linea del traguardo. Trionfo. Altri due giri per celebrare e salutare i fan, poi l’auto rientra. Si arresta. Il pilota non scende. Pare impietrito. Gli spettatori rispettano la sacralità del momento e restano muti. Il primo a volare è il casco; poi, lento, il corpo sottile si estrae dall’abitacolo e poggia rigidamente a terra. Zarrini solleva lo sguardo in aria. L’incantesimo è spezzato. Come le gambe nella gara di allora. Il pubblico esulta.

 

Valentia di un insetto

Ciò che ho avuto modo di osservare qualche giorno addietro è pressoché stupefacente, e mi accingo quindi a descriverlo, benché sappia fin dapprincipio che rendere in misura esatta quel che ho visto rappresenti un'impresa affatto impossibile.
Ebbene, mi trovavo di passaggio nella piccola stazione ferroviaria di Niederscheld con la mia dolce consorte, e proseguivamo verso nord, con l'intenzione di andare a recare visita ad alcuni parenti che non vedevamo da lungo tempo. Il treno su cui viaggiavamo era uno dei più lenti al mondo, non a causa della tecnologia, la cui grandezza è sempre riscontrabile nei prodotti tedeschi, piuttosto dovuto, questo lento andare, alla categoria del mezzo: era cioè semplicemente previsto che sostasse in tutti i villaggi, anche nei più miserabili. Con questo non voglio certo rendere un'impressione sbagliata, perché se il convoglio impiegava più tempo del dovuto per portarci a destinazione, è pur vero che esso non risparmiava velocità durante il tragitto tra paese e paese.
Ecco dunque che nel cielo terso di quella splendida giornata, con i finestrini semichiusi, perché il vento ci rinfrescasse senza travolgerci, ci sedemmo l'uno accanto all'altra in direzione di viaggio, per meglio godere delle favorevoli circostanze. Eravamo ancora fermi, ma saremmo ripartiti di lì a poco.
Fu all'improvviso che qualcosa si attaccò al vetro, e ci demmo premura di chiarire meglio cosa mai questo "qualcosa" fosse. Era semplicemente un insetto: non una mosca, e neppure una vespa; aveva il corpo lungo e affusolato come quest'ultima e perfino l'addome e una parvenza di pungiglione vi erano riconducibili, ma ne differiva in quanto al colore, di un verdolino pallido, e le ali poi erano più simili a quelle di una comune mosca. Non era neanche una cimice, né evidentemente una grossa zanzara. Non è per negligenza, perché davvero ho avuto poi cura di ricercarne il nome nell'enciclopedia degli animali, ma ahimè, con il solo risultato di farlo rientrare nell'ordine degli imenotteri.
La bestiola cominciò a muovere gli arti sottili e a sfregarsi le ali, come se si preparasse a qualcosa che avrebbe richiesto uno sforzo notevole. Il corpo era di sbieco, incollato al finestrino dalla superficie perfettamente regolare, e gli occhi puntati in avanti, in direzione della locomotiva. Vorrei far notare che se approfondisco qui i dettagli di queste scene, è solo perché con uno sforzo enorme cerco di riportarli alla luce, poiché in quel momento non ci tenni proprio a concentrarmi su di un animaletto sconosciuto intento in atti che riguardavano lui solo, ma se lo faccio ora è unicamente per il motivo che ciò che avvenne subito dopo non rientra più nell'ordinario, e dovrebbe a mio parere essere precisamente annotato in uno di quegli albi dei primati che tanto si vantano alle volte di concedere agli onori della storia eventi di secondaria importanza.
Quindi, dicevamo, in questa sorta d'aviatore pronto per il decollo, si celava probabilmente una missione segreta, o forse il bisogno di una sfida estrema, e questi oramai era pronto a tutto. Lo capii nell'istante in cui il treno partì.
Non posso indubbiamente ammettere che gli notai qualcosa nello sguardo, tanto minuscoli erano i suoi occhi, seppure li aveva, eppure l'ostinazione l'avevo intuita. Dapprima si tenne appoggiato alla superficie liscia, un po' polverosa, con fare naturale, con tutte e quattro le lunghe zampe, e le ali assecondavano il delizioso zefiro che gli veniva incontro; qualche attimo dopo il macchinista decise di aumentare progressivamente l'andatura, al che io pensai che l'insetto sarebbe volato via, quando era ancora in tempo, perché la corrente d'aria impetuosa non gli avrebbe lasciato scampo, vincendo il contrasto e stramazzandolo al suolo. Niente affatto. Avvenne così che, ancora più caparbiamente, abbassò le ali di modo che l'aria scivolasse via dal corpo, creando di fatto anche un vuoto sotto le zampe, una cavità alla quale egli si reggeva senza manifestazione alcuna di volersi dare per vinto. Non sono in grado di affermare se abbia perso l'unico istante in cui poteva ancora desistere, oppure se l'obiettivo fosse effettivamente sfidare in un duello impari, simile a quello tra Davide e Golia, il maestoso impeto del vento. Un particolare della sua strategia, che mi colpì enormemente a causa dell'inconcepibile astuzia, consisteva nel sollevare progressivamente tre dei suoi lunghi arti per poi premerli con tutta la forza di cui disponeva contro l'unico ancora rimasto a contatto col vetro, e ciò contro ogni previsione, perché chi penserebbe mai ad aggrapparsi disperatamente a qualcosa con una sola mano, e di poggiare quindi l'altra su di questa a mo' di sostegno? Ne avessimo pure cento di mani, le terremmo correttamente separate e saldamente impigliate a qualunque oggetto utile per non rovinare. E invece no, pareva davvero che volesse farsi beffe del conduttore, come per dirgli: - Bravo tu, sai premere bottoni, e credi di viaggiare veloce, ma se dovessi affidarti alle tue gambette, allora non saresti più rapido di un grizzly, e in men che non si dica crolleresti sfinito ansimando e bestemmiando per il dolore e per il sudore. Osserva invece me, dall'alto della tua statura, che grazie a della semplice colla da me medesimo fabbricata, me ne resto qui appiccicato, e sfido la velocità e il turbinio che vossia si degna di regolare a piacimento. -
Un dubbio mi folgorò: si sarebbe reputato contento, il provetto acrobata, una volta che il treno si fosse nuovamente fermato, o avrebbe incoscientemente deciso di proseguire? In quest'ultimo caso non mi sarei trattenuto dal dichiararlo folle. Tutta la straordinarietà dell'impresa sarebbe allora venuta meno, se per l'appunto non si fosse trattato che di un episodio unico e memorabile. Qui stava il mio conflitto.
Continuai ad osservarlo con il tacito patto che una volta in stazione sarebbe volato via, nell'acclamazione generale; ma il timore che non ce l'avrebbe fatta era estremamente forte: i vagoni slittavano sulle rotaie con sempre maggiore velocità, e anche una persona, trovandosi aggrappata all'esterno, avrebbe avuto notevoli difficoltà a resistere contro la corrente vorticosa.
Restai per tutto il tempo nella mia solita posizione, il mio sguardo non si mosse neanche di un millimetro. Conservavo la più ferma intenzione di non voler perdere l'istante di un'eventuale sconfitta, l'attimo cioè in cui l'aspirante campione avrebbe potuto schizzare via per sempre, forse per volare di nuovo, o più probabilmente per rimanere travolto e abbattuto come un falco da un tenebroso cacciatore. Non importava. Lo avrei ammirato anche in quel caso, purché non gli fosse venuta la triste idea di continuare il viaggio. Questo non lo avrei mai ammesso.
Rimanemmo entrambi immobili per un tempo indefinito, lui come racchiuso in un guscio e diventato come di pietra, tanto che niente più in lui vibrava, ed io pallido a causa dell'atroce sospetto, quando d'un tratto il macchinista intravide la stazione successiva e stabilì che era giunto il momento di frenare il locomotore. Sebbene mi fosse chiaro ciò che stava accadendo non mi mossi, e tantomeno azzardò colui che seguitava a sembrare un'impercettibile neo sulla lastra. Quando ormai si poteva già scorgere la banchina e la folla di persone in impaziente attesa, credo che provai addirittura a stabilire un contatto telepatico, tanto mi divoravano la curiosità e l'angoscia. Il vagone sul quale ci trovavamo era posizionato all'estremità anteriore, preceduto solo dalla motrice, arrestatasi definitivamente dopo un ultimo flebile strappo, e all'esterno non si trovava nessun viaggiatore; di conseguenza potevo osservare indisturbato quella macchiolina verde che interrompeva la trasparenza del vetro. Sembrava davvero finito, e il respiro consumato dal vento. Ma no! La testolina sussultò, le ali si dispiegarono timidamente, e poi fu tutto un alacre lustrarsi il corpo con quegli arti tanto flessibili e lunghi. Fui tuttavia indotto a credere che lo sfregamento rappresentasse più il compiacersi del proprio atto che non un'opera di maggiore utilità.
Ciò nonostante non avevo ancora risposto al dubbio che mi attanagliava. Il treno era già fermo da qualche minuto. Dopo poco sarebbe di sicuro ripartito, e il prode si sarebbe trovato allora nell'identica situazione di prima. Più che ad un insetto, mi venne da pensare ad un suicida, che si ostinava nel suo assurdo proposito in seguito ad un primo tentativo non riuscito.
Come per dispetto, mentre mi trovavo assorto in simili elucubrazioni, terminate le pulizie, senza nessun accenno, si strofinò per l'ultima volta le ali, come per essere sicuro che fossero lucide e funzionanti, e spiccò il volo, descrivendo un leggero semicerchio e prendendo poi una traiettoria ancora incerta.
Un macigno mi si levò dal cuore e ritornai a deglutire. Questo sconosciuto, che meritava di essere collocato sul gradino più alto delle imprese mai compiute, aveva affrontato un avversario temibile, e con stile del tutto naturale si era tolto alla vista inaspettatamente, come solo sa fare con grande talento chi esce di scena dopo un ultimo inchino e abbandona gli astanti ad un vuoto ingombrante.

 

Come un cerchio intorno al collo

L'orologio della grande chiesa nell'enorme piazza dell'immenso centro cittadino non ha ancora battuto le nove. Tutta questa vastità è inutile. Non è solo un parere personale, è un fatto oggettivo. Sì, d'accordo, i locali sono pieni, la gente si è riversata in strada, i tram scorrono ancora veloci, ma quali omuncoli trascinano il peso del loro corpo grasso e bofonchiante a spasso per il labirinto dei Minotauri! Un'intera giornata è trascorsa, e le persone dabbene si sono bell'e ormai che ritirate. Uno sputo fa i suoi gorgheggi ed emette bizzarri suoni gutturali: impreca la madonna, perché non trova nessuno che gli dia un'altra dose di eroina; la bambina si tocca le ascelle pelose ed emette un rutto con voce da baritono. Santé. Le suggerirei una lavanda gastrica, gentil donzella. Non fa una piega. Perché prendersela. Il mondo è dunque variopinto. Mimì mette un piede davanti all'altro facendo finta di camminare in fila indiana; in realtà cade e va a sbattere sul fetore di una bestia liberatasi da uno sconveniente fardello appena il tempo di un caffè prima. Portafortuna. Ma vaffanculo! Poi arriva Cocò, uomo di gran genio, con una misera disgrazia: gli è cresciuta la gobba davanti anziché dietro. In compenso sa far miracoli con le proprie gambe che si presentano a struttura circolare, così che l'intera figura si propone come un ciucciotto un po' cresciuto. E che testa a pinolo… Maria Claudia mette in mostra le zizze grazie a trentadue pagine di un quotidiano impiegato a mo' di push up che tra l'altro perde inchiostro. Nel frattempo ritorna lo sputo, con lo sguardo completamente perso, ma con un sorriso di paglia e argento, perché ha trovato la dose. Viene da sorridere anche a me, che ci posso fare? Nell'euforia mi viene di baciarlo; lo faccio, e allora lui mi vuole fare il regalino. Ma che credi don Giuseppe, son cretino? Tra la gente, tutto a un tratto sfreccia una volante: dove corri, procedi troppo in fretta, e non fai in tempo ad osservare ed a scoprire che… verschwunden. Il suo nome è una condanna. Va bene, lo ammetto, c'è anche chi seduto ai tavolini alfin sorseggia e discute di lavoro con la dama dell'ufficio, ma io lo so che è solo una parvenza, dato che lei non porta gli intimi. L'ozio è contagioso, e dopotutto ho deciso di voler sentirmi inutile, perdonate il gesto o condannatelo per sempre: si apprestava un'anziana donna col bastone e con la sporta, al che ratto mi volto e la stringo tra le braccia; poi la azzanno sul collo e quella, poverina, si mette a tremare come una foglia, lasciando che la busta si apra e si rovesci sull'asfalto ancora bollente dopo l'intera giornata assolata. Due uova cadono pure e si rompono, cominciando a sfrigolare e a cuocere. Mmmh… la vittima se ne resta immobile per tutto il tempo. Una gigantesca scia purpurea le è rimasta impressa sull'aorta, e sgrana gli occhi nel notare come mangio. A stomaco pieno questa maledetta piazza apparirà certamente più normale.

 

Esteban non voleva rubare

Esteban non voleva rubare. Proprio non lo desiderava, ma era costretto a farlo. Era da tre mesi senza lavoro, e tutto ciò che gli avevano offerto era solo un invito allo sfruttamento, perché non c'è peggior inganno per un lavoratore di non figurare ufficialmente come tale. Aveva persino speso del tempo cercando di destreggiarsi nel labirinto degli impieghi, e quando si era convinto ad accettarne uno in un'azienda di pulizie, gli avevano premesso che avrebbe lavorato un giorno sì e un altro Dio sa quando, perché il lavoro è fatto così, va preso in affitto ed elargito con cautela: non troppo a pochi, piuttosto poco a molti, dividendo, spaccando, interinando. E va bene, si convinse il giovane; però con quattro ore a settimana non poteva certo campare: chi glielo diceva al cane che doveva mettersi a dieta? Il fatto è che aveva paura. Sì, una fifa tremenda che lo sorprendessero quelle telecamere piazzate ovunque, e quei cartelli posti all'entrata: sorridi furfante, lo facevano desistere da qualsiasi proposito. Ormai era dentro, nella mecca, dove anche la spazzola per il cesso era degna di essere presa in gloria, e doveva risolversi rapidamente. A casa lo aspettava la moglie: una bella cenetta in due con un bicchiere di vino a testa, come ai vecchi tempi, quando ancora lavorava in una fonderia, prima che questa venisse chiusa definitamente. Più che la dolce scena, era l'appetito, già sveglio dai tempi di Ivan il Terribile, a spingere affinché si procedesse in modo rapido e rigoroso, ma subito egli si accorse che la vera lotta non era tra lui e i sorveglianti, e i circuiti televisivi interni, e i cartellini antifurto attaccati con meticolosità sulle confezioni di pasta. Le gambe quasi non reggevano il peso del busto, le mani non volevano proprio afferrare nessun oggetto, tanto che si erano serrate in pugni, e un rossore improvviso era divampato in volto. Tutto ciò ancor prima che i propositi si trasformassero in azione, tanto che Esteban fu costretto a procedere rassegnato verso l'uscita. Coloro che si trovavano nei pressi avevano certamente notato qualcosa che non andava, e al di là delle telecamere avevano probabilmente già intuito ogni intenzione; quindi non gli restava altro da fare che abbandonare il posto con mestizia e malcelato scontento per la prematura dipartita. Lo attendevano anche per quella sera la solita erbetta che cresceva spontanea nel cortile di casa con le cipolle piantate dalla moglie, sempre sperando che il domestico animale le avesse risparmiate da inadeguati bisogni.

 

Dura lex

Il signor Attilio Ringhieri si accinse il giorno di Pasqua a prendere l'intercity Napoli-Torino per far visita ad amici cari che non vedeva da tempo. Salito sul treno, si sistemò comodamente in un angolo del finestrino, con la vivida luce che metteva in risalto i tratti del volto. Trasse un libro piuttosto spesso dalla sua borsa da viaggio e si preparò alla piacevole lettura. Erano così pochi i momenti in cui poteva permettersi di leggere, che quel giorno gli si era presentata un'occasione imprevista e fortunata: nove ore di piacere e di rilassamento ininterrotti, per dimenticare gli attimi dovuti altrimenti strappare alle giornate colme di lavoro o, ancor peggio, i rubicondi minuti sottratti al sonno. Si era quindi accucciato buono buono sul sedile comodo, dimentico delle altre persone che conversavano accanto a lui, che riempivano lo scompartimento di stridii e gridolini, e facevano un tale chiasso che nemmeno i bambini della peggiore scuola elementare si sarebbero immaginati di imitare. Ebbene, nulla sconvolgeva il placido viaggiatore, ormai atterrato già su di un altro pianeta, dal quale gli giungevano gli echi delle onde che si frantumavano sulla spiaggia e dei cormorani, che di tanto in tanto gli posavano accanto qualche pesce in dono, appena pescato, come fosse il pegno da offrire ad una divinità.
Certo è che il nostro Attilio non godeva della solidarietà dei suoi compagni di viaggio, i quali gli schioccavano occhiate sprezzanti, e poi, dopo essersi scambiati dei cenni, scoppiavano in una risata fragorosa. L'oggetto di tale gaudio era naturalmente quel signore buffo che non prendeva parte al loro spasso.
Con il trascorrere delle mezz'ore, il viaggiatore solitario venne quasi dimenticato nella confusione generale, quando ecco che il capotreno fece irruzione nello scompartimento, nella consueta ricerca affannosa di clandestini intrufolatisi a bordo. Scorgendo Attilio assorto nella lettura, fece un gesto agli altri come per chiedere una spiegazione. Poi si rivolse ad Attilio: <<Signore, mi perdoni, non sa forse che in questa categoria di treno è fatto obbligo di stabilire regolare conversazione, di scambiare dialoghi civili con i viaggiatori, insomma, di socializzare?>>
Attilio rimase interdetto per alcuni istanti. Per prima cosa, perché non aveva neanche capito che quel signore in divisa ce l'avesse con lui, secondo, perché non aveva minimamente compreso ciò che questi gli aveva detto. Allora il controllore dovette ripeterglielo: <<Egregio signore, Lei ha violato una norma del codice di viaggio sui treni della categoria intercity, quella che vieta ai viaggiatori di non parlare, non conversare, non bisbigliare, non urlare, non arrabbiarsi o non intrattenersi con le persone che condividono il viaggio insieme a lei; per farla breve, lei se ne è rimasto in silenzio tutto il tempo.>>
Queste ultime parole furono pronunciate con tale severità, che calarono in quel vano angusto come un giudizio inequivocabile. Sentendo la terribile sentenza di colpa, il signore col cappello seduto di fronte, la signora con l'abito sontuoso e le calze a righe, la vecchietta con il girasole nella borsa e il giovane avvocato, che prendevano posto nello stesso scomparto, proruppero in un'esclamazione di pietà: <<Ooohhhh!>>
Seguì un momento in cui si temette il peggio per il povero sventurato; poi, il capotreno si ostinò a fargli pagare una multa. Attilio riuscì solo a far affiorare sulle labbra un <<Assurdo!>>; quindi si risolse rapidamente a pagare, per non perdere altro tempo in un inutile contenzioso. Gli spettatori contenti fecero un'ultima smorfia di soddisfazione e ripresero le loro becere attività, ma stavolta Attilio non riusciva più a concentrarsi. Anche se gli altri avevano smesso di osservarlo, sentiva i loro occhi che gli sgranavano i pensieri.
Gli venne a questo punto un'idea fantastica: si sarebbe rinchiuso in bagno, e qui avrebbe continuato a leggere il libro a più voci, contraffacendo la sua così abilmente, da far sembrare a chi si trovasse a passare davanti alla porta, che dentro vi fossero più persone intente in faccende private, per cui anche chi avesse voluto visitare la toilette avrebbe volentieri ripiegato sulla successiva, felice di non intromettersi. Attilio fu talmente convincente nell'imitazione in falsetto della voce dell'anziana protagonista del romanzo, che quando bussarono la prima volta si sentì perfino una voce chiedere subito scusa del gesto tanto ardito. Nel dialogo seguente poi, Attilio alternò la voce della donna a quella del nipote infuriato, appena spodestato, diseredato e lasciato andare in rovina, perché aveva tentato inutilmente di metterle tutti i parenti contro, sperando di essere infine il solo a ereditare i beni della zia. Un signore sulla settantina bussò timidamente, ma immediatamente rifletté che sarebbe stato più conveniente abbandonare il proposito, per non rischiare di essere coinvolto nella mischia: pareva proprio che lì dentro tirasse una brutta aria.
La lettura poté quindi proseguire quasi indisturbata per un'oretta e mezza circa, quando qualcuno batté nuovamente sulla superficie liscia, dando l'impressione stavolta di voler fare sul serio. Si udì una voce maschile imponente: <<Aprite, per favore.>> Attilio rimase un po' sorpreso dal tono deciso della richiesta, e aspettò un minuto prima di rispondere. Forse l'uomo se ne sarebbe andato e avrebbe lasciato che i personaggi del romanzo riprendessero a vivere dietro le quinte del piccolo teatro itinerante. Invece costui riprese: <<Favorite il biglietto, prego.>> Vabbè, se si trattava solo si questo, si sarebbe provveduto facilmente, pensò Attilio. Nascose il libro tra le pieghe del cappotto e dischiuse la porta. Davanti a lui comparve lo stesso personaggio stizzoso che poco prima aveva preteso il pagamento di una cifra simbolica per punire il comportamento giudicato inadeguato, quel non essersi attenuto alle regole e il non essersi nemmeno sforzato un tantino per leggere le poche righe affisse ovunque che informavano i viaggiatori sulle norme da rispettare sul mezzo. <<Ah, ci risiamo!>> esclamò il signore in divisa blu con i risvolti verdi. <<Allora lei è proprio un tipo recidivo, come credevo. Bene bene, allora sono costretto a farle pagare quest'altra scorrettezza.>>
<<Ma quale scorrettezza, mi perdoni?>> reagì disperato Attilio.
<<Anche questo le devo spiegare?>> domandò con voce rassegnata il capotreno. <<Poco fa ho sentito delle voci qui dentro, e con tutta probabilità appartenevano a lei. Ebbene, una ulteriore norma, per chi viaggi su questi mezzi, prevede che quando ci si trova alla toilette non è consentito emettere il benché minimo sospiro. Lei capisce, >> continuò, abbassando bruscamente il tono della voce, quasi emettendo un sibilo che pizzicava le orecchie del malcapitato, << si è alle prese con bisogni impellenti, e non si devono sprecare forze laddove occorre invece ottenere il massimo della concentrazione.>>
<<Perdoni la mia curiosità,>> proruppe lo stanco passeggero con mal celata sopportazione, <<ma chi è colui che si adopera a trovare prescrizioni tanto assurde?>>
<<Chi è, chi non è… non importa.>> sbottò l'altro. <<Ciò che conta è che le norme siano pensate, stampate e rese note, in quanto non è il loro contenuto rilevante, bensì il loro aspetto formale, il potere che suscitano nell'autorità che le applica e le fa rispettare. E qui l'autorità in questione sono io.>> Infine, in un sussurro compiaciuto: <<Lei non si immagina quanti siano i furbi che provano a nascondersi ovunque, perfino al gabinetto, come lei. Avanti, adesso paghi!>> sbraitò.
Attilio, sconfortato, fu costretto a pagare di nuovo. Non solo, dovette subire l'ulteriore minaccia di quella che si autodefiniva un'Autorità, la quale assicurava in tono paternale la subitanea espulsione dal mezzo in corsa al verificarsi della prossima eventuale contravvenzione.
<<Per il momento, caro signore, la fa ancora franca: le viene confiscato solo il libro perché… come recita l'articolo diciassette, comma due del codice di bordo: "[… è oggetto di sequestro qualsiasi materiale il cui uso non sia consentito dal regolamento disciplinante il luogo nel quale si riscontra la violazione, nonché l'intero individuo, in quanto persona giuridica, nel solo caso in cui non vi sia da parte di questi un atteggiamento conciliante e di palese subordinazione." E evidente, no? Allora, mi consegni il corpo del reato, se non vuole che la metta sotto chiave.>>
Abbandonato a se stesso, incredulo per quanto appena udito, il nostro misero uomo si rinchiuse ancora nell'intimo spazio, e se ne stette ad attendere l'arrivo in stazione in silenzio contemplativo.
Arrivò infine alla tanto agognata meta, quando già da un'ora era stato coattivamente costretto a terminare la lettura a più voci e la messa in scena della pièce. A prenderlo erano venuti gli amici. Scese dal treno, salutò tutti affettuosamente, ma tenne per sé l'intero accaduto, cercando di dimostrarsi contento e rilassato, e fu accolto con dimostrazioni di gioia sincera. Si permise perfino di scherzare. Uno dei presenti si accese velocemente una sigaretta e tirò un paio di volte a pieni polmoni, gustando il sapore del tabacco ancora fresco; a questo punto, Attilio si arrestò. Il viso mutò d'un colpo espressione, e affiorò sulle labbra un ghigno terrificante. Un energico ceffone investì in pieno il delicato profilo del fumatore, e la sigaretta volò lontano, finendo sui binari freddi. Ne seguì un silenzio agghiacciante; poi, con voce piatta di chi è costretto a recitare un passo a tutti noto, una verità sopita, il nuovo arrivato pronunciò: <<Non sai leggere? In questo settore è vietato fumare, amico mio.>> Detto questo, si precipitò a scendere i gradini del sottopassaggio, trotterellando e fischiettando, mentre gli altri, allibiti, se ne restarono allineati sullo sfondo grigio della banchina, come reclute punite ingiustamente costrette a riconoscersi una colpa qualsiasi.