Laureto Rodoni

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DER FLIEGENDE HOLLÄNDER
L'OLANDESE VOLANTE
L'ODISSEA NELLO SPAZIO DI SENTA E DELL'OLANDESE VOLANTE

Direzione musicale: Christoph von Dohnányi
Regia: David Pountney
Scenografia: Robert Innes Hopkins
Video: Jane und Louise Wilson
Luci: Jürgen Hoffmann
Direzione del coro: Jürg Hämmerli
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Senta: Eva Johansson
Holländer: Egils Silins
Daland: Matti Salminen
Erik: Rudolf Schasching
Mary: Irène Friedli
Steuermann: Christoph Strehl
Coro e orchestra dell'Opernhaus di Zurigo

Una delle più mirabili, prodigiose impressioni della vita di Wagner fu quando entrò, nel luglio del 1839, in un piccolo fiordo norvegese:

Fui preso da un indescrivibile senso di benessere, quando l'eco rimandò dalle immense pareti di granito l'urlo della ciurma, con cui questa gettò l'ancora e issò la vela. Il breve ritmo di quel grido si fissò in me come un indizio energico e confortante e prese presto forma nel tema del canto dei marinai del mio Olandese Volante, la cui idea già allora andavo plasmando nella mia mente...

Pare inoltre che il fischiare del vento avesse per Wagner una connotazione demoniaca talmente terrificante che, quando d'improvviso un'altra nave apparve sparve nell'oscurità, come il lampo di pascoliana memoria, credette di intravedere l'Olandese volante stesso: si può affermare che da quel momento la musica dell'opera era già nella fase dell'elaborazione creativa, e che Wagner si impossessò con fervore parossistico del concetto della redenzione, mito centrale, nucleare della sua anima; un mito che conservò nel suo spirito per tutta la vita: da esso sorsero tutte le altre opere, miracolo creativo tra i più alti della storia dell'arte di ogni tempo, da Tannhäuser a Parsifal.
Un senso di sublime e di infinito è racchiuso in questa musica che sprigiona visioni spettrali, arcaiche, oniriche, in cui la componente demoniaca dell'ebreo errante sui mari alla ricerca della sposa redentrice conturba il mondo interiore del fruitore sin nelle più recondite profondità.
"Sono quasi strutture elementari, poli dell'Io" scrisse Giorgio Vigolo, "il sogno della tempesta e della riva ferma, della maledizione e dell'amore che lo cancella, dell'alienazione e del suo più vero riscatto, della Erlösung. Già si riconosce, scrive sempre Vigolo, "il rapporto demoniaco-angelico di Tannhäuser-Elisabetta, la vicenda di Tristano e Isotta, del Siegmund fuggiasco, nella tempesta della Valchiria, che è accolto da Sieglinde; così anche nel Coro delle filatrici [...] si può vedere una anticipazione, sia pure in atmosfera diversissima, di quelle altre filatrici che sono le "Norne" nel Crepuscolo degli Dei. Tutta l'opera di Wagner è lo stesso filo tessuto dalla sua parca."
E Senta è una sorta di incarnazione di Penelope, l'Olandese è come un Ulisse romantico. L'Odissea dello spettrale navigatore è anch'essa fondata su un ritorno e una salvezza.

Da questo punto di vista l'idea del regista David Pountney di trasferire kubrikianamente l'odissea dal mare allo spazio è semplicemente geniale, per nulla arbitraria se non si è tristemente legati a concezioni drammaturgiche museali, rispettose alla lettera delle indicazioni del libretto. Tutte le suggestioni esposte nella mia premessa sono evocate nell'allestimento di Pountney e tutti gli interpreti hanno seguito al meglio le sue indicazioni drammaturgiche.
La figura dell'Olandese è esplorata fin nei più remoti abissi del suo animo. La proiezioni (di Jane und Louise Wilson) del suo viso smarrito, disfatto, rassegnato su enormi pannelli denudano la sua anima, ne evidenziano l'esiziale rovello, l'inestinguibile strazio.
Senta e l'Olandese non si guardano mai negli occhi se non nella parte finale del loro duetto. Sembrano estranei l'uno all'altra. I loro visi si incontrano soltanto sulle foto proiettate sui pannelli che fanno parte di una stupefacente costruzione che è in perpetuo cangiamento (opera dello scenografo Robert Innes Hopkins) e che quindi modifica di continuo la scansione dello spazio scenico. Uno spettacolo visivamente di caratura artistico-estetica eccelsa, un allestimento dotto, meditato, documentato, paradossalmente tra i più rispettosi dello spirito wagneriano che mi sia mai capitato di contemplare in teatro. Magnifico!

Sul piano musicale Christoph von Dohnányi, in perfetta sintonia con il regista, ha diretto l'opera con un fraseggio implacabilmente asciutto, tagliente, coerentemente unpathetisch nei momenti di dolcezza, di languore amoroso o di pietas nei confronti dei suoi personaggi. Una direzione che non è piaciuta a uno sparuto gruppo di spettatori, forse legati (e questo, come ben diceva Sawallisch, è uno degli aspetti più negativi della registrazione in studio) a interpretazioni del passato, formidabili ma non per questo impedienti letture diverse, antitetiche e altrettanto formidabili come questa di von Dohnányi. L'orchestra è stata semplicemente meravigliosa; un plauso particolare agli ottoni, energici, imponenti, precisi. Ma tutti i settori sono da lodare per la perfetta assimilazione della concezione interpretativa dell'insigne Maestro.
Come ho già detto altre volte, il coro, punto debole dell'Opernhaus fino a pochi anni fa, è migliorato in maniera prodigiosa e ora è ben amalgamato nell'ensemble del Teatro.
Quanto ai cantanti, Egils Silins è uno dei più grandi interpreti dell'impervio ruolo dell'Olandese che abbia mai visto e sentito in teatro. Voce dal timbro bellissimo, ammaliante e dal fraseggio cangiante a seconda delle situazioni. Un vero e proprio evento... canoro. E che presenza scenica!
Nettamente al di sopra di tutti gli altri, che pure hanno offerto un'interpretazione di notevole livello. Anche Eva Johansson nel ruolo di Senta, fischiata da una parte del pubblico, non ha per nulla sfigurato, anzi... Molto interessante ascoltare Rudolf Schasching in un ruolo non grottesco; sublime il Seemann di Christoph Strehl; la classe vocale e la presenza scenica di Matti Salminen nel ruolo di Daland compensano una leggera, speriamo passeggera, decadenza vocale.
Insomma, amici che amate Wagner e che, come chi scrive, aborrite le regie museali e sapete ascoltare senza pregiudizi, senza fare confronti che implichino una graduatoria di valori interpretativi, andate a Zurigo. Vi assicuro che dopo aver ascoltato l'Olandese di von Dohnányi filologicamente senza pause, vi sarà difficile assistere a quest'opera divisa in tre atti.