Crescenzo Zito

Nato ad Acerra (NA), é vissuto in una famiglia , che oggi si direbbe "allargata".
Diplomato all'Accademia di Belle Arti di Napoli, all'età di trentatre anni si é trasferito a Roma, dove tuttora risiede.
Scrittore e Fotografo.
Ha realizzato tre cortometraggi e molteplici sceneggiature.
Ha scritto e mai pubblicato due raccolte: "Colle Oppio" e "In Prima Persona".
Attualmente ha ripreso il suo romanzo "Da una insolita postazione", quasi sicuramente destinato a non concludersi mai.
Ha fotografato e sfiorato l'esistenza di centinaia di persone.
Attualmente sopravvive facendo l'impiegato.

PLACE PIGALLE

Ad Alphonsine Plessis

Ero ospite nella casa parigina di un amico tedesco, un neuropsichiatra, direttore di un laboratorio medico scientifico messo su con i soldi di famiglia. Da ricco non si accontentava di comprare farmaci o di essere vittima di adepti, più o meno, freudiani, ma costringeva la sua équipe ad una estenuante ricerca di molecole adatte a sconfiggere la propria depressione. Il terzo giorno mi svegliai all'alba e, attraverso i vetri della camera, oltre il giardino ammirai la torre Eiffel, sfumata nella nebbia mattutina. La distanza l'aveva resa così piccola che l'ha nascosi dietro un dito per poi fare finta di tirarla su col pollice e l'indice stretti a tenaglia; come le foto da souvenir, dove turisti ebeti con facce sorridenti tengono in mano la torre di Pisa o Notre Dame. Ecco, io feci la stessa cosa, ma solo dopo avere riposto la Canon AT-1 nella custodia per timore che qualche improbabile scatto potesse immortalare la stupidaggine mattutina. Dopo la doccia e la colazione uscii in piazza e scesi dalla butte. Calpestato il Sacré Coeur, mi diressi al Boulevard De Clichy, non per visitare il Moulin Rouge, era stato l'alibi per separarmi dall'amico, ma per passeggiare a place Pigalle e magari infilarmi in un sexodrome e chiudermi in una delle cabine con video porno, per onanismo e curiosità oltre che per voyeurismo. Ero alla ricerca di un qualcosa che indirizzasse il mio desiderio e camminando, anzi vagando come una mina antiuomo, imboccai rue Rachel. Un cartello preciso con l'indicazione chiara mi fece scintillare le pupille ed io mi ritrovai fare visita ai defunti. D'altronde le cabine porno hanno pressappoco la stessa area e l'identico tanfo delle tombe. Guardai l'orologio, ma il riflesso della luce aveva polverizzato le lancette, così continuai a vagare non so per quanti minuti sotto il sole; da solo alla ricerca della tomba di Alphonsine Plessis e, visto che mi ci ritrovavo, anche quelle di altri illustri a me ignoti. Camminavo e, alla rinfusa, cercavo di tradurre le didascalie sul marmo, sulla pietra e sul ferro ormai rugginoso e illeggibile, soprattutto per me che mastico appena appena la lingua madre. Nonostante il tepore mattutino tutto mi sembrava freddo e spento, anche i pochi visitatori: turisti da trapasso. Per non calpestare l'erba dei morti mi scontrai con un uomo, balbettai, un schiusi mi, incomprensibile anche a me stesso. Per alcuni secondi, credendo di riconoscerlo, fissai il suo volto. Stavo per aggiungere qualcos'altro quando il mio sorriso, bloccando anche quello dello sconosciuto, si rese conto dell'equivoco. Mi girai, e trascurandolo, misi a fuoco altrove. ..Che strano, mi ha ricordato qualcuno che non ricordo bene… Feci alcuni passi incerti per poi fermarmi accanto ad una tomba e con mio grande stupore lessi il nome di Emile Zola. All'istante dimenticai tutto l'imbarazzo e tirai un sospiro di soddisfazione perché finalmente avevo trovato il primo illustre. Mi soffermai il tempo necessario per memorizzare il loculo, mentre la statua su di essa eretta mi face pensare alla morte come al più bravo chirurgo estetico esistente. Tutti belli, gentili e cordiali i defunti, persino Landrù, almeno a desumere dalla bellezza della moltitudine di effigie incontrate. Rimasto in silenzio, fermo a contemplare l'idealizzazione del morto fino a quando percepii una presenza alle mie spalle; mi voltai e scorsi lo sguardo dell'estraneo che mi fissava da dietro una tomba. A mia volta gli lanciai una occhiata fugace, ma profonda, per capire cosa in quel viso mi aveva precedentemente ingannato. Il mio cervello raccolse, ed elaborò all'istante, l'indizio e capii che quella creatura non poteva essere viva giacché, quel vivo, era una mia invenzione. Ora non sto qui a fare girare frottole o a raccontare trottole, né a convincervi dell'esistenza di fantasmi e neppure a lamentare sogni troppo realistici, no! Niente di tutto questo. Il tipo era la materializzazione di come io avevo immaginato Kees Popinga. Quel tizio dalle movenze innaturali aveva gli stessi atteggiamenti del personaggio di un libro da me amato e, come questo, aveva una capacità innata di sottrarre agli altri un qualcosa di estremamente personale. L'uomo, fermo alle mie spalle, lanciava occhiate così sottili da penetrare l'intimità con nonchalance e capace di sottrarre l'anima con l'abilità di un borseggiatore. Un essere al mondo in modo così particolare, oserei dire insolito, lo escludeva dal genere cosiddetto ordinario. Quel tale era rinchiuso in se stesso, allo stesso modo in cui io bambino nelle gelidi notti d'inverno, non più solo nel letto, mi risvegliavo terrorizzato e mi chiudevo a conchiglia per sfuggire al dolore, che, invece, aumentava con l'intensità del fiato corto di mio padre. Per seppellire nuovamente mio padre, m'allontanarmi dal ricordo della violenza ed iniziai a camminare con passo svelto, intento solo ad ascoltare il silenzio quasi solenne del luogo che, invece, amplificò il rumore del suo pedinamento. Di tanto in tanto appariva come una ombra improvvisa a brevissima distanza ed io, di sottecchi, con l'ingenuità di un ragazzino lo vedevo nascondersi dietro loculi. Questa situazione mi procurò l'inizio di un'emicrania, rinnegando il mal di testa, accelerai i passi per continuare la visita alla casa degli estinti. Delle famose fosse ne scorsi solo qualcuna, quella dei fratelli de Goncourt per esempio, poi quella di Alexandre Dumas figlio e di Degas dopo, mentre ne individuai centinaia appartenenti a sconosciuti. Oggi, ohimé, ne ricordo solo due: una diafana Brenard Julette, la sua effigie sembrava scolpita nell'avorio ed un certo Victor de Plincy dalle mani molto sensuali; ballerina la prima, musicista il secondo. Ambedue bellissimi, per la stessa ragione di cui prima. Calpestavo il selciato con forza, quasi che il timore per quell'uomo mi avesse reso più pesante; mi sapevo braccato e, come una preda cercavo di sfuggire al mio predatore. L'inquietudine in cui ero caduto era un misto di attrazione e curiosità per quell'occhio umano che anticipava i miei spostamenti col fare dell'aquila: calmo, determinato e spietato. Alzai gli occhi al cielo e mi scontrai col ponte di ferro, il cui traffico automobilistico contaminava e tagliava in diagonale l'aria dei morti. Il cimitero di Montmartre, ha una struttura particolare, i suoi loculi sono sistemati in più piani.; su quello a livello della strada se n'innalza un altro di circa un metro e mezzo e su questo é situato l'ultima superficie calpestabile. Queste particolari terrazze sono parallele e separate da una inferriata di circa sessanta centimetri, accanto a questa c'è il corridoio maggiore che porta alle lapidi e, tra queste, altri strettissimi passaggi. Io mi trovavo al livello intermedio e, nonostante fossi accanto a tombe troppo sole, sapevo di essere osservato; infatti, alzato lo sguardo, ritrovai i piedi di Monsieur Popinga all'altezza della mia testa e, più in alto, il suo volto che mi fissava accanto al cancello dell'ultima terrazza. Ridiscesi e mi allontanai, ma per quanto io salissi e risalissi o scendessi e ridiscendessi, Monsieur Kees era sempre accanto a me o ad un livello superiore. Allontanandomi stupito, io m'interrogavo sul portamento anomalo di quell'uomo e non capivo la ragione di quell'inseguimento, che proprio tale non era. Sembrava, piuttosto, che mi tenesse sotto osservazione da una distanza di sicurezza e, come un ricercatore in laboratorio, mi fissava nei dettagli senza mai toccarmi. C'era in quel singolo, che senza tregua mi torturava, un qualcosa di sospeso, che aumentava la mia aspettativa e, con questa, i battiti del mio cuore ferito. Ero intimorito, più che preoccupato; così come non mi aveva spaventato il vero Popinga per quel misto di ingenuità e umanità che corona il fallimento della sua vita di impiegato e che lo porta ad essere un anomalo portatore di morte. A parte ciò che si vede al cinema, non c'è nulla di più inquietante di una passeggiata in un giorno assolato in un cimitero vuoto, spiato dall'ombra disegnata da Simenon. Intento solo a sfuggire a quello sguardo impietoso, sfiorai involontariamente una figura nera che si alzò istantaneamente da una tomba. Il mio cuore iniziò a correre all'impazzata, quel fantasma si girò e gli guardai gli occhi infuocati, solo dopo qualche secondo colsi il volto di una giovanissima suora. Piangeva tanto, plus que tous les enfants du monde. Rimasi lì, con la voglia di abbracciarla per consolarla, ma incapace di fare altro, se non di vederla andare via; una brezza le sollevò un lembo dell'abito rendendola leggera e, come una favilla, s'allontanò da me. Mi inclinai sulla tomba dalla quale credevo fosse uscita e lessi a voce alta: Guillaume de Gourbe. Un ventiseienne morto tre anni prima, un busto di marmo mostrava le fattezze di un parigino con baffi sottili e capelli riccioluti. Uno sguardo malinconico, come il mio dopo la lettura della trascrizione di una morte suicida, così, almeno, tradussi. Prima di rialzarmi sfilai una margherita e l'infilai nel taschino della camicia, poi la mia fantasia spiccò il volo per raggiungere il perché di una storia d'amore finita tragicamente. Riscrissi il loro amore contrastato; di lui che si era innamorato della novizia e di lei, che per lo stesso amore, aveva maledetto il suo Dio... Non andai oltre perché il mio volo si schiantò sulla faccia del mio persecutore. Quel volto impassibile, ma sicuro delle mie reazioni, non mi dava tregua ed io, ormai colmo della sua morbosità, non ne potevo più. Riuscii solo a sussurrargli un "Ehi..." prima che l'individuo, come si dice solitamente, girasse i tacchi, lasciandomi solo con l'eco della mia voce. La mia curiosità, col passare dei minuti, si era trasformata in intolleranza per quel comportamento; quel gioco perverso doveva finire, così, senza troppo pensarci, iniziai a pedinarlo a mia volta. Ora era lui ad evitare ogni contatto diretto con me e mentre i miei passi lo inseguivano, salendo veloci, i suoi ridiscendevano calpestando altre scale. Non mi rendevo più conto di essere in un cimitero e di esserci entrato non per inseguire un vivo qualsiasi, ma per commemorare i morti. A volte sembrava prendersi gioco di me, spariva tra i monumenti funebri ed io restavo fermo incapace di stanarlo con lo sguardo, ma ecco la sua testa sporgersi per poi sparire nuovamente. Non so dopo quanto tempo, e certamente non per i miei calcoli algebrici ma, anzi, sbagliando i suoi, si ritrovò mio prigioniero, sulla terrazza più alta priva di una seconda scala. L'ho vidi nascondersi dietro statue funerarie, in ritirata sulla mia avanzata, ormai non poteva più scappare; sorrisi fiero di me credendo di averlo messo alle strette. Rallentando il passo mi riappropriai di un respiro regolare e cercai, schiarendomi la voce, il tono giusto: "Missiuè… muonsiè… monsieur…" Il suo corpo era fermo davanti al mio e il suo sguardo, nel mio, mi scrutava. Ripassai, mentalmente e rapidamente, il pochissimo francese per chiedergli una spiegazione, ma lui indietreggiò dietro un angelo di pietra, nascondendosi nuovamente alla mia vista. Non più timoroso ma deciso, l'ho seguii fino in fondo ad una cappella. Appena misi una gamba nel cono d'ombra sentii un gemito, poi un getto tiepido colpì il mio alluce sinistro. Spostai, d'istinto, il piede mentre altri getti copiosi e rapidi colpirono i miei sandali ed il marmo su cui erano poggiati. Fissai le mie estremità, non capendo cosa mi avesse procurato quella sensazione tiepida e leggera, poi riportai l'attenzione all'uomo. Il volto, leggermente arrossato ma neppure tanto, era contratto da una smorfia; con una mano tolse il fazzoletto dal taschino per portarlo con garbo sul glande e detergerlo dalle gocce residue. Rimasi talmente disorientato da non riuscire a parlare, ci misi alcuni secondi per comprendere l'evidenza. L'uomo, nel frattempo si era allontanato un attimo prima di una qualsiasi mia reazione. Non so quanti istanti dopo ebbi la cerchiatura del quadrato… …tutto è all'inverso in questo mio mondo… Fui colto da un miscuglio di sensazioni: tensione, brividi, senso collerico ed incredulità. Non mi ero mai trovato in una situazione così atipica, abbassai la testa per la vergogna, invece misi a fuoco il nome inciso sulla tomba. Dopo aver letto attentamente capì perché ero stato portato lì. "Oh, ti ho trovata finalmente… povera Alphonsine, dolce Dama, quanti torti hai dovuto subire da viva ed ora anche da morta.... scusami ma sono caduto nel tranello di un esibizionista…" Vedevo la dama sfinita e moribonda nel letto, circondata dalla sua pianta preferita e dalla tosse persistente, solo in compagnia delle sue privazioni e sconfitte. Sfilai dal taschino il fiore rubato e poggiai la margherita accanto al suo ritratto. Prima di andare via m'inchinai sulla lapide e, con un Kleenex, pulii il sepolcro della Signora delle Camelie, come meglio potevo, felice d'averla trovata.

" … J'ai tendu des cordes de clocher à clocher; des guirlandes de fenetre à fenetre; des chaines d'or d'étoile à étoile, et je danse ... "

 

ACERRA

A Carmine e alle sue stecche di contrabbando

Avevo diciassette anni quando, un mattino, il mio amico del cuore mi raccontò di aver sognato una bellissima sconosciuta, in modo così realistico che, quando la madre lo aveva svegliato per mandarlo al lavoro, si era rammaricato molto di non avere completato il sogno erotico.
Suo padre era stato assassinato giovane e lui, essendo il primogenito, aveva ereditato il "lavoro" del genitore perché, è risaputo, ogni gioia ha il suo dolore.
Il quindicenne stava sognando di fare all'amore con una trentenne ma, nel momento in cui si apprestava a penetrarla, la voce della genitrice aveva rotto l'incanto.
" Mi sono svegliato co 'pesce fuori dagli slip, fortuna che ero sotto 'e lenzola. Sai che vergogna si metteva mamma mia se mi vedeva co' cazzo tuosto."
" Tu poi ce l'hai accusì gruosso…"
La trentacinquenne dai capelli corvini, da parte sua, si era inorgoglita nel vedere il sesso duro e palpitante del figlio sventolare sopra la canottiera e, prima di svegliarlo, aveva coperto quella parte del corpo con le lenzuola; mentre lo scuoteva dal sonno, sorridendo aveva pensato:
" Tale e quale 'o padre, sempre tuosto… sai che vergogna se si accorgeva che l'aggia visto tutto annudo..."
Un bacio sulle guance prima di gridare.
"Carmine scitate, devi andare a lavorare ti ho già preparato 'o zaino che stecche 're sigarette, fa presto che c'è giù Costanzo c'a bicicletta…"

"…Non voglio dirvi il veleno e l'amore che provo.
Ho vissuto in preda a una lingua non mia,
io che per natura familiare non ho nemmeno un dialetto…"
Andrea Gibellini

 

Praga

Le Erinni sono dentro di me, arrabbiate e mai estranee a questo cuore che dall'infanzia scandisce solo dolore. Distinti spasmi si nutrono del cervello e divorano la mia lucidità che si annulla nella cefalea a grappolo.
Quest'ultima espressione scaraventa la mia testa di c…, nel celeberrimo cesto di Caravaggio, confusa ai frutti superbamente realistici.
L'emicrania, di cui soffro, afferra la scatola cranica come una tagliola e mi stringe la tempia fino a farla infuriare.
Io vorrei solo dormire invece sono costretto a guardare le nubi che si lasciano penetrare dall'aereo in cui mi ritrovo seduto.
Giungo, così com'ero partito, dolorante.
Nonostante ciò ammiro il cielo ceco, di un celeste stemperato di nuvoloni bianchi, mentre la periferia della città con le poche case sparse, anche queste a grappolo, mi ricordano le masserie della mia infanzia.
Qui, come allora, il tempo ha scolorito i colori. La crescita non é mai gioia, al limite, torpore primaverile, come la mia temperatura incorporea e ripenso a Napoli come un continuo sudario.

Lascio l'aeroporto in fretta, non parlo l'inglese, figurarsi il ceco, ho sul mio taccuino tutti i dettagli per raggiungere l'hotel dove provvisoriamente risiede il mio amico, Sasà.
Leggo: "Lasciare perdere i taxi, prendere mini bus da sette otto persone, costano meno, attento a…"
Sono stato lasciato fuori dal Residence dal mini bus preso all'aeroporto, l'amico ha lasciato il mio nome alla reception, così sono salito nella stanza.
Ho lasciato la sacca in un angolo ed ho aperto lo zaino per prendere una mela, una bottiglia d'acqua e la personale farmacia ambulante. Tra le decine di scatole e tubetti ho tirato l'antidolorifico del caso che ho ingurgitato dopo aver masticato, in fretta e malamente, il venefico frutto.
Mi sono disteso sperando, in questo modo, di tutelare la mucosa delle pareti dello stomaco, già irritate dai molteplici ripensamenti.
Ho chiuso gli occhi sul divano rosso, il cui colore si è fuso alla stanchezza. Un dormiveglia, quasi un'agitazione, interrotto da intime perturbazioni.
Sasà, dal telefono, mi scuote con saluti di routine, una domanda e riabbasso, con le palpebre, la cornetta.
Al risveglio fisso un angolo di Praga attraverso due diaframmi: quello di sempre, le mie lenti da miope e quello della finestra a cui sono appoggiato.
Con disagio ed ancora stordito esco per appropriarmi di vie mai calpestate. Le suole provano percorsi alternandosi alla ricerca di viottoli conosciuti attraverso la letteratura e, ancora una volta, verifico che la realtà ha troppi confini per me che pedalo oltre.
Cammino per strade invase da turisti. Una umanità decisa ad apprezzare un qualcosa di estremamente vago; altri ricercano la storia che, qui come altrove, è soltanto stortura degli animi umani.
Questa città appare ai miei occhi come una seconda Venezia. Poco maleodorante, ma altrettanto asfissiante, e decisamente più colorata, anzi troppo pulita e ristrutturata.
Sui marciapiedi si inseguono file di boemia glass, hotel, alberghi, ristoranti, caffé e ricordini in finta porcellana: un vero orrore, per lo più italiano.
Amo troppo K e la sua città alfabetica per innamorarmi di ciò che resta della realtà che l'ha partorito.
Da lontano l'ingresso de il castello è spalancato, come cosce di prostitute pronte per essere penetrate da qualsivoglia straniero, purché generoso.
L'altura sovrasta tutti gli edifici e, tra le mura, s'intravede il paesaggio immutato nonostante l'inquinamento che respiro.
Nell'ex borgo cammino tra microscopiche botteghe d'artigiani. Attratto da una foto esposta su un cavalletto entro in un misto di studio fotografico e di galleria d'arte. All'interno, su pareti basse, diverse generazioni in bianco e nero.
Opere di Dagmar Hochova', fotografa con gli anni di mia madre e, come questa, a me prima sconosciuta.
Un bianco e nero bellissimo e spensierato nei gruppi di bambini e ragazzine. Sui fogli di carta chimica decine di corpi sorridenti che giocano o si confrontano.
Consanguinei si susseguono nelle diverse epoche, come se un incantesimo inaspettato avesse bloccati tutti agli stessi anni, quella della fanciullezza. Padri, figlie, zii, nipoti, madri, nonni e giovani spose; tutti coetanei ed immobili in questa età fugace.
In questo limitato abitacolo sono circondato dallo spazio infinito dell'adolescenza, che nella mia mente si materializza e si ravviva di colori moderni.
Foto per lo più di gruppi, tre, quattro fanciulli di un istante subito passato.
Mi attrae la foto di una bambina che corre via dal mondo degli adulti, qui rappresentati da statici ma raccapriccianti manichini: un mondo ideale.
Più di tre generazioni congelate anche negli abiti. La moda, come la speranza, è stata annientata dal comunismo, che nel suo essere reale ha trovato la propria negazione. Ora, l'eterna condanna del capitalismo.
Implacabile, semplice e magica fotografia che annulla la sofferenza, il peso, gli anni e ci restituisce respiro bloccando la temporanea bellezza.
A terra, nell'angolo accanto alla finestra, scorgo una foto illeggibile per la quantità di polvere depositata. L'afferro e la rigiro tra le mani, poi con un soffio d'alito le ridò vita e, attraverso il vetro scheggiato, l'ammiro entusiasta e, contemporaneamente rammaricato di non averla scattata io. Questa foto mi appartiene e me ne approprio senza indugi, né ripensamenti economici.
Sono miei questi tre ragazzini appoggiati con la schiena ad un tavolo costruito con assi.
La scena è vista di lato e non frontalmente, la fotografa ed io che la fisso, siamo sulla stessa parallela, al loro livello emotivo.
Fisso per primo l'ultimo del gruppo, il bambino che si sporge verso l'obbiettivo mostrando tra i denti serrati un qualcosa che suggerisce, per la forma, un biberon da neonato.
Il piede sinistro del ragazzino al centro è poggiato sulla gamba destra; ha alzato il braccio nel momento in cui lo scatto fotografico l'ha immortalato. Per questo la sua mano mossa ci svela la presenza di qualcuno o qualcosa oltre la cornice.
Il terzo, ovvero quello in primo piano,è tutto preso dal suo stesso corpo. Pensoso, ha il capo chino e fissa il torace gonfio, sembra proprio che stia numerando le sue costole ma, forse, gioca a trattenere il respiro…

…allo stesso modo, da bambino, per attutire i suoi colpi io andavo in apnea ma non lacrimavo per dimostrare a me stesso che, nonostante le sue molestie brutali, io sarei diventato un adulto...

Il fanciullo poggia tutto il peso sulla mano destra, che è stretta all'angolo del ripiano su cui scarica tutta la gravità. Questo innaturale equilibrio comunica comunque leggerezza nel piede alzato e poggiato sulla gamba opposta.
I ragazzi adagiati al tavolo calpestano un prato d'erba, intorno, quasi a bloccare lo sguardo sui tre, grandi cespugli nel pieno della fioritura.
Un'atmosfera primaverile ma che suggerisce il bagnato dell'estate.
I tre giovani fauni hanno la pelle e i capelli ancora impregnati; poco lontano esiste un mare o un fiume, al limite uno stagno, senz'altro una pozza d'acqua gelida.
Da quale acque primordiali sono emersi?
Di certo io, soddisfatto per la foto appena acquistata, sprofondo nel mondo dei turisti per far ritorno all'hotel.
Una città così effimera al sole di notte diventa un Mr. Hyde architettonico.
Gli insetti alati sono i veri padroni del luogo, s'infilano ovunque e, soprattutto, si ostinano a perseguitarmi.
La loro presenza è la materializzazione della trascorsa violenza che, anche qui, lontano centinaia di chilometri e dopo cinque lustri, ancora mi sodomizza. Ahimè, mi rivedo undicenne immobilizzato dal baco alieno che tesse su di me un lurido bozzolo.
Piango un passato e, per frenare la discesa agl'inferi, il pensiero si bagna in una lirica di Prévert e ritrovo un'eco struggente.
In ogni angolo, per terra e su qualsiasi sporgenza fissa, inusuali ragnatele.
Decine di blatteri tra i marciapiedi calpestati dalle scarpe senza tacchi delle giovani prostitute, infreddolite nell'umido notturno, che irrigidisce anche il sesso avvinazzato di giovani mercanti, dal fisico accogliente e non tonificato.
Tutti biondi, anche i castani, a Praga.
Città mercenaria che non ricorda più il colore di K.
Come mai la sua casa è sempre chiusa? E dov'è finita la Sua Città? Negli alari che si scontrano con le mie ciglia socchiuse.
Come un convalescente che evita qualsivoglia forma batterica, io, esule dai luoghi turistici, evito il giorno per vivermi la notte.
Mi sposto con le movenze di un ratto, rasento superfici ed angoli, per non essere scoperto dalle ombre dei giganti di pietra.
All'albeggiare vago, anzi galleggio, come una mina alla ricerca del suo approdo esplosivo.
Le piazze vuote gridano il loro disappunto attraverso le bocche ignobili di ubriachi e sopra me lo sguardo severo e buio delle statue gigantesche.
Cariatidi straniate dal maquillage, Ercoli dai muscoli superbamente scolpiti e fieri della loro minuscola nudità, donne dai risvolti volteggianti e dai seni opulenti mentre i paffuti amorini dal sorriso beffardo e crudele, inquietano la mia anima solitaria.
Ovunque scappi, io non sarò mai troppo lontano da K.

"Oh comme elle est triste
Triste triste notre enfance
La saison des pluies est finie
La saison des pluies recommence."
Prévert

 

CASALNUOVO DI NAPOLI

Casalnuovo di Napoli, venticinque giugno c.a.

Questa breve lettera di lungo addio sta accompagnando la nascita di un nuovo giorno e, al sorgere del sole, in me nulla più sarà come prima.
Qualche giorno fa, parlando del poi ripensavo al già fatto; pensavo a te che ribolli nei miei pensieri come lava incandescente dai fumi densi e soffocanti.
Che cosa scrivo dopo così poco tempo? Come posso credere di restare lucido o, per me impossibile, distaccato, se sono passate solo poche ore? Non lo sono mai stato, ho vissuto d'impeto, di passione; non so se ciò possa essere un errore, di sicuro è disagio in questo mondo di ipocrite relazioni.
Sei sempre vissuta nel delirio, in una ricerca continua dall'unica meta; sempre estasiata nel raccontare o leggere di Lui.
Sei partita convinta che il grande amore ti avrebbe strappato al dolore, lo dicevi spesso:
"…prima o poi tocca a tutti, anch'io avrò il mio amore… per sempre…" .
Vorrei essere come te: sicura. Avere le tue certezze, i tuoi punti forti e credere come te nel futuro.
Nonostante il blaterare sui tuoi impegni a venire, mi hai salutato in un modo che mai dimenticherò; tu, purtroppo non potrai mai più ascoltarmi o leggere queste righe lucide e per questo dolorose.
Oramai non posso più rintracciarti, non saprò mai come siano andate le cose, se esiste una verità dietro la tua realtà.
Sarà andata proprio così? Sei felice ora?
Sei davvero in quel luogo tanto agognato o, fuggendo da me, ti sei dissolta nel nulla?
In realtà non so quanto hai capito del mio amore; né, io, ho mai saputo leggere i tuoi sguardi luccicanti, d'altronde ti ho sempre manifestato sdegno. Rabbia per quel che credevo un tuo peccaminoso silenzio, ma forse non avevi compreso niente….
Mi accorgo che tra i rami del mio rancore era celato una gemma d'amore che, come un fiore venefico, è sbocciata nel mio cuore solo ora che sei via.
Non ho dubbi, sento profondamente la tua mancanza, io che sono ritornato qui, dov'eri prima.
Non abbiamo mai parlato delle nostre lacerazioni, evitavamo di evocarle, come fossero ectoplasma, per paura di visualizzare un orrore puro. Ha senso interrogarsi ora che non puoi più rispondermi? Perché continuo a scriverti se non leggerai mai queste righe?
Dovevo fuggire prima di nutrirmi del tuo latte avvelenato; avrei dovuto rifiutare il tuo seno, non quello delle altre donne.
…scusami ma non lo scrivo per ferirti, nessuno può più farlo…
C'è asprezza nelle mie parole? Non credo, è il dolore del bambino che si perpetua nell'adulto.
Ricordo perfettamente il giorno di due anni fa, quando mi hai annunciato che te ne saresti andata via.
"Non resterò ancora per molto".
Ora quel "per molto" è passato e tu con esso.
Perché allora ti scrivo con questa grafia illeggibile?
Per stemperare il dolore?
Per trovare un equilibrio su queste pagine che, nonostante le righe perfettamente parallele, non contengono la mia follia grafica.
Anch'io, forse, avrei bisogno di righe parallele dove adagiarmi, come su nuvole soffici.
Sei serena tu?
Possibile che non ti senta sola?
Che tutto il disagio sia in me?
…ah…ascoltare il mio dolore non ti farà felice perché ho la certezza che tu, chiusa nel tuo silenzio eterno, hai sempre voluto il mio bene…
Stanotte ho rovistato in un tuo cassetto e ho trovato le foto che feci sette anni fa, ricordi? Siamo in un vaporetto, in viaggio per Ischia. In partenza per le terme a curare quella che una dottoressa da quattro soldi, sbagliando, aveva diagnosticato come artrosi; in realtà erano i germogli del male.
Era il primo viaggio che facevamo io e te; un'occasione ghiotta per la mia mania di fotografare. Senza troppo pensarci ho iniziato a scattarti foto, poi ho deciso di farle insieme a te e ho installato la "fotocamera" sul cavalletto. All'inizio eri intimidita, ti sembrava così strano, poi hai seguito il mio consiglio di non pensare al posto e alla gente ma di soffermarti sui tuoi sentimenti.
Ora, in silenzio e con il desiderio di riascoltare il rumore del mare, mi rigiro tra le dita instabili due foto uguali se non per i pochi minuti trascorsi tra uno scatto e l'altro. Siamo seduti ad un tavolo del bar, l'abitacolo sottocoperta è deserto; solo noi due in balia di queste onde che fanno sobbalzare, con i tavolini, i nostri cuori.
Mamma, l'autoscatto ha immortalato la tua gioia di vivere e la felicità di essere in viaggio con me. Siano a fianco l'un l'altra, vicini ma distanti in questo gioco di luce ed ombre sbiadite dal tempo; ambedue con le braccia incrociate e il tuo gomito quasi sfiora il mio ma non lo tocca. Il sorriso del tuo volto è reale ma non intacca il mio silenzio. Guardiamo avanti, attenti al futuro, quasi incuranti del rovinoso passato poggiato suoi nostri corpi: due anime travolte dallo stesso uomo.
Quando le hai viste hai affermato che avevo talento perché "le tue fotografie svelano l'animo nascosto della gente"; quello che non sapevi e che quest'attitudine mi viene da te perché tu col solo sguardo, da sempre, capivi l'essenza delle persone.
Stanotte ho rifatto il viale che da bambino facevo assieme a te, mi sono fermato e seduto nel medesimo posto in penombra, ma la tua ombra non c'era, era notte fonda.
…chissà se sei cambiata, come me, in questo; se ancora ami la luce e il sole…
Ho risalito le scale e mi sono bloccato sulla soglia, non ho avuto il coraggio di oltrepassarla; mi sono allontanato e sono stato inghiottito dal cono oscuro della tua assenza.
Devi sapere che stento a rendermi conto di possedere un'ombra, di essere ancora vivo in un corpo malandato e, ora, anche trascurato.
Il tuo come sarà domani?
E domani l'altro?
E l'altro ancora?
Oso solo scriverlo ma non voglio immaginarlo.
Ti ricordi quando, diversi anni fa, ti ho accompagnato al cimitero?
Nessun altro ha avuto il fegato di accompagnarti, l'ho fatto io, per starti vicino, per non lasciarti sola.
Ho visto tirare su la bara da becchini inesperti, aprirla e, una dopo l'altra, depositare le ossa su un pezzo di stoffa steso dentro una carriola.
Tu, con me a fianco, con sguardo da mastino, accertavi che tutto procedesse bene; controllavi che nessuno osso sparisse perché - mi hai detto- "rubano le ossa per farne polvere con cui fare cattive fatture ai vivi."
La cultura sacro/contadina era in te.
Abbiamo guardato gli operai lavare le ossa, pulirle, asciugarle e metterle al sole e solo allora ho notato nell'osso della caviglia il perno d'acciaio conficcato.
" Guarda, c'è ancora il perno nel piede…"
Tu hai guardato e mi hai detto, con voce fievole:
"E' colpa mia…"
Mi hai ripetuto per l'ennesima volta l'episodio che, adesso, non voglio raccontare.
Hai preso dalla borsa il borotalco e un panno di lino in cui avvolgere le ossa mentre io le fissavo pensando a tutte le violenze subite dal defunto.
Con i pugni tremanti, ricercavo, tra le ossa del bacino, il pene che per tanti anni aveva oltraggiato il mio corpo di bimbo impaurito. Niente, sparito nel nulla l'organo che ha appesantito così tanto il mio quotidiano e che circola, come un topo schifoso, nei miei circuiti celebrali.
Hanno deposto lo scheletro dove si doveva, hai ringraziato e pagato gli operai.
Mentre uscivamo mi hai detto:
" Costà, hai visto? Era già tutto pulito, stava proprio bene papà…"
"Papà?"

Che cosa significano queste poche righe?
Mamma, hai accarezzato il tuo volto con la mia mano mentre stavi per lasciarmi e mi hai sorriso prima che quelle orrende contrazioni ti deturpassero il bel volto smagrito. Il tuo gesto ha reso tangibile l'amore nei miei riguardi, tu non hai mai smesso di amarmi e questa nuova consapevolezza mi procura una mialgia insanabile.
Tenevo la tua mano nella mia con cautela avevo paura di farti del male e ti ho parlato, ho cercato di rassicurarti, non so come io ci sia riuscito perché ero, e resto, in empatia con te.
Spero che la mia presenza, seppure con voce commossa, ti abbiano rasserenata ed accompagnata nel tuo mondo.
Non ti ho lasciato sola, non avrei potuto farlo, purtroppo l'ho fatto in passato, ma ho rimediato restandoti vicino per un anno intero; un anno di condivisione con la tua sofferenza…
Tra i tanti hai scelto me, mi hai ricercato e hai affidato quello che rimaneva del tuo corpo al tuo figliol prodigo.
Hai sempre capito tutto di me, avevi intimamente compreso la mia precoce fuga.
Il tuo sorriso mi ha fatto capire che eri contenta anche se so che non si può essere felice nel partire da soli.
Ti ho amata troppo per desiderare la morte che ti avrebbe annientati i dolori; egoisticamente non ho mai veramente desiderato il tuo decesso.
Eri di nuovo con me ma da meno di un anno e non volevo perderti, mi rimanevi solo tu e ho potuto soltanto rincuorarti mentre sopportavi dolori inenarrabili.
Non volevi i sedativi e per sentire la tua preghiera ho dovuto accostare il mio orecchio alla tua bocca perché le tue parole non avevano più voce e mai, in quella casa, l'avevano avuta:
" Ti prego, non farmi fare la morfina…voglio essere lucida fino alla fine… se perdo il pensiero tanto vale morire subito…voglio regalare a Gesù la mia sofferenza, per te... e per i tuoi fratelli…"
Non credo che ciò si possa chiamare un dono, comunque mi sono opposto agli altri per farti vivere fino in fondo i tuoi ansimi; spero che in quelle ore tu abbia messo a posto i tasselli della tua vita.
Non potrò mai dimenticare l'amore totale che ci ha resi unici e complici nel dolore.
La tua presenza regnerà nel mio inconscio e l'anima mia sarà piena di te, ma so anche la profondità del vuoto che lasci in me. Minuto dopo minuto il mio cervello replica la tua assenza, come l'orologio costretto a scandire le stesse ore in eterno.
Da oggi vivrai nel mio pensiero e mi illuderò di averti accanto per sempre.
Che cosa ne sarà di me, da questo nuovo abbandono?
Delle mie lacerazioni o di quant'altro ancora?
Mamma, ti auguro che nella tua vita futura, tu sia distante per sempre dall'uomo che ci ha così profondamente segnato, da cristallizzare te e me in un adolescenza infinita.
Un abbraccio.
P. S.
Mamma, il dolore che con coraggio e stoicismo hai sopportato, non ha intaccato la tua spiritualità e ha trasformato le rughe del tuo volto in solchi dolcissimi, linee artistiche, grafite preziosa.
A presto

" Nudo sono innanzi a Te
un filo di paglia
mi può trafiggere "
-Bartolo Cattafi -

 

 

PIAZZA SEMPIONE

Ai sorridenti in terre ostili

Da alcune settimane mi spostavo da via Campi Flegrei, dove abito, a Piazza Sempione. Percorrevo il chilometro a piedi per differenti motivi, innanzitutto perché in quel periodo mi era stata rubata la bicicletta, poi perché secondo i medici "devo" fare attività fisica, in verità per la brevità del percorso.
Il traffico, in quell'ora, è davvero al culmine, la via Nomentana è un'arteria frequentatissima a fine giornata lavorativa ed è percorsa dai tanti pendolari che vengono dal circondario; Mentana… e altri ma preferisco infilarci Tivoli, tanto per ricordare il luogo dove è situata la splendida Villa di Adriano.
Perché andavo in Piazza? Non certo per fare sforzi fisici (non riesco mai a fare le cose che "devo"), tra l'altro un chilometro a passo d'uomo è tutt'altro che uno sforzo, è un piacere, anche se percorso tra il frastuono delle auto.
Ci andavo per prendere un cappuccino.
Confesso che il cappuccino era un espediente per fermarmi, sedermi e sorseggiarlo in un pessimo chiosco a ridosso di un parco ristrutturato e a quell'ora prossimo alla chiusura serale, come tutti gli spazi verdi a Roma. Neanche fossimo a Medellin, dinieghi per occultare l'incapacità dei nostri governanti di assicurare sicurezza al cittadino.
Chiosco mal servito e pieno di tossicodipendenti, di fronte al sert, quindi il punto di riferimento di chi baratta metadone o eroina.
Drogati, clienti, gestore, tutti col capo chino, ormai più nessuno sa cosa sono le nuvole.
…dunque…Via Campi Flegrei, piazza Sempione, cappuccino… ah siii…
Da circa un mese mi fermavo lì, non per il cappuccino ma per il barista, un diciannovenne extracomunitario.
Molto sexy l'albanese, tra l'altro adottato -per così dire- da un settantenne della zona con cui coabita. Il ragazzo parla bene l'italiano e sin dalla prima sera ha notato il mio interesse per lui.
Scorto il mio sguardo sulla di lui intimità, per renderla più visibile ai miei occhi di avvoltoio, con una mano ha confezionato meglio il "pacco"; gesto superfluo perché tutto era molto esplicito, nell'implicito dei pantaloni.
Decisamente dotato il ragazzo… nel carpire i desideri altrui. Mi ha portato il solito sorridendomi e grattandosi (che abbia avuto le piattole?), atteggiamento che gli ha ben fruttato in mancia. Gesto remunerativo perché ripetuto tutti i giorni delle diverse settimane in divenire, ormai divenute e passate.
Dopo più di un mese trascorso con l'unico dialogo possibile tra la sua grattata e il mio cappuccino, cioè la mancia, nulla è cambiato.
La svolta è arrivata una sera che era assente dal lavoro ed io, piuttosto che farmi servire dal vecchio gestore, mi sono allontanato privo di meta.
Ero frastornato per la novità, ma anche felice di fare qualcosa di diverso. Non mi andava di fare ritorno a casa che, nei periodi di zero creativo, mi diventa buia e deprimente. Ho iniziato a camminare fino a quando qualcuno si è rivolta a me, chiedendomi qualcosa.
Ho alzato il capo e ho guardato lo sconosciuto. Più alto di me di circa dieci centimetri, capelli scuri, pelle ambrata e ricoperta di peli nerissimi, barba semi incolta e sguardo limpido; occhi delineati, quasi fosse indiano e non mediorientale. Poco dopo avrei ammirato i glutei ben modellati e le cosce robuste.
Ho decifrato la sua gestualità mentre pensavo "Cazzo che carino", poi, sorridendo, ho preso l'accendino. Tengo a precisare che non ho mai fumato ma quando servono ho sempre con me sigarette e accessorio.
Anche lui mi ha sorriso, ci siamo piaciuti subito, quale fusione chimica è esplosa tra noi non so dire, ma dieci minuti dopo eravamo seduti in un altro caffè a chiacchierare.
Lui non parlava l'italiano ed io per niente l'inglese però ci capivamo.
Mistero delle affinità d'animo, dovrei dire feeling?
Che cosa mi ha raccontato?
Di aver vagato per diversi paesi, Turchia, Grecia, Romania su di un cargo siriano che trasportava materiale per costruzioni; di essere scappato dalla nave dove lavorava come meccanico per trecento dollari al mese e di essere approdato in Sicilia, dove era stato fermo per otto giorni a Castellammare del Golfo.
Da sei giorni era a Roma senza fissa dimora, il mio olfatto, in verità, se ne era reso conto già da dieci minuti.
Dopo due ore di dialogo ho dato retta all'istinto e l'ho portato a casa dove si è lavato. L'ho fatto detergere con gli asciugamani di Houcine, il pischello algerino, biondo ricciuto come gli angeli delle parrocchie e come questi troppo presto volato via.
…Dunque…
Gli ho dato indumenti puliti ed abbiamo cenato insieme.
Prima di uscire ha lasciato a casa tutti i suoi documenti, per timore che glieli rubassero; l'ho accompagnato alla stazione Termini e gli ho dato il mio numero di telefono. Sono trascorsi quattro giorni prima che mi telefonasse.
Ero spaventato per lui, nel frattempo avevo raccontato tutto ai miei amici, che mi hanno dato del matto: "Come fai a fidarti di sconosciuti invisibili allo Stato Italiano… sarà un delinquente… ti poteva e potrà aggredirti… ti deruberà come ha fatto quel ragazzo rumeno…"
Più di un amico mi ha investito con le paure e i pregiudizi déjà vu sugli extracomunitari ma io ero in ascolto soltanto dei miei timori per la sorte di Amjad, così si chiama.
Non sapevo dove ricercarlo e a chi rivolgermi. Sono stato tre volte alla stazione Termini nella speranza di incontrarlo: niente, sparito nel nulla. Avevo deciso di andare all'ambasciata siriana, alla Caritas, alla polizia, all'obitorio.
Al quarto giorno mi telefona e gli ho dato appuntamento allo stesso luogo del primo incontro, ma ho atteso invano, non si è fatto vivo. Mi sono venuti strani timori e, sono uscito a fotocopiare tutti i suoi documenti, nascondendoli in una scatola.
Nella telefonata del giorno dopo mi ha spiegato di aver aspettato in non so quale piazza romana, non ci eravamo compresi. E' impossibile per telefono il dialogo tra due lingue che si ignorano.
Il sesto giorno gli ho dato appuntamento al Mc Donald di Termini, non sapendo che in stazione ce ne sono ben tre. Quello che credevo un luogo univoco si è rivelato impreciso del tutto. Ci siamo rincorsi per quasi un'ora da un fast food all'altro; poi a casa, un deja vu di doccia e abiti fetidi.
Quando gli ho rivelato che il giorno dopo sarebbe arrivata mia sorella si è intimidito ed è sparito di nuovo, per tre giorni, il tempo di soggiorno della parente.
Quattro giorni dopo altre docce, altro slip, altri calzini e canottiera e anche un giubbotto, quello in tessuto nero con l'interno di lana bianca: prima lavatrice.
Era con me la sera in cui ho avuto, improvvisa come la morte, una forte intossicazione (da farmaci, ho saputo poi) con vomito continuo, fortissimi dolori emicranici e tantissimi punti rossi su tutta la schiena. Si era così preoccupato che ha voluto attendere una mia amica, trascurando il ritardo per andare al lavoro.
Lavoro? Piuttosto sfruttamento, come altro denominare dieci ore notturne di fatica massacrante ai mercati generali di Ostiense per la misera cifra di trentamila lire a notte?
Mi ricordo del simbolo verde decisamente fuori regione tracciato su un muro del quartiere Ostiense e, con rinforzato accento napoletano, disapprovo quella politica, per niente italiana, di costruire muri di pregiudizi.
"via gli extracomunitari sutati, sporchi e maleotoranti che ci rubano il lavoro di noi italiani"
Nell'attesa dell'arrivo della mia amica, ha preparato alla meglio uno zaino, mi ha abbracciato dicendomi che sarebbe stato felice di accompagnarmi in ospedale. Ho preferito non farlo venire.
Nei giorni successivi al mio breve ricovero, con grande sorpresa, ho ricevute diverse sue telefonate, voleva informarsi sulla mia condizione, il suo essere partecipe mi ha commosso.
Ci siamo rivisti una settimana dopo a cena. Mi ha raccontato che dormiva in una baracca ad Ostia antica, insieme ad un algerino che spacciava droga; mi ha comunicato il suo timore di potere essere scambiato per un complice dello spacciatore.
"My mother… morirà…se io carcere…"
Dal giorno dopo dorme nella mia casa, mangiamo insieme, scherziamo come due fratelli, dialoghiamo come solo gli amici fanno. Io cucino e lui lava i piatti; io compero carne e pane, lui verdura e frutta e tutto ciò che è reperibile ai mercati ortofrutticoli.
Ha conosciuto tutti i miei amici e tutti lo reputano molto educato e carino. Io lo trovo bello, la sua bellezza per me non è nel fisico decisamente statuario ma nel sorriso adolescenziale, nella disarmante ingenuità che trasmette.
Scherziamo molto sul mio presunto desiderio sessuale nei suoi confronti e lui non ha nessun timore, anzi. Scherza molto con me quando mi fa i massaggi, ed è davvero molto bravo, riesce sempre ad alleviarmi i dolori di schiena e la costante emicrania (o cefalea, non ricordo mai) Come amici quindicenni, ci baciamo, coccoliamo, discutiamo, ci abbracciamo.
Ci amiamo di un Amore che non sfiora la sessualità ma è visibilmente sensuale, fisico.
Il ventiseienne mi fa tenerezza allo stesso modo dello scodinzolio di Chicco, il cagnolino amico del fanciullo che ero, crudelmente ammazzato dal rancore di un padre (al limite del Delirium tremens) per delle pulci che lo avevano infestato; in verità perché si sentiva perseguitato dalle grida della mie risate, e lo infastidivano i miei giochi con il minuscolo quadrupede.
Amjad mi comunica sempre gli umori e le sue sensazioni e, quando è contento, mi abbraccia e mi bacia sulle guance; mi stringe riconoscente di essergli amico.
Io sono felice che divida con me lo spazio ristretto del mio appartamento; conviviamo amorevolmente con intesa e rispetto, tutto ciò che i fratelli non mi hanno mai dato.
Devo affermare che lui, lavorando di notte, si addormenta appena arriva a casa, tranne il Venerdì perché, finito l'orario di lavoro, va direttamente alla Moschea a pregare. E' un mussulmano rigoroso, prega anche a casa e, in questo periodo di Ramadan, non mangia, né fuma, né beve prima del tramonto…
Ho divagato…
…la mia memoria labile è un dono che viene da lontano. Un trucco che il mio cervello bambino usava per sfuggire al ghetto della violenza; per questo motivo continuo a fotografare la mia età inesistente e a scrivere lettere interminabili…
Dunque…
Era di mercoledì ed io, cordialmente, ho rimproverato Amjad per un suo atteggiamento e lui ha reagito in un modo che non avrei mai immaginato.
…Cosa era successo? Dunque sì…
Dormiva anche quel giorno quando io sono entrato in camera nell'ora di pranzo per svegliarlo. Nel sonno, forse agitato per la stanchezza, la coperta era caduta in parte a terra, il suo corpo era scoperto, alla mercé del mio sguardo sezionante. Ho ammirato le cosce muscolose e ricoperte di fitti peli neri, il volto addormentato con i grandi occhi così delineati, le labbra carnose mentre il naso decisamente grosso rendeva il mio sguardo insostenibile. Non smettendo di guardarlo con ammirazione l'ho chiamato e lievemente strattonato per un braccio.
"Amjad è pronto…"
Lui ha aperto gli occhi e, forse infastidito dal mio sguardo, si è ricoperto le cosce, affermando, con tono che mi è sembrato duro:
" Sta zitto!"
Quel tono mi ha scaraventato nel tempo di sempre e, con la testa in lacrime, mi sono ritrovato a bocca aperta aspettando la fine del godimento del boia che mi ha generato.
Ho ingoiato il passato e gli ho chiarito che era pronto il pranzo; si è alzato per andare in bagno, poi è venuto vicino a me in cucina, per aiutarmi come sempre.
A questo punto l'ho guardato con uno sguardo pieno di tensione e, carico di un dolore mai passato, tra il vero e il faceto, ho ripreso con freddezza il discorso su lo "sta zitto" e quel gesto, inutile, di ricoprirsi le cosce.
" Perché hai urlato così, credi che ti stavo per violentare?"
" No capito... Costanzo…"
Con i toni accesi e gesti esagerati gli ho fatto capire il mio disappunto per quel comportamento; ma quale atteggiamento, se è il ricordo della violenza di mio padre a rovinarmi le relazioni. In verità pensavo o, forse solo credevo, che il ragazzo spezzasse la tensione costruita ridendo con me, invece si è seduto sul divano in silenzio.
Ho portato il cibo in tavola, lui si è alzato con un'espressione triste. Si è seduto di fronte a me, ma non toccava il cibo; l'ho chiamato diverse volte per invitarlo a mangiare, non mi ha risposto.
"Amged, ma che hai?
Si è portato una mano al viso ed ad iniziato a piangere. Piangeva a dirotto e non riusciva a frenarsi. Io mi sono sentito in colpa perché la mia rabbia passata aveva investito un altro innocente, ferendo l'unico ragazzo che non ho mai smesso d'amare. Mi sono avvicinato e l'ho abbracciato:
" Dai, non volevo… scherzavo. Mi dispiace, è colpa mia, vero?"
" No Costanzo… bad people… io lontano casa, my mather… tu molto pravo..you my angel…"
Non riuscivo a dire altro che "Mi dispiace"; mentre come un petalo mattutino avrei voluto assorbire le gocce di rugiada del suo sguardo castano.
Mi sono alzato e mi sono portato dietro di lui, stringendolo per le spalle, è questo il modo con cui riesco a trasmettere il mio affetto.
Ho iniziato a colloquiare e, se ho le corde dell'anima in vibrazione, divento davvero verboso. Parlavo, parlavo, e accompagnavo le mie parole con gesti molto espliciti, da buon napoletano. Più conversavo, più le sue lacrime evaporavano dietro il suo muovere la testa, nel suo fisico acconsentire.
Gli ho riportato alla coscienza (che spesso è annullata dalle emozioni) la sua fortuna di avere costruito un'amicizia in un paese straniero e di aver trovato subito un alloggio. Ora, da solo e per iscritto ribadisco la fortuna di averlo incontrato.
" Ok, vero…, you pravo…"
… si dice BRAVO…"
"..sì, bravo… io niente for you.. angel…tu my angel io niente… io povero…"
" Non è assolutamente vero, Amged… quando capirai bene l'italiano ti spiegherò come tu ricambi molto… e perché io sono felice di aver fatto la tua amicizia poi … you beautyfull.. zebbi…"
" No Costanzo… che dici… lo sai, non posso… non mi piace…"
Mi ha guardato e, capendo il mio occhietto ironico, mi ha sorriso.
" Ok, dopo finito il ramadam…"
Non c'è nulla di più celestiale di un sorriso su una guancia piena di lacrime.
" Sorry… cry fa bene a me… io…"
" Ci si scarica, lo so… peccato che io non ci riesca, tutto il mio pianto si è bloccato da bambino…"
Abbiamo iniziato a mangiare ma prima ha precisato:
"No dire ai tuoi amici io pianto… ok?"
Il mio ok era una menzogna e queste pagine lo dimostrano.

"O forse, compiuto il cammino,
scaduto il tempo, tornerò:
là - non ho potuto amare
qui - di amare ho paura."
- Osip Mandel Stam -

 

PIAZZALE AGOSTINO GEMELLI

In memoria di Umberto

Spostato in un angolo, sul ripiano del tavolo, il vassoio con i resti della cena.
Al limite, quasi a sfidare la fisica, un bicchiere con due dita di tè tiepido, che dondola minaccioso ad ogni movimento del braccio.
Una cartella marrone con gli angoli consunti, quasi rosicchiati dai topi cerebrali, qualche foglio sparso e un walkman.
Seguendo un filo, si arriva al volto che è perso, non nella musica, ma nel paesaggio che cerca di riprodurre sul foglio. Accanto al suo braccio sinistro c'è una scatola aperta di gessetti.
Macchie di verdi diversi con zone di castano e qualche rosso spento vicino ai tetti spioventi, anch'essi di un rossiccio, che interrompono l'orizzonte frastagliato. Se non fosse per un aereo, che lascia una traccia labile, il cielo sarebbe insondabile ma, si sa, la civiltà è andata oltre se stessa.
Qualche uccello col suo fragile volo sembra contrastare la scia dell'aeroplano.
Lo sguardo è perso in quel cielo meraviglioso: un celeste fuso in nuvole bianche appena spennellate di rosso per il tramonto che si avvicina.
Egli guarda tutto questo quasi senza fiato e, attraverso la finestra della camera, cerca di riportare sui fogli bianchi questo frammento di realtà. Vuole riprodurre la luce che cambia, ma la sua mano è troppo stanca o, forse, eccessivamente lenta, e non riesce a fissare le conseguenze del moto rotatorio della terra, che cambia luce, ombre e umori.
Dal disegno il cielo entra con prepotenza tra le pareti della stanza dell'indagatore e lo rende partecipe della sua esclusione dal giorno che finisce.
Qualcosa di inaccessibile alla mia coscienza rende violento quel tentativo di riproduzione; infatti, d'improvviso, si accanisce coprendola con segni scuri.
Le moderne stimmate rendono abnormi le vene delle sue mani prosciugate. Nuvole di pensieri si poggiano sulla fronte e gli rendono difficile la respirazione.
E' la prima volta che mi soffermo a guardarlo, la sua faccia è una maschera larvale, ma la bellezza non è morta, è viva nello sguardo non arrendevole.
Il filo, che credevo del walkman, si rivela un tubicino infilato nelle narici.
Mi annullo nello stillicidio invisibile dell'ossigeno.
Umberto respira seduto su una poltrona ad un tavolo del reparto di Malattie Infettive.
Questo uomo è la parte tremula di me.

"Stanotte la luna sarà una falce
E anche se solo per una razione
Il tuo amore mi manca
Come la visita ad un carcerato
E mi arde dentro come fosse ieri
Che fuori ti sognavo…"
-Antonio Funicola -