Renzo Montagnoli

Mi chiamo Renzo Montagnoli, sono nato a Mantova nel 1947 e risiedo a Virgilio (MN) con Svetlana, mia moglie, una signora russa appassionata di ricami artistici; laureato in economia e commercio, per lungo tempo dipendente di un'azienda di credito, sono ora in pensione e mi diletto a scrivere poesie e racconti, molti dei quali presenti in diversi siti Internet, in antologie e in e-book. Inoltre, mie poesie e miei racconti sono pubblicati sulle riviste letterarie Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia.

Sito internet:  http://www.arteinsieme.net/renzo/

Sentieri di guerra

L'auto si fermò dove terminava la strada militare e iniziava una pietraia scoscesa.
Ne scesero quattro uomini; tre si guardarono all'intorno, mentre il quarto rimase con gli occhi abbassati.
- Signori, siamo arrivati; da qui in avanti vedremo solo trincee, scavate a forza di mani nella roccia carsica, a volte abbastanza profonde, ma altre niente più che dei modesti avvallamenti dove era necessario restare sempre sdraiati. Vi faccio strada.
- Grazie, vada pure avanti lei colonnello; io, il dottore e il mio povero fratello le verremo dietro, ma mi raccomando di procedere piano. Non alza mai gli occhi, ma chissà che con il ricordo di questi luoghi di dolore non possa rinsavire.
Si incamminarono su per l'erta, lungo una traccia di sentiero che procedeva tutto a curve brevi e secche, in un paesaggio quasi lunare e totalmente arido, senza nemmeno il più piccolo filo d'erba.
Arrivarono così a un rialzo di modesta altezza e dimensione, ma pianeggiante.
- Ecco, vedete dove siamo ora c'era il posto di pronto soccorso, una cosa alla buona, niente più di una baracca, dove il chirurgo e i suoi assistenti prestavano le prime cure; per i feriti lievi non c'era nessun problema, perché bastava un leggero bendaggio e poi venivano rispediti in prima linea. Per gli altri le cose erano diverse: se c'erano speranze di sopravvivenza, venivano un po' rattoppati e successivamente inviati all'ospedale vero e proprio nelle retrovie; se invece erano spacciati, venivano sistemati fuori, distesi sulla barella, insieme agli altri che attendevano la diagnosi del medico, e lì…lì morivano.
- Posso immaginarmi, colonnello, le scene di dolore e di disperazione, a cui avrà forse assistito anche mio fratello.
- No, signor Fabbri, per quanto si possa sforzare non potrà mai farsi un'idea esatta di quello che era e pure io che combattevo un po' più in là non ho potuto provare l'angoscia della disperazione nell'attesa del verdetto come quando mi ci sono ritrovato con il mio braccio sinistro maciullato, con il sangue che usciva a fiotti dalla ferita e si mischiava a quello degli altri che erano distesi vicino a me. In quei momenti si è fortunati se si è in stato di incoscienza, altrimenti, in mezzo ai pensieri più cupi, si avverte chiaro il gelido respiro della morte, un soffio lieve, ma costante, che passa su quei poveri diavoli per fermarsi sui prescelti.
- Mi vengono i brividi a sentirla dire queste cose e non vorrei mai essere venuto se non fosse per quel tentativo che il Dr. Marra vuol fare per far tornare in sé mio fratello. A proposito, dottore, lei che è esperto e che conosce già il problema per averlo in cura da tanto tempo, si è accorto se ha avuto qualche reazione?
Il Dr. Marra, luminare di psichiatria dell'Università di Padova, un uomo che aveva evitato la tragedia della guerra perché avanti con gli anni, si limitò a scuotere la testa.
- Andiamo avanti, verso le trincee vere e proprie che disteranno non più di una cinquantina di metri, subito dietro quello sperone roccioso.
Ripresero il cammino e in effetti, dopo nemmeno una decina di minuti, arrivarono a superare il costone di roccia e lì si aprì alla vista uno scenario apocalittico. La guerra era finita da appena un anno e tutto era rimasto come prima, con l'unica differenza che non c'erano soldati, ma i reticolati, in più punti divelti, i cavalli di frisia più avanti se ne stavano ancora là, come un sinistro arredo a dimostrare che i solchi nel terreno erano stati l'opera di centinaia di uomini, che le voragini che si aprivano ovunque erano il risultato dell'impatto dei proiettili d'artiglieria, che le migliaia di bossoli sparsi ovunque costituivano la prova degli altrettanti colpi sparati.
- Queste sono le nostre trincee, poi c'è un tratto semipianeggiante di un centinaio di metri e in fondo ci sono quelle del nemico, talmente vicine dal poter udire a volte il parlottare dei soldati austriaci, ma talmente lontane da raggiungere quando si andava all'attacco che si aveva l'impressione di correre fino in capo al mondo.
Il colonnello si fermò un attimo, guardò meglio il paesaggio come a farsi tornare in mente quel che una volta c'era e ora non esisteva più, poi riprese - Proprio alla vostra destra c'era la compagnia mitragliatrici. Ricorderò sempre quella notte del settembre del 1917 quando fu spazzata via in un sol colpo da un proiettile di bombarda: uno solo, senza nessun preavviso, e quelli che stavano là non si risvegliarono più e nemmeno riuscimmo a trovarli. Erano come svaniti nel nulla, scavammo, ma senza risultato: di cinquanta uomini l'unico segno che rimase fu uno scarpone insanguinato. Per ironia della sorte ci fu un superstite, che si era da poco allontanato per raggiungermi al comando, ma che fu ugualmente investito dallo spostamento d'aria, sbattuto di qua e di là, ma senza danni apparentemente gravi: il tenente Mario Fabbri.
Si fermò e guardò l'uomo dagli occhi bassi - Sì, sei stato l'unico superstite, ma da allora non sei più stato tu. Ricordi, Mario?
Non rispose, sempre chiuso in se stesso, ma si poté scorgere chiaramente un battito di ciglia, come se all'improvviso qualche cosa fosse apparso nella sua mente, per poi scomparire pressoché immediatamente.
- Del problema se ne sono subito accorti i medici dell'ospedale militare che l'hanno mandato per le cure del caso alla clinica di Padova, dove appunto lei Dr. Marra l'ha preso in consegna. Non ci sono stati cambiamenti nel suo stato?
- No, mai. Sempre apatico, insensibile al suono delle voci, alle carezze di una mano amica.
Il colonnello si riavviò e, sempre seguito dagli altri, superò la trincea e cominciò a procedere in quella che, in gergo militare, viene chiamata la terra di nessuno.
- La chiamano la terra di nessuno, ma non è così: è la terra dei tanti che l'hanno calpestata, che, dall'una e dall'altra parte, hanno cercato di farla propria, dissodandola con i proiettili di cannone, bagnandola con il loro sangue, seminandola con i loro corpi.
Si gridava "Avanti, Savoia!" e si correva come impazziti, con l'angoscia che ormai aveva vinto ogni umana resistenza e con l'unico scopo di vincere la morte. Qua e là, in questa terra martoriata, affioravano putridi i corpi dei caduti, mani scheletriche uscivano dal suolo quasi a volerci ghermire.
- Mi meraviglio di sentire un militare del suo grado parlare in questo modo e con questi toni.
- Ha ragione, signor Fabbri, perché un soldato di professione deve essere abituato alla guerra e alla morte, ma sotto la divisa c'è sempre un essere umano, con le sue contraddizioni, con le speranze, con le paure, che lo differenziano dalla bestia.
All'improvviso si udì la voce del Dr. Marra - Fermatevi! Mario si è chinato e ha trovato qualche cosa.
Il fratello e il colonnello corsero subito: Mario era in ginocchio, stringeva nella mano qualche cosa e singhiozzava.
- Buon segno - disse il Dr. Marra - Vediamo che cosa ha trovato.
Gli prese la mano e con non poca fatica riuscì ad aprirla, scoprendo una targhetta metallica arrugginita, ma non tanto da non poter leggere quello che vi era impresso: Albert Kaufmann 01256344.
Il colonnello spiegò il significato di quell'oggetto: - E' una piastrina militare di un soldato austriaco; serve a identificare meglio la vittima.
Mario rinserrò il pugno e si asciugò il volto con il bordo della manica, si alzò e sempre a occhi bassi, senza profferir parola, si avviò lunga il percorso donde erano venuti. Superò la trincea, il posto di pronto soccorso, arrivò all'auto e vi salì.
Gli altri, mentre lo seguivano, si interrogavano sul suo comportamento.
Il fratello, in particolare, chiese al Dr. Marra se c'era stato l'auspicato ritorno della coscienza.
- E' troppo presto per dirlo, ma nutro dei dubbi. Almeno avesse parlato, avesse spiegato l'importanza per lui di quella piastrina, si fosse messo a cercare… E invece si è girato ed è quasi corso all'auto. Signor Fabbri, temo che Mario non ritornerà più in sé.
Il colonnello decise di intervenire - Io non mi intendo di queste cose, ma penso che il nostro disgraziato amico abbia ormai lasciato qui da tempo il suo cuore e la sua mente e che quell'oggetto di uno sconosciuto, ma che ha combattuto dove c'era anche lui, rappresenti il legame materiale con questo luogo. Posso sbagliarmi, ma invece è un inizio, è la prova tangibile del ritrovamento della memoria. Certo che lei dottore dovrà lavorare molto e, soprattutto, dovrà esser per lui ciò che da quella notte gli è mancato: la fiducia nel futuro.
- Può essere, colonnello, e se sarà così faremo il possibile per farlo tornare a vivere, lavorando sulla sua memoria e facendogli accettare una realtà che è già passata, un brutto sogno da cui dovremo risvegliarlo.
Arrivarono all'auto e vi salirono, il signor Fabbri e il colonnello davanti, il Dr. Marra dietro accanto a Mario.
L'auto ripartì, sobbalzando sull'acciottolato, in una nube di polvere impalpabile.
Mario, sempre stringendo la piastrina, appoggiò il capo sulla spalla del medico e singhiozzando mormorò - Mai più guerre.

 

I silenzi sospesi

"Mi piace venire in questo posto, non appena mi è possibile, ascoltare il silenzio che qui regna sovrano. Chiudo gli occhi e vedo immagini che nessun altro potrà mai vedere: sono ricordi che si riallacciano al presente, volti di cui non ricordo più il nome e che si avvicendano nella mente, oppure sembrano uscirne quasi a strappi, come i coriandoli lanciati per carnevale. S'alternano a visioni di paesaggi di località che non ho mai visto, ma che tanto mi sarebbe piaciuto visitare; sono sprazzi dipinti nel cervello che si compongono secondo l'estro del momento e come le idee che nascono all'improvviso mi provocano un senso di stupore, come l'aver scoperto qualche cosa che era sempre stato lì, ma che i miei occhi non riuscivano a scorgere.
Sì, mai come in questo posto riesco a creare con una forza insopprimibile che ha solo la necessità di un ambiente adatto per poter prorompere.
Passano gli anni, le stagioni si avvicendano, oggi cammino sulle foglie morte, che ancora, svolazzando, cadono dagli alberi. Gli alberi, così silenziosi, muti, ma che parlano con le loro forme, spesso contorte come se anche per loro esistesse la sofferenza di vivere, loro che ogni anno sembrano morire in questo periodo, per tornare poi a rivivere la primavera successiva. A me non è concesso un simile privilegio e già l'autunno è in corso, una lunga estenuante stagione che mi intorpidisce lentamente, in un silenzio interno che poco a poco, senza che me ne potessi accorgere, mi ha sopraffatto.
L'unica voce che è in me è quella della mente, appunto con queste immagini che riesce a creare per abituarmi al distacco e così si affievolisce la realtà, le emozioni si smorzano, nulla può turbare questo deserto dei sensi.
Io chiamo tutte queste cose i silenzi sospesi, perché per gli altri non ci sono, ma sono come a mezz'aria, all'intorno, dentro di me, in ogni mia cellula e quando questo stato di equilibrio precario verrà meno ne resterà solo uno, totale, definitivo, di cui non potrò però accorgermi".

- Venga, Signor Paolini, dobbiamo tornare, si è fatto tardi. La sua visita giornaliera al cimitero dell'ospizio è terminata.

"Saranno brave queste infermiere, ma rompono decisamente; è così bello starsene nel silenzio assoluto, in un tempo tutto mio e, tac, ecco che devo per forza rientrare nella quotidianità, in quel vivere civile fatto solo di gestualità ripetute, di abitudini insensate."

- Si appoggi a me; ecco, così, piano, piano , un passo dopo l'altro e arriveremo giusto in tempo per la cenetta.

"Sentila com'è gentile e premurosa, ma tutto ha un prezzo; mio figlio vede la soluzione di ogni problema con il denaro e so bene che quelle poche volte che viene a trovarmi le allunga un bigliettino da 100 euro.
Mio figlio, un perfetto uomo d'affari, abile, intelligente, ma senz'anima. Delle volte mi chiedo se è nato così o lo è diventato per colpa mia. Preferisco la seconda soluzione, perché così almeno avrebbe un significato starmene rinchiuso in questo carcere da cui si esce solo con i piedi in avanti, anzi non si esce proprio, perché sono stati talmente furbi che al suo interno ci hanno costruito anche il cimitero, e nel posto più bello, in fondo al parco, vicino al torrente, così che venga voglia di andarci a stare. Mi ci sto abituando poco a poco: per ora ci vado con i miei piedi, ma poi mi ci dovranno portare e non avrò più al fianco l'infermiera che mastica la gomma americana, si fuma una sigaretta ed è impaziente che finisca la mia ora d'aria. Non sa che la vita è fatta anche di questi silenzi, durante i quali mi accorgo di esistere."

- Ecco, vede che siamo arrivati; adesso si va a lavare le mani e poi si mette a tavola. Sento un profumino…gran bella cena quella che l'aspetta.

"Se lo dice lei, è segno che s'accontenta di poco. Non che il vitto sia scadente, anzi è di discreta qualità, ma quello che manca ai pasti è il piacere di stare a tavola, quel piacere che ho sempre provato in famiglia. Allora il cibo sembrava ancor più buono di quello che in effetti era, perché era l'essere insieme che dava soddisfazione, dava un senso a qualsiasi cosa, anche a una necessità fisiologica quale può essere nutrirsi. E poi si parlava, e anche si scherzava. Ora, invece, sembra che siamo tutti lì per prendere una medicina: non è l'appetito che sembra mancare, ma il piacere di doverlo soddisfare. E' un silenzio diverso quello che aleggia durante il pasto, è una sorta di rassegnazione stanca che si ravviva a ricordarmi che ogni gesto, ogni consuetudine di un tempo non ha più nessun significato.
Che senso può avere fingere l'indifferenza verso il proprio stato?"

- Signor Paolini, scusi, ma c'è una visita per lei: suo figlio.

"L'ultima volta è venuto due mesi fa, sempre in orari strani; allora stavo per andare a letto, ma non mi ha fatto rinviare il sonno e se l'è sbrigata in una decina di minuti, tanti per lui, pochi e troppi per me, a seconda di come si veda la questione. Pochi, ripeto, perché mi illudo sempre che possa rivolgermi la parola aprendosi quell'animo che non ha, troppi perché è insopportabile quella sua ostentazione di naturalezza, come se fosse venuto a trovarmi a casa, anziché all'ospizio."

- Papà, ti trovo splendidamente.

"Ecco che cominciamo proprio bene; adesso attaccherà le solite litanie: gli affari, il successo, parla, parla solo di lui, come se davanti non ci fosse nessuno, ma una platea costituita da una miriade di suoi cloni."

- Non ho potuto venir prima per via del lavoro, sai, insomma, se non si fatica non si guadagna e per fortuna che io sono il migliore.

"E ti pareva che fosse il contrario."

- Perché non parli, perché non mi dici niente? Sono anni che sembri nemmeno ascoltarmi. Ti devo dare una notizia che è una bomba: mi è nato un maschio e abbiamo deciso di chiamarlo Carlo, come te. Sei felice? Dai, dimmi che sei felice?

"Potrei esserlo, ma fra la possibilità e la realtà di una cosa il divario è enorme. Dovrei essere contento perché mi è nato un nipotino che mai potrò vedere? Dovrei rallegrarmi perché gli hanno dato il mio nome? No, questo nuovo essere mi è e resterà più sconosciuto di mio figlio, per il semplice motivo che non ne potrò sentire il calore, né lui potrà sentirsi mio nipote. Quanto ho desiderato un tempo di diventare nonno, di vedere nel figlio di mio figlio sbocciare un'esistenza a cui contribuire con lo spegnimento della mia!"

- La prossima volta che vengo ti porto una sua foto. Adesso purtroppo devo andare, ma ritornerò ancora e cerca di star bene.

"A che pro star bene? Per rinviare la fine dei miei giorni, per continuare a recitare la parte di un uomo a cui la vita non può offrire più nulla? Parla, parla e dice solo delle cazzate; questa volta almeno è rimasto meno del solito. Queste parentesi in un'esistenza monotona, e già di per se stessa insopportabile, danno un senso di squallore e ti fanno sentire esattamente quello che sei: del tutto inutile.
Ho deciso che non ceno e che vado a letto subito, a godermi il silenzio della camera, in quel buio a cui mi sto sempre più abituando e che celandomi tutto nasconde anche l'immagine di un vecchio stanco di vivere. Ma non resto solo; fra me e il nulla di questa massa scura c'è l'unico amico che mi è rimasto, fedele, sempre presente purché lo desideri: il silenzio."

 

La canzone di Maria

Perché era andata a rovistare nella soffitta, fra ragnatele e vecchie cassapanche polverose?
Maria se lo andava chiedendo, mentre buttava da un lato vecchi stracci, conservati senza un motivo, senza una logica.
Forse era il tempo che non le mancava, le poche ore di sonno, la tediosità di una vita in solitario di una signora che aveva passato ormai la settantina.
Quella mattina si era alzata assai presto, quando ancora non albeggiava, e dopo le abluzioni aveva preso il solito caffè, d'orzo però, come le aveva consigliato il medico a causa dei disturbi del suo cuore; più che un malanno era un fastidio, un'aritmia ricorrente che le metteva affanno.
Il giorno prima aveva lavorato a lungo, preparato la camera degli ospiti, armeggiato in cucina per preparare quei piatti che a sua figlia piacevano tanto e questo perché lei e il marito sarebbero arrivati con il nipotino all'indomani. Non la vedeva da un anno, perché Livia, così si chiamava, da quando si era sposata si era trasferita con il marito negli Stati Uniti, dove lui lavorava in un laboratorio di ricerche. I contatti, se pur telefonici, erano frequenti, ma rivederla era tutta un'altra cosa.
Nell'attesa, quindi, le era venuta l'idea di fare un salto in soffitta a fare un po' d'ordine.
Mise da una parte una gran quantità di giornali ammuffiti, poi passò a un'altra cassapanca, l'aprì e sotto una patina di polvere vide una grossa agenda. Avvertì una forte palpitazione, la prese subito in mano e rimase a contemplarla: sul dorso era impresso l'anno 1938.
Aveva sempre avuto la passione di tenere un diario, ma aveva conservato solo quello e lei sapeva bene il perché. Con mani tremanti iniziò a sfogliarla fino a quando arrivò al 10 aprile; si aggiustò gli occhiali e si mise a leggere.

"Oggi ho compiuto gli anni; c'è stata una grande festa in famiglia e il papà ha comprato una torta con 20 candeline. Mi sono emozionata e anche commossa: sono venute tutte le mie migliori amiche e c'era anche lui, Stefano. Mentre tagliavo la torta, ho visto che mi sorrideva. Quanto è bello, non è un uomo, ma un sogno; potrò mai aspirare un giorno a essere prescelta da lui per essere sua moglie? Io credo proprio di amarlo, ma lui… amerà me? Quel sorriso può significare tante cose, anche un semplice cenno di amicizia.
Abbiamo mangiato la torta, ma io non ho avuto occhi che per lui. Penso che se ne sia accorto, perché a un certo punto mi si è avvicinato e mi ha detto - Buona, veramente buona Maria; una gran bella torta, degna di una gran bella ragazza.
Credo di essere arrossita, ma quelle parole mi hanno inebriato, più del bicchierino di spumante che mi sono sforzata di bere.
Poi ho aperto i regali e mano a mano che mi passavano i pacchetti attendevo ansiosa quello di Stefano e quando è arrivato ho sciolto quasi tremando il nodo del pacco che piccolo non era, e infatti c'era dentro un disco.
L'ho voluto sentire subito ed è bellissimo, una canzone solo per me intitolata "Parlami d'amore, Mariù"; l'ho ascoltata come in sogno e lui era di fianco a me; a un certo punto mi ha cinto la vita e mi ha invitato a ballare. Non credo di aver mai danzato così male in vita mia come oggi; non sentivo la musica, intorno a me non c'era più nessuno, se non lui.
Dio mio, fa che questa felicità abbia a durare in eterno."

Una lacrima fece capolino fra gli occhi, ma l'asciugò subito e fece scorrere le pagine successive, in cui il diario di ogni giorno cominciava con "Il mio Stefano", poi arrivò a un punto in cui il foglio era in parte strappato; si fermò un istante, mentre avvertiva la tristezza che l'assaliva; si fece quasi coraggio e cominciò a leggere.

"20 settembre
Il mio Stefano non è più mio; oggi ci siamo lasciati, o forse è stato lui a lasciarmi, incapace di sopportare l'amore che gli riverso ogni giorno; sono sicura che non ha un'altra, ma è da un po' di giorni che ho notato che si va raffreddando nei miei confronti e quella magica atmosfera è diventata un grigiore piatto; forse siamo troppo giovani con i nostri venti anni,
forse l'amore è così, un sogno che con il tempo si affievolisce; non sono più sicura di amarlo come prima, e forse è meglio che tutto finisca presto."

E notò che l'ultima riga era sbiadita, come se le lacrime avessero diluito l'inchiostro.
Ripose il diario, fece scorrere le mani lungo uno dei fianchi della cassapanca e trovò il disco. Diede una spolverata alla vecchia copertina e decise di riascoltarlo dopo tutti quegli anni.
Ne era passato tanto di tempo, da quel 20 settembre non aveva più rivisto Stefano, di lì a qualche mese aveva conosciuto Roberto, più vecchio di lei di una decina di anni, si erano piaciuti e già alla fine della primavera dell'anno successivo si erano sposati. Poi, la guerra, gli anni difficili del dopo, la nascita di Livia, la morte improvvisa di Roberto, un buon marito in un matrimonio più d'affetto che d'amore.
Scese le scale e arrivò in salotto, accese il giradischi e…

Le note si diffusero nella stanza e con esse le parole della canzone
"Parlami d'amore, Mariù
Tutta la mia vita sei tu"
Quella spina che le era rimasta in fondo al cuore le provocò una fitta, un tremendo senso di sconfitta, una lacerazione dell'animo che neppure lo sfogo delle lacrime riuscirono a placare.
"Gli occhi tuoi belli brillano
Fiamme di sogno scintillano"
Perché, perché era finito tutto, perché il sogno era cessato?
E chissà dove era ora Stefano?
"Dimmi che illusione non è
Dimmi che sei tutta per me"
Strinse forte i pugni, soffocò l'urlo che prepotente chiedeva di uscire dal suo petto.
"Qui sul tuo cuor non soffro più
Parlami d'amore Mariù…"
Le parve di impazzire, con i ricordi che si accavallavano alla realtà del presente, sogni, speranze mancate contro le concretezze del tempo trascorso.
Si sentì quasi mancare, ma non c'era altro da fare, ormai.
Si alzò, spense il grammofono, ne trasse il disco e lo spezzò in tante piccole parti, poi decise che anche il diario avrebbe fatto la stessa fine.

A futura memoria

E' passato ormai tanto tempo, quasi un secolo, e quei nomi incisi nella lapide sul frontale della chiesa del villaggio, a futura memoria di chi è caduto per la patria, non sono altro che lettere sconosciute ai più.
Vado spesso in quel dolce paese di montagna, ai piedi delle Dolomiti, sia per il clima mite che per il paesaggio di una bellezza indescrivibile ed un giro per le strade a curiosare la merce esposta nelle vetrine ormai è divenuto un obbligo. Il borgo, cent'anni fa invero di modeste dimensioni, si è notevolmente ampliato in forza del crescente afflusso turistico, ma le caratteristiche dei suoi abitanti sono rimaste immutate ed ancor oggi la domenica non è difficile vedere qualche coppia avviarsi alla messa nel tradizionale costume tirolese.
La chiesa, con retrostante cimitero, è nella piazza del paese e le riservo sempre una visita, per la sua innata austerità; non manco di soffermarmi davanti alla lapide e leggi oggi e leggi domani quei trenta nomi ivi impressi hanno finito per rimanermi nella mente, in particolare uno: Alfred Meister.
Perché questa preferenza? Perché è morto l'ultimo giorno della prima guerra mondiale all'età di ventidue anni.
Ho chiesto in giro se aveva ancora dei parenti, anche alla lontana, ma tutti hanno scosso il capo; poi un giorno, mentre sedevo su una panchina della piazza, ho visto il parroco uscire dalla chiesa e mi è balenata un'idea. L'ho avvicinato e accennando alla lapide gli ho chiesto se qualcuno sapeva di questo Meister. E' rimasto un attimo assorto, poi mi ha pregato di seguirlo in canonica, dove ha frugato fra libroni vecchi e polverosi, trovandone alla fine uno. L'ha consultato a lungo, poi con un sorriso di compiacimento mi ha detto che ero fortunato, e nello stesso tempo sfortunato, perché Meister era un trovatello e che quindi già all'epoca non aveva parenti.
Proprio per questo i suoi effetti personali erano stati inviati alla parrocchia e probabilmente si dovevano trovare lì. Avrebbe provveduto a cercarli e poi si sarebbe fatto vivo con me.
Uscii in verità un po' disilluso, sia perché temevo che il parroco sarebbe riuscito a trovarli, sia perché non mi aspettavo nulla di interessante nella visione di quelle poche cose.
Ed invece mi sbagliavo, perché già il giorno successivo il sacerdote si mise in contatto con me e potei così aprire una piccola cassetta polverosa, dove fra poveri indumenti trovai un libricino che, esaminato, si sarebbe rivelato per un diario di incredibile interesse.
Molte pagine riportavano eventi comuni, o comunque di scarsa importanza, ma alcune furono un'autentica rivelazione che mi permisero di conoscere Alfred Meister, benché non l'avessi mai visto e ne ignorassi le sembianze.
Fu un lavoro difficile, e per la calligrafia minuta, e per la diversità della lingua, ma alla fine ogni sforzo fu ampiamente ricompensato.
In particolare, alla pagina 10 Meister scriveva " Non so se gli italiani sono così cattivi come li descrive il tenente, ma di una cosa sono sicuro: questa guerra fa paura a loro come a noi. Prima di ogni attacco non pochi disertano e ci chiedono di essere fatti prigionieri; non ignorano che non possiamo dar loro da mangiare, perché non ne abbiamo neppure per noi, eppure preferiscono la morte per fame all'orrore della guerra; li chiamano disertori, ma hanno più coraggio di chi resta al suo posto, anche se forse è il solo coraggio che viene dalla disperazione."
Alla pagina 35 "Oggi è morto Fritz, il mio più caro amico; era accanto a me nella trincea e stavamo parlando, quando si è sentito un colpo di fucile; è scivolato a terra senza un grido, un lamento, mentre un rivolo di sangue gli usciva dalla fronte; è da tre anni che faccio questa guerra e di amici ne sono rimasti pochi; Fritz era l'ultimo. A che serve un sentimento come l'amicizia, a sopportare meglio i patimenti della guerra o a disperarsi quando uno di noi se ne va?"
Pagina 47 "Domani dovremo attaccare il nemico; non l'ha detto nessuno, ma hanno fatto una distribuzione straordinaria di grappa; sempre così quando ci si deve preparare a morire; l'alcool ottenebra i sensi, toglie ogni volontà."
Pagina 48 "Abbiamo attaccato, siamo stati respinti, siamo ritornati all'assalto e ci hanno ricacciato indietro. Abbiamo avuto perdite pesantissime: siamo rimasti in quindici di un'intera compagnia. Anche gli italiani hanno avuto molti morti; questa è una guerra che viene vinta solo da chi ha più soldati da gettare allo sbaraglio e chi trionferà rischia di far più facilmente la conta dei sopravvissuti che non quella dei morti."
Pagina 61 " La vita in trincea è un inferno tale che non mi importa più di vivere o di morire, anzi quasi invidio chi mi ha già lasciato ed ha quindi posto fine alle sofferenze."
Pagina 65 " E' settembre e la guerra è già persa; tutti lo sanno, anche se nessuno lo dice; che senso ha continuare."
Pagina 71 "Sono arrivate le nebbie di ottobre e con queste la certezza della sconfitta; migliaia di morti per niente e chi è rimasto vivo e sopravviverà non sarà più lo stesso, perché l'orrore è entrato in noi; siamo ormai nient'altro che dei morti viventi."
Pagina 92 "E' il 3 novembre e si è sparsa la voce che domani vi sarà l'armistizio; non mi importa che questo macello finisca; dalla vita non ho avuto niente, nessun affetto; gli anni in cui speravo di poter conoscere l'amore mi sono stati sottratti da questa guerra; sono diventato vecchio prima del tempo e la vita per me non ha più senso."
Pagina 93, riporta poche righe e si interrompe nel mezzo di una frase "Oggi finirà; è un'umida giornata di novembre, uguale a tante altre. Non so che farò dopo, se ci potrà essere un dopo, ma…."
Allegata agli effetti personali ed al diario c'era una lettera del Ministero della Guerra ove si diceva, fra l'altro "Il soldato Alfred Meister è deceduto il 4 novembre 1918 sul fronte meridionale, colpito dal proiettile di un cecchino.".
Non avrei potuto conoscere meglio Alfred Meister, neppure se fossi sempre stato accanto a lui.

 

L'amico scomparso

- Ecco, vede, veniva ogni mattina a guardar sorgere il sole. Si accovacciava sulla sabbia, con le spalle rivolte a est, verso l'Alberese, e s'incantava a osservare il promontorio dell'Argentario che prendeva forma poco a poco mentre la luce si diffondeva.
- Diceva qualche cosa, parlava?
- No, stava muto e solo una volta, mentre aggiustavo le reti, l'ho sentito mormorare qualche parola, ma a voce molto bassa, tanto che non ho capito.
Fausto guardava il lontano promontorio dell'Argentario che sembrava emergere dalle acque del Tirreno, una specie di vascello fantasma diafano nella luce del tramonto.
Il vecchio pescatore gli si accostò e gli rivolse nuovamente la parola.
- Uno spettacolo che vedo da anni, ma che non finisce di stupirmi. Non c'è niente di più magico di un tramonto in questo posto.
- Veniva anche a quest'ora?
- No, mai che io mi ricordi. Gli interessava solo l'alba.
- Grazie, per quanto mi ha detto.
Risalì l'arenile nel silenzio ovattato dell'ora, interrotto solo dallo stridio di qualche gabbiano,
e dal rumore della corrente dell'Alberese che lì in mare se ne andava a morire.
Sì, come il fiume che nasce e che poi muore, anche il suo amico Alfredo, lo stimato professore di latino del liceo classico di Mantova, un giorno se n'era andato da casa, senza dire nulla alla moglie. Si erano avviate le ricerche in tutta Italia e poco a poco, sulla base delle segnalazioni, si era ricostruito il percorso che aveva intrapreso.
Una prima tappa di poche ore a Firenze, ove qualcuno si ricordava di quell'uomo non più giovane, magro e quasi scheletrico che era rimasto per più di un'ora estatico di fronte a Palazzo Pitti.
Il suo peregrinare l'aveva portato poi a Bolgheri,
dove aveva passeggiato a lungo su e giù per la stradina che portava alla chiesa di San Guido, sostando più volte a guardare i filari di cipressi.
Sì, lo ricordo bene - aveva detto il sagrestano.
E quando gli si chiese il perché, questi rispose in modo evasivo, quasi avesse timore di svelare un mistero, ma poi, supplicato, si era deciso a parlare.

- Mi ha detto che qua c'è stato tante volte con la mente, e non con il corpo, e ogni volta gli sembrava di essere più vicino alla fine della strada. Ha biascicato anche i primi versi della poesia, ma poi si è interrotto, mentre le lacrime gli bagnavano le guance. Gli ho chiesto il perché di questa commozione e lui mi ha risposto che era il ritorno.

Si era spostato poi in un piccolo borgo vicino a Siena dove aveva soggiornato, ospite di un convento, per un paio di giorni.
Come ebbe a dire il priore, l'uomo gli era sembrato malato, ma più nell'anima che nel corpo. Eppure, nonostante la brevità del soggiorno la mattina che se n'era andato aveva notato nei suoi occhi, prima sempre malinconici, un accenno di sorriso, una sfumatura di pace.
E quando, accomiatandosi, gli aveva chiesto dove sarebbe andato quello gli aveva risposto che la domanda esatta da porre avrebbe dovuto essere dove si sarebbe fermato.
Una segnalazione successiva lo dava come in cammino lungo le terre senesi e così un contadino, a cui aveva chiesto un'indicazione, lo descrisse.

- Era pallido, si vedeva un uomo sofferente nel fisico, ma i suoi occhi avevano un qualche cosa di indescrivibile, come se vedessero oltre le immagini.

E infine venne la notizia del suo ritrovamento.
Una mattina, un pescatore che già l'aveva notato da un po' di giorni, l'aveva trovato sulla spiaggia, vicino alle bocche dell'Alberese, prono su se stesso e quando lo aveva osservato meglio si era accorto che era morto.

Fausto trasse di tasca un foglio sgualcito e lesse ancora una volta.
" Caro Fausto,
tu che sei il mio amico più caro, quando leggerai questa è perché io non ci sarò più.
E' difficile spiegare perché me ne sono andato, perché un uomo non più giovane come me, sposato, con una casa, con un lavoro, abbia lasciato tutto di colpo. Qualche cosa saprai già, se avrai cercato di capire il motivo di questo mio allontanamento. Il cancro che mi ha colpito non perdona e allora perché vivere in un asettico letto d'ospedale, con cannule infilate ovunque per procrastinare inutilmente la mia vita? Perché vedere il dolore negli occhi di mia moglie, perché ogni giorno cercare di illudermi?
Se è giunto il mio momento voglio che il tutto avvenga con dignità, con rispetto per la mia persona e desidero anche che ci sia un senso nella morte.
Ecco perché sono andato via e sono venuto qua, in questa terra dove ancora c'è un rapporto fra uomo e natura.
In queste albe sul mare ho visto e imparato più di quello che ho osservato e studiato in tanti anni. Per la prima volta mi sono sentito parte del creato, un minuscolo granello di polvere nel disegno perfetto delle cose e così ho accettato la mia fine dopo un percorso che mi ha portato a conoscere me stesso e che solo in questa terra puoi effettuare, solo fra questi borghi che resistono oltre il tempo, solo in quest'atmosfera ancora indenne dall'illusorio dominio dell'uomo e dove tutto è in eterno armonico equilibrio.
Caro Fausto,
un abbraccio."

Fausto ripiegò il foglio e lo rimise in tasca.
Si avviò all'auto, ma prima di salirvi buttò un'occhiata al lembo di spiaggia dove il vecchio pescatore metodicamente e con calma riparava le reti.
Era prono sulle stesse e, nella mano che riavvolgeva i fili, gli sembrò di vedere quella ferma di Alfredo che stilava la lettera.