| Giulia 
        Di Stefano  
         Un piccolo racconto su come 
          langue una storia estiva d'autunno
        | 
       Natura 
        morta di un amore estivo: con mele rosse ed una macchina-banana.  
         
          Era uno strano pomeriggio 
          di Settembre. Ma le nuvole, dopo tanta pioggia, inanellavano tranquille 
          e luminose le cupole di Roma. Nel silenzio delle cose sempre uguali 
          a sè stesse il pensiero si cullava, intorpidito. Mescolava il 
          tempo in una sola, annacquata malinconia. 
          Davanti all'impassibilità secolare di San Pietro che s'incoronava 
          dei pini umidi del Gianicolo, per offrirsi al via vai dei turisti sul 
          ponte, camminavo dritta. 
          Il passo era sicuro, perchè la vita che si voleva lasciar vivere 
          lo incalzava sempre con lo stesso ritmo. Dimenticavo poco più 
          indietro l'ombra leggera dei desideri. 
          Era così silenziosa d'altronde. Le sagome delle persone per la 
          strada erano ben più evidenti ai miei occhi, di quegli atomi 
          opalescenti di coscienza che ronzavano nei meandri del cervello. 
          Se al rumorìo della gente che passava e che parlava, che rideva, 
          mangiava, piangeva, si fosse sommato quello della gente che pensava, 
          certo non sarei riuscita a sopravvivere alla vita per più di 
          cinque minuti... 
          Forse avrei potuto, diventando un bicchiere vuoto.  
          Nel vuoto, il turbinìo assordante della vita sarebbe precipitato 
          senza danni e mi avrebbe pervaso una libertà sconosciuta, senza 
          straripare dall'orlo del bicchiere della mia esistenza.  
          L'avrei potuta trattenere. Perchè sentirsi vivere, forse, era 
          la libertà più grande. 
        
        Appena qualche giorno prima, 
          il turbinìo assordante della vita mi aveva precipitata invece, 
          e con molti danni al mio portafogli, nell'affollatissimo centro di Londra. 
          Negozi giganteschi, dove la vertigine dell'ignoto ti stordisce a suon 
          di indie rock e ti inabissa tra labirintici reparti, dove si snoda, 
          seducente e variopinto, ogni tentacolo-tentazione dell'ultima moda. 
          Ovviamente le taglie anglosassoni non coincidono con le nostrane, le 
          commesse gentilissime ti rovesciano addosso un inglese un po' troppo 
          spedito, l'occhio avido della compratrice in terra straniera si attacca 
          a tutte le singole stampelle che vede a ogni piè sospinto... 
          E la stanchezza non svanisce certo uscendo dai danteschi gironi di Top 
          Shop e simili, quando ci si deve barcamenare nel mare in tempesta della 
          folla frenetica di Oxford Circus, con chili di buste appese alle braccia! 
          Tutti quei chili di ultimissima moda, si erano quindi andati pian piano 
          sedimentando in un secondo borsone aggiuntivo alla mia valigia di partenza, 
          che ogni sera vedevo lievitare con crescente preoccupazione, prefigurandomi 
          lo sguardo severo ed implacabile della signorina Ryanair al check-in 
          di Standset. 
          L'ansia del vaglio aereoportuale e il portafogli che si dissanguava 
          a ritmi emorragici, non erano comunque bastati a sedare l'impeto convulso 
          della compratrice, che non solo si ritrovava in terra straniera, ma 
          ci stava anche da sola, a briglia sciolta, e con quel pericolosissimo 
          sentore di donna trascurata dall'oggetto maschile dei suoi desideri! 
          Nel caso specifico, poi, questi era anche oggetto, o meglio causa, dell'improvviso 
          approdo in terra straniera. 
          Addentavo un prorompente panino in uno dei tanti Subway sparsi per il 
          centro, poggiato il modaiolo fardello sulla sedia accanto e stupendomi 
          di come, tutto sommato, la tristezza di un pasto in solitudine lì 
          paresse consuetudine diffusa. Progettavo mentalmente, tra un morso e 
          l'altro, la ricognizione di dischi da HMV ed un secondo assalto al mercatino 
          di Portobello. 
          Erano infatti già passati sei, densissimi giorni dal mio decollo 
          da Ciampino. 
        
        
        
        Avevo indosso un pellicciotto 
          sintetico decisamente fuori stagione ma che avrebbe occupato troppo 
          spazio in valigia, tremila farfalle impazzite per lo stomaco, i Pavement 
          che mi cantavano Summer Babe nelle orecchie... 
          Stavo per volare a Londra dal ragazzo serbo che avevo conosciuto nella 
          bella Zacinto, appena un mese prima.  
          C'era la musica, sotto le stelle d'Agosto, fra gli ulivi argentei di 
          luna piena, ed era bastata la vanità di un ballo nei suoi occhi 
          neri per farmi cadere. E poi rimanere sospesa, come a mezz'aria, fino 
          al mattino, quando la luce netta sulle tazze bianche della colazione, 
          sulle scale, tagliava nell'ombra le mie passate certezze. 
          Non mi importava più di niente e di nessuno, non volevo pensare 
          e mi riusciva facilissimo su quell'isola.  
          Affogati in un mare turchese, il profumo d'origano, i fitti uliveti 
          e le rocce bianche che nel sole giocano con le ombre di piccoli satiri, 
          sembravano scrollarsi via la noia del tempo. 
          Quando il cielo, il mare e la terra, sono nudi nella loro bellezza, 
          accanto a te non vedi più con chiarezza i contorni delle cose. 
          Nel bacio, non senti più solo quel bacio ma il sapore dell'estate 
          e già quello del ricordo dell'estate. 
          Avevo alimentato a dovere la fiamma della passione al mio ritorno, con 
          ripetute visioni delle fotografie scattate (e relative esegesi) sia 
          collettive, con amiche, sia in solitaria degustazione, accompagnata 
          dalla colonna sonora della vacanza, ricostruita con filologica perizia. 
          Insomma, mentre la mitizzazione del soggiorno greco, a braccetto con 
          quella della persona che l'aveva reso così speciale, procedeva 
          spedita e senza intoppi, io troncavo senza troppi rimpianti e con agghiacciante 
          freddezza una storia a distanza, che andava avanti da qualche anno, 
          e acquistavo un volo low-cost per Londra. 
          I sedili dell'aereo erano piuttosto scomodi, ma mai quanto quelli ideati 
          dal perverso progettista degli Eurostar, che nel corso dei miei numerosissimi 
          Roma-Milano, mi avevano sempre costretto ad insonnia e mal di schiena. 
          Mi ritrovavo seduta tra un uomo di età indefinibile, paffuto 
          e lindo, di origine molisana, che si stava recando a Londra per studiare 
          l'inglese e che avrebbe alloggiato in un ostello e un'avvocatessa trentenne 
          piccola e briosa, ricoperta dalla testa ai piedi delle G di Gucci. 
          Il brio della trentenne fungeva da eccitante sulla mia già smisurata 
          socievolezza, aggravata dal fatto che per la prima volta in vita mia 
          viaggiavo da sola e che la situazione era così peculiare da generare, 
          dal mio punto di vista, un assoluto bisogno di raccontarla a qualcuno, 
          per filo e per segno. Dopo un'ora e mezza di febbrili racconti, eravamo 
          entrambe cadute, quasi di comune accordo, in un sonno ristoratore, che 
          mi avrebbe portata fino all'atterraggio, se non più calma, quantomeno 
          senza la gola del tutto secca. 
          Rincontrarsi in aereoporto: uno di quei momenti topici il cui romanticismo, 
          vuoi o non vuoi, è ormai irrimediabilmente scaduto nell'immaginario 
          filmico o, peggio, telefilmico, di ognuno di noi. 
          Vorresti almeno fingere di non dargli eccessivo rilievo, ma è 
          tra le più classiche scene che il tuo cervello gira e rigira 
          anticipatamente: in oggettiva, in soggettiva, variando i costumi di 
          scena, il sottofondo musicale e, naturalmente, le battute. 
          Il nostro rincontrarci in aereoporto: tiepido e sbrigativo, sotto i 
          miei occhi così carichi di sentimentale retorica cinematografica. 
        Tra la folla la figura alta 
          ed esile di Calin spiccava, ma la prima cosa su cui il mio sguardo, 
          con un sospiro d'emozione, si era subito posato, era stato il suo caschetto 
          nero alla Beatles prima maniera, estremità d'orgoglio britannico 
          su una faccia dai tratti indiscutibilmente slavi. 
          Se gli dicevi che quell'acconciatura era piuttosto comune tra i ragazzi 
          londinesi, lui replicava che la sua aveva tuttavia delle caratteristiche 
          originali, che si potevano ben rilevare nella diversa scalatura del 
          fondamentale passaggio sulle orecchie, tra la parte frontale e quella 
          posteriore del taglio. 
          Il medesimo studio stilistico applicato alla pettinatura, veniva impiegato 
          nell'abbigliamento, che doveva riuscire estroso ma non patinato, retrò 
          quanto basta e scarsamente classificabile, il tutto ovviamente con il 
          minor dispendio di sterline possibile. 
          I migliori fornitori erano i suoi charity shops di fiducia, che lo dotavano 
          (e per un'irrisoria manciata di pounds!) di cardigan marroncino-consunto, 
          bermuda fluo arlecchinati, giacchettine jeans slavate e bombate al punto 
          giusto, pantaloni in coloniale quadrettato post-yachting. 
          Quanto fascino e innata grazia nel portare con nonchalance il suo estro! 
          Sempre piacevolmente avvolto da una nuvola di inebriante eau de parfum 
          e accompagnato da quella palpebra un po'calata, che schiudeva uno sguardo 
          tra l'intrigante e il trasognato... 
          Ci misi quell'oretta di tempo che intercorreva tra Standset e il Middlesex, 
          per capire che, almeno per quella sera, lo sguardo era piuttosto di 
          chi, stravolto da una giornata di lavoro, agognava il suo letto più 
          di qualsiasi altra cosa al mondo. 
          Nella sua macchina giallo banana, smangiucchiava uno dietro l'altro 
          i cioccolatini fondenti che, potevo immaginare, aveva comperato per 
          rendermi un dolce benvenuto. Nel frattempo il mio inglese, fortemente 
          mutilato dall'instabile emotività del momento, si aggrappava 
          alle parole quanto più monosillabiche e quanto più banali 
          possibili. I cioccolatini proprio non andavano giù e soprattutto 
          a quello che, per sua disgrazia, si trovava nel principio dell'ugola 
          mentre Calin mi diceva che avrei dormito nella stanza della sorella, 
          toccò il calvario di una lenta e difficile deglutizione. 
          Il tipico "Well, you know...", vellutato leitmotiv di ogni 
          suo discorso, aveva appunto introdotto la fatidica frase, che andava 
          sminuzzando, con parsimonia, la romantica immagine in cui ci addormentavamo 
          teneramente l'uno nelle braccia dell'altro
 
          Certo, i suoi genitori erano in casa ed era abbastanza ovvio che non 
          li volesse mettere in imbarazzo, portando a dormire nella propria stanza 
          una sconosciuta.  
          Peccato che componendo, nelle passate settimane, il complesso quadro 
          mitologico attorno a Calin, mi era sembrato di poter adornare, sulle 
          basi dei suoi stessi racconti di vita e non senza un vago rammarico 
          da parte mia, il suo bel letto a due piazze con svariate ragazze, incontrate 
          e sedotte nei clubs londinesi. 
          Ma mandiamo giù il cioccolatino...anche se si stava avidamente 
          finendo lui tutta la confezione, erano pur sempre il mio dolce regalo 
          di benvenuto! 
        I complessi quadri mitologici 
          vanno sempre ritoccati e, per quanta devozione tu ci ponga, manca sempre 
          qualche particolare. 
          Per esempio, chissà per quale ingenua dimenticanza, avevo praticamente 
          tralasciato di dipingervi quello che avrebbe fatto da scenario alla 
          tanto sognata casa di Calin. 
          Tale casa si inseriva nella grigia anonimia, (ma quanto grigia l'avrei 
          visto solo alla luce del mattino), del sobborgo di Hayes, dislocato 
          da Londra ad una non trascurabile distanza, la cui reale quantificazione 
          sarebbe sempre rimasta per me un mistero. 
          La macchina-banana scartava agilmente un angolo dietro l'altro delle 
          monotone strade e stradine di Hayes, buttate a perpendicolo nel mezzo 
          di un'oscura campagna circostante. 
          Sfilavano sotto i miei occhi, altrettanto geometricamente composte, 
          le villette bifamiliari che, sotto la luce un po'fioca di lampioni giallorossicci, 
          già dormivano pesantemente avvolte nei loro mattoncini, sbadigliando 
          qua e là, ad intervalli regolari, un bow-window al pian terreno. 
          Ci fermammo davanti ad una di queste villette. L'ombra di un albero 
          scarmigliato nel giardinetto antistante, nascondeva alla luce della 
          strada gran parte dell'edificio. 
          Una volta entrati, mi veniva indicata la cucina, laggiù, dritto 
          per dritto alla porta di entrata; salite le strette scalette moquettate 
          di beige che portavano al piano superiore, Calin mi fece posare la valigia 
          nella stanza della sorella, se ne andò in bagno a mettersi in 
          mutande per la notte, mi diede un bacio assonnato e richiuse dietro 
          di sè la porta accanto alla mia, che era quella della sua, di 
          camera. 
          Era tardi, lui si sarebbe dovuto svegliare alle sei e mezzo per andare 
          a lavorare; sarebbe quindi rincasato verso le quattro, per poi concedersi 
          un pisolino di un'oretta; io avevo a disposizione tutta la sua sterminata 
          collezione di dvd, il suo computer, qualsiasi cibo e bevanda potessi 
          trovare in cucina...la preoccupazione maggiore dei genitori era infatti 
          che io, per timidezza, non attingessi alla dispensa per sfamarmi a sufficienza...le 
          sue ultime parole mi si arrampicavano addosso, stonate. 
          Calava il più assoluto silenzio nella stanza. Sedevo sul letto 
          ancora vestita, con la valigia ai miei piedi e i nervi che si stavano 
          svegliando uno ad uno sotto la pelle, pronti a fissare insonni il soffitto 
          a lungo, molto a lungo. Nel silenzio più assoluto della stanza 
          iniziavo a percepire, al di là del muro esattamente dietro il 
          mio cuscino, qualcuno che russava beato; ma non era Calin, lui, me lo 
          aveva sempre detto, dorme composto e quieto. Era il padre, o la madre, 
          che sicuramente prima di russare beati avevano pensato sconveniente, 
          che una sconosciuta dormisse nel letto del figlio; sperato che la sconosciuta 
          non si sarebbe lasciata morire di inedia, non trovando il coraggio di 
          scendere in cucina e aprire il frigorifero... 
        La luce di una giornata serena 
          filtrava tra le tendine fiorate. Mi stiracchiavo sotto le coperte, constatando 
          che il piumone era un po'corto e che il frescolino sentito ai piedi 
          e i nervi irrequieti, avevano reso il mio sonno ben poco rigenerante. 
          Prima di alzarmi, volevo essere sicura che non ci fosse più nessuno 
          in casa: erano le otto e mezza e, se sapevo per certo che Calin era 
          già uscito, non volevo certo incappare, di prima mattina, in 
          qualche altro incontro imbarazzante! 
          Ma i miei timori erano infondati, erano già tutti fuori. Ero 
          completamente da sola, in una casa ignota, di un'ignota famiglia, in 
          un anonimo sobborgo fuori Londra
e quasi, mentre con circospezione 
          mettevo la testa fuori dalla "mia" stanza, non riuscivo a 
          ricordarmi bene come ci ero finita.  
          Entrai nella camera di Calin. Pareti bianche con pochissimi poster appesi, 
          tende di un pesante velluto bordeaux, roselline lilla sulle lenzuola 
          del letto sfatto, la scrivania col computer. Sulla sedia, abbandonati 
          con non curanza e carichi di dolce, proustiana memoria ai miei occhi, 
          i suoi pantaloncini fluo arlecchinati, quelli che metteva sempre in 
          spiaggia. Neanche a farlo apposta, o forse proprio a farlo apposta, 
          esattamente poco sopra, era appiccicato alla parete il foglio dove io, 
          l'ultimo giorno della vacanza, gli avevo scritto il mio indirizzo, numero 
          di telefono e, confidando nella sua sensibilità poetica, qualche 
          verso di Penna. 
          Mi affacciai alla finestra, per fumarmi una delle più classiche 
          sigarette meditative che avessi mai acceso in vita mia. 
          L'azzurro della mattina era immobile e caldo. L'aria fresca. Sotto la 
          finestra i giardinetti retrostanti le villette, un po'storditi da un 
          tale bagliore del giorno, si accigliavano di erba scura e un po'incolta 
          contro i muretti che li ritagliavano l'uno dall'altro. 
          Potevo vedere l'interno di molti di questi. In quello dirimpetto c'era 
          una grossa voliera, grigia di una decina di colombi, ognuno dei quali 
          aveva un campanellino alla zampa. 
          Nel giardino subito a sinistra, le manone di un uomo robusto, rosso 
          di guance e bianco di capelli, stendevano lentamente i panni umidi al 
          sole. 
          Poco oltre un bimbetto castano montava sul suo triciclo e la mamma nella 
          vestaglia rosa, appoggiata per un attimo la frenesia della giornata 
          al vetro della porta, lo guardava. 
          Il senso di estraneità era tutto sommato pacificante. Quieto 
          come il fumo che si snodava dalla mia sigaretta, silenzioso come la 
          solitudine ma turchino come un cielo straniero. 
          Il brontolìo di un discreto buco allo stomaco, mi riportò 
          a più concreti pensieri. Forse era il caso di scendere al piano 
          di sotto e prepararmi un po' di colazione. 
          La moquette onnipresente è una costante delle villette anglosassoni. 
          Così come un classico, nelle cucine, il tostapane e il microonde, 
          i pacchi over-size di cereali da colazione, i biscotti dal fiero diametro 
          e il barattolone di caffè solubile. Ma ispezionare il frigorifero 
          può spesso significare, come in quel caso, tradire le aspettative 
          poc'anzi create dalla dispensa sovrastante. 
          Dei barattoli dal contenuto palesemente violato da cucchiaiate selvagge, 
          appartenenti alla grande famiglia delle salse barbecue e tartare, giacevano 
          negli scompartimenti laterali, inutili sentinelle dei ripiani centrali 
          assieme a qualche bibita gasata. Nei posti d'onore, un paio di fagotti 
          di cellofan custodivano fettine di simil-prosciutto, avvilite da una 
          qualche sorta di affumicatura.  
          Tutto sommato, una tazzona di latte e nescafè, con un paio di 
          fette di pane tostato (nella mia di cucina, quel bell'oggetto che è 
          il tostapane è sempre mancato), potevano bastarmi. 
        Accesi il computer di Calin 
          e, come prima cosa, passai in rassegna con scarsissima discrezione ed 
          affinato esercizio critico (in particolar modo rivolto a qualsiasi figura 
          femminile presente), tutte le fotografie archiviate. Una cartella conteneva 
          delle foto scattate presumibilmente il primo anno in cui si erano trasferiti 
          in Inghilterra dalla Serbia, otto anni fa: Calin aveva i capelli corti, 
          che scoprivano bene tutta la sua fronte bassa ma sporgente; sulla faccia 
          sorprendentemente paffuta, un paio di tenui baffetti preadolescienziali 
          e, indosso, t-shirt abbondanti e felpone con scritte. Gli amici che 
          sorridevano con lui dietro a voluttuosi Bigmac e pinte di coca cola, 
          o davanti al Big Ben e Buckingham Palace, sembravano anch'essi tutti 
          di origini slave. 
          In altre immagini di pomeriggi casalinghi, compariva la sorella, allora 
          grosso modo undicenne, con una lunga coda di cavallo biondo cenere, 
          tute fucsia, calze di filanca colorate e ballerine di vernice. 
          Le fotografie più recenti, che lo ritraevano in vari locali londinesi, 
          catturarono maggiormente la mia attenzione. Il suo aspetto era esattamente 
          quello che conoscevo, così come le sue pose eccentriche e i suoi 
          golfini a tratti perturbanti. In un paio di foto credetti di poter riconoscere 
          la famosa (e a quanto sapessi unica) ex ragazza ufficiale, la svedese 
          che collezionava scarpe e borsette ma soprattutto, e con molta gelosia, 
          smalti per le unghie. 
          Tipico, latteo visino con naso all'insù, occhi blu, cerchietto 
          rosso su capelli lisci e biondi, sorriso festaiolo e cocktail nella 
          mano. Nell'insieme, una di quelle composte e deliziose fisionomie alquanto 
          anonime, che ti si stampano nella testa con fastidiosa persistenza, 
          incarnando l'irritante ruolo della "tipologia nemica". 
          Assai diversa, e da me scrutata attentamente e con più acuto 
          fastidio, appariva invece la ragazza mora ritratta in eloquentissime 
          foto, scattate a Venezia nel Giugno di quello stesso anno. Sostanzialmente 
          la prima fiamma dell'estate, colei che mi aveva preceduta di un paio 
          di mesi... 
          Molto più minuta della svedese, diciamo pure considerevolmente 
          bassa, aveva spalle gracili e un po' spioventi. Indossava in tutte le 
          foto, che fosse giorno tra i negozi di maschere e chincaglierie di vetro, 
          o sera nella stanza dell'albergo, un inopportuno, aderente tubino rosso 
          carminio su sandali neri dal tacco altissimo, e un lungo filo di perle 
          finte, girato doppiamente al collo. In alcuni scatti grossi occhiali 
          da sole retrò occupavano gran parte del volto, dove un paio di 
          occhi cerulei cercavano di far dimenticare il mento sfuggente e i denti 
          leggermente accavallati. 
          Quel rosso carminio (che, tra l'altro, si abbinava perfettamente alle 
          pareti di broccato della loro fascinosissima stanza d'albergo), colorò 
          impietoso qualsiasi scena dei film che tentavo di vedere per passare 
          il tempo. 
          Ai piedi del letto trovai anche, in una cartellina trasparente, una 
          piccola risma di fogli stampati al computer...il romanzo di Calin, finalmente! 
          Me ne aveva parlato tanto quando eravamo in Grecia; mi aveva detto che 
          lo stava già spedendo a varie case editrici, sperando in una 
          pubblicazione.  
          Non ci trovai dunque nulla di male nell'iniziare a leggerlo e soddisfare 
          così quell'enorme curiosità, che mi era sorta sin dalla 
          prima sera in cui ci eravamo conosciuti, quando lui mi si presentò, 
          senza esitazione alcuna, come "writer". 
          Ammiravo molto la convinzione con la quale mi aveva sempre parlato della 
          sua attività creativa, nelle nostre lunghe chiacchierate estive, 
          mentre io, schiva, ascoltavo rapita, tendendo a sorvolare sul mio vizio 
          di scrivere poesie.  
          Ne avevo scritte tante di poesie, eppure non mi piacevano mai granchè
o, 
          più che altro, percepivo sempre come troppo evidente lo scarto 
          che intercorreva tra la sorprendente bellezza delle mie percezioni e 
          quel mucchietto di parole vestite a festa, che facevano bei giri di 
          valzer su di un quadernino bordeaux e oro. 
          Volgendo la settima pagina del romanzo, guardai con impazienza l'orologio 
          che stava oramai per tagliare il traguardo delle mie otto ore di solitaria 
          reclusione casalinga. 
          Dovevo ammettere a me stessa che quelle righe scritte in inglese, scorrevano 
          alla mia amorevole lettura un po'come un'avventura dal sapore salgariano, 
          insaporito da aromi torbidi alla Palahniuk. Si vedeva comunque, a prescindere 
          dal mio gusto personale, che non era certo, poi, un lavoro così 
          finito... 
          Accesi una seconda sigaretta meditativa. Nel mio quadro mitologico, 
          capriole di parole finemente cesellate precipitavano dalla sua bella 
          bocca sorridente, in un sottobosco perplesso e un po'fosco ai suoi piedi. 
          La sigaretta si consumava più veloce, come l'ultima mezz'ora 
          che mi separava dalla versione diurna e anglosassone di Calin.  
        "Darling, I'm at hooome!", 
          la sua voce squillante stava salendo le scale. 
          In quel tono allegro ripercepii improvvisamente l'azzurra leggerezza 
          delle nostre giornate marittime. 
          Finalmente un bacio come si deve. Un contatto fisico. Facevamo l'amore 
          per la prima volta tornati dalla Grecia, con la luce del pomeriggio, 
          sul suo letto.  
          Neppure un'ora dopo mi ritrovavo seduta nel soggiorno, con una nuova 
          tazzona di latte e nescafè, una sigaretta croata in bocca e la 
          madre di Calin davanti. Calin era nel frattempo piombato, al piano di 
          sopra, nel preannunciato pisolino, che l'attività sessuale aveva 
          solo posticipato. 
          L'inglese di Marya aveva a tratti il suono un po' scuro dello slavo 
          ma usciva chiaro e cordiale dalle sue labbra. Un maglioncino a righe 
          verdi, i capelli corti, il viso struccato, degli occhi limpidi e molto 
          dolci, il suo sorriso illuminava di familiarità il mio giorno 
          che tramontava. 
          La aiutai a preparare la cena. Suo marito non parlava affatto inglese, 
          di tanto in tanto si inseriva nella conversazione facendosi tradurre 
          in slavo dalla moglie e ogni qual volta si accendeva una sigaretta, 
          mi tendeva il pacchetto azzurro di Ronhill, con un cavernoso, gioviale 
          "Smoke, smoke!". 
          Calin non fumava, mangiava solo moltissime mele. Ne afferava una più 
          o meno a qualsiasi ora del giorno e se la sgranocchiava con avidità. 
          Un tappa-buchi per lo stomaco, una manìa salutista, una sincera 
          passione per le mele...quei pomi tra le lunghe dita divennero ben presto 
          una sorta di appendice verderossa alla sua leggera figura. 
          La sera andammo a passeggiare per le vie del centro di Londra: mi teneva 
          per la vita, stringendomi a sè. Campeggiava nella notte una bellissima 
          luna piena. A Trafalgar Square lui la incorniciò alla sinistra 
          del mio volto sorridente, in una foto.  
          Soho, Covent Garden, Piccadilly. Erano passati tre anni dall'ultima 
          volta che camminavo per quelle strade ma mi sembrava di averle lasciate 
          da pochi giorni. Era il solito effetto delle cose sempre uguali a sè 
          stesse; la malinconia però si scioglieva tra le mille luci, tra 
          la gente, nella mano di Calin. 
          Quando mi dovetti coricare, qualche ora dopo, accompagnata al di là 
          del muro da un bacio della buonanotte, il letto della sorella era comunque 
          meno amaro. 
        Sabato mattina, Portobello 
          Green market. Tramortita dai cumuli di trendyssime cinte, borse, gonne, 
          vestitini: io e Calin ci separammo per una quarantina di minuti, durante 
          i quali il povero illuso riteneva potessi soddisfare, in completa libertà, 
          la mia brama spendereccia. 
          Quando ci ritrovammo, sotto il ponte della metropolitana, srotolai con 
          piacevole sorpresa, ma forse non con la dovuta commozione e solennità, 
          il poster del "Baiser à l'hotel de Ville" che mi aveva 
          poc'anzi comperato. Non sapevo che avrei dovuto incastonare quel momento 
          nella mia memoria come la più scintillante delle pietre preziose, 
          magari guarnendola con quelle praline fondenti di benvenuto... 
          Rientrati a casa, nel pomeriggio, eravamo soli. Mi provai nella sua 
          stanza un miniabito che avevo acquistato, di tulle bianco e nero, molto 
          scollato, montando sui vertiginosi tacchi delle décolleté 
          prese a Camdentown. L'anemico sguardo che accompagnò il laconico 
          commento "very summery", assestò un colpo secco e deciso 
          al mio orgoglio femminile. 
          Lui era imperturbabile nella sua spensieratezza, impalpabile, inafferrabile, 
          deliziosamente adagiato su una nuvoletta di buon umore.  
          Ed io sentivo tutto il peso della carne, schiacciata dai miei desideri 
          terreni, ritorta in cupe elucubrazioni psicologiche! 
        
        Perchè a cena aveva 
          tranquillamente divorato cipollotti crudi? Perchè non era corso, 
          dopo, ad ingoiare, quanto meno, mezzo tubetto di dentifricio mentolato? 
          Perchè si era poi messo a guardare gli orari dei cinema, mentre 
          mi aveva promesso spassoso clubbing London style? Vedevo il mio mezzo 
          quintale di biancheria intima e vestiario, accuratamente selezionato 
          prima della partenza, deprimersi nella valigia, depredato della sua 
          funzione seduttrice, condannato ad asessuata noncuranza... 
          Eppure la serata intima, al cinema, distese ancora una volta le controversie 
          del mio pensiero. 
          La sala era quasi tutta per noi e lui stringeva la mia mano, aveva preso 
          una coca cola light per due, semisdraiato sul sedile appoggiava la testa 
          sulla mia spalla. E quando dissi che sentivo un po'freddo per via della 
          gonna corta, si tolse la giacca e l'accomodò come fosse una coperta 
          sulle mie gambe. Era come quando affondava il viso nei miei capelli, 
          respirandone così a fondo il profumo, o come quando, camminando 
          fianco a fianco nel crepuscolo di Zante, mi aveva chiesto improvvisamente 
          il permesso di coprirmi di baci la schiena. 
          Quella sarebbe dovuta essere la nostra ultima sera, perchè dal 
          giorno seguente mi sarei trasferita a Cambridge da una mia amica.  
          Verso le tre di notte, tornati dal cinema, ci trovavamo ormai da svariato 
          tempo sotto le sue coperte; la mia speranza in un suo slancio passionale, 
          che infrangesse il pur tenerissimo (ma discontinuo) abbraccio, continuava 
          ad essere vanificata dal susseguirsi sullo schermo della tv delle puntate 
          di Star Trek, che lui proiettava e seguiva con religioso interesse. 
           
          La mia speranza fu infine sconfitta, senza pietà alcuna, da quelle 
          facce semi-aliene dalle orecchie appuntite, e dall'irreversibile sonno 
          che lo stava portando lontano, sempre più lontano da me. 
          Con ostinata, disperata tenacia, quell'ultima notte non lasciai però 
          il suo letto. La voglia di averlo accanto, la tristezza che stava iniziando 
          ad aggrapparsi alle mie caviglie, fu più forte del timore di 
          disturbare il suo sonno perfetto: Calin mi aveva più volte detto 
          che preferiva dormire da solo, per il fatto che necessitava del più 
          totale silenzio per poter riposare
 
        Il risveglio, stretta in 
          una quanto più possibile composta discrezione, nel cantuccio 
          destro del materasso, fu quanto di peggio una dolce metà da cuscino 
          potesse immaginare. 
          Sentii, non so perchè, rovesciarsi sopra di me una tonnellata 
          di durissime mele, mentre Calin mi macchiò, con le sue prime 
          parole della giornata, dell'onta più orrenda ed incancellabile 
          ai suoi occhi assonnati: io avevo russato.  
          Mentre cercavo di sostenere il peso dell'imbarazzo, lui mi diede un 
          paio di baci e iniziò a prepararsi per uscire, rimontando come 
          se nulla fosse sulla sua nuvoletta di buon umore. 
          Saremmo andati fin dalla mattina a Cambridge: neanche lui ci era mai 
          stato ed avremmo così passato tutta la domenica assieme. 
          La gamma dei comportamenti bizzarri di Calin era molto ampia e variegata, 
          e la disinvoltura con la quale ogni volta tirava fuori dal cilindro 
          un nuovo, spiazzante numero, era da far invidia al più navigato 
          dei prestigiatori. 
          In quell'assolata mattinata, ad esempio, si rese improvvisamente conto 
          di dover cambiare le gomme posteriori della sua macchina-banana. Nonostante 
          la ricerca di un gommista aperto di domenica mi paresse un po' ardita, 
          il suo accanimento mi fece capire subito che, probabilmente, ne valeva 
          del suo equilibrio psichico. Lasciammo la macchina in un'officina di 
          Hayes. 
          Per ingannare l'attesa, passeggiammo un po'per le vie del sobborgo, 
          concludendo il nostro tour poco turistico in un Tesco, enorme supermercato-discount. 
          E concreta dimostrazione, mi illustrava, di come, volendo, fosse possibile 
          vivere più economicamente in Inghilterra che in qualsiasi altro 
          paese europeo. Oltre alla penetrante riflessione socio-economica, Tesco 
          ci munì anche di una strabiliante Pepsi gusto cappuccino, introvabile 
          in Italia, che sorseggiammo con gusto per tutta la durata del viaggio. 
          Che filò liscio, ovviamente, per merito degli pneumatici nuovi 
          di zecca. 
          Unica tappa intermedia lungo il tragitto, fortemente voluta da Calin, 
          fu l'Imperial War Museum di Duxford.  
          Nonostante non mi fossi mai nè appassionata, nè emozionata 
          alla vista di vecchi aerei da guerra, quello scorcio di caldo pomeriggio 
          tra i relitti della RAF, mi entrò nel cuore. 
          Altra sua inconsapevole e involontaria, stupida magìa! Mi bastava 
          vederlo aggirarsi felice come un bambino, saltellare tra una posa e 
          l'altra delle eccentriche foto che mi toccava scattargli.  
          Era come quando mi trascinava in mezzo a tutti, nelle giravolte del 
          suo buffo modo di ballare; come quando durante la festa di ferragosto, 
          davanti al sagrato della chiesa ortodossa, aveva improvvisato uno scenografico 
          e forsennato sirtaki, per mano del vecchietto greco "primo ballerino". 
          Il suo ego fluttuante sbaragliava con naturalezza i confini della mia 
          irritazione. 
        Cambridge racchiudeva tutte 
          le tonalità di verde possibili. Da quello scintillante ed ordinato 
          degli ampi prati, a quello più scuro, umido, che si arrampicava 
          d'edera sulle pareti delle villette a schiera. 
          Il sole dorato delle cinque baluginava tra i rami dei viali alberati, 
          si posava pigro sui comignoli rossicci delle case e sulle sommità 
          illustri degli antichi edifici universitari del centro. 
          Dalle bocche dei palazzi, merlettate di nero dai cancelli in ferro battuto, 
          s'intravedevano cortili silenziosamente spiati da grandi finestre, chiuse 
          nella loro secolare sapienza. 
          La gente per le strade se ne andava in bicicletta, o si stiracchiava 
          agli orli dei parchi, dietro ad un giornale o a un bicchierone fumante 
          di Starbucks. 
          Nonostante avessimo tamponato la fame, durante il viaggio, con le immancabili 
          mele che Calin aveva previdentemente portato con sé, pensammo 
          di fermarci a mangiare qualcosa. 
          Entrammo nel pub più britannico che avessi mai visto. L'Eagle 
          Pub, avrei saputo ben più tardi, era uno dei locali storici di 
          Cambridge, dove Crick e Watson andavano a prendersi la loro bella birra, 
          dopo un'intensa giornata di lavoro, chini sull'elica del DNA. 
          Non poteva essere altrimenti; mi guardavo attorno, mentre Calin si era 
          alzato per andare ad ordinare al bancone: seduti ai tavoli, nella luce 
          ovattata e confortevole riflessa dalle pareti di legno, parlottavano 
          animatamente studenti in divisa, con le cravatte verdeblu un po'allentate 
          e l'aria distesa e fiera, di chi si fosse guadagnato la sua pinta dopo 
          ore ed ore di proficuo studio. 
          Aspettando le nostre bistecche con patate, ci scattammo un paio di fotografie 
          nonsense e ridemmo molto sui nostri discorsi, intrecciati di vuoto e 
          intimità. 
          Mi sentivo felice, l'angoscia del vicino addio non strozzò nella 
          gola il delizioso spezzatino ai funghi. 
          Un paio d'ore più tardi voltavo le spalle a Calin, che rimontava 
          nella sua macchina gialla senza di me, faticosamente inghiottendo un 
          ostinatissimo groviglio di lacrime. 
          Prima di lasciarmi, mi aveva baciata ed abbracciata come (stranamente) 
          da copione, si era raccomandato di telefonargli e di fargli sapere se 
          volevo vederlo ancora, in qualche modo, prima che io ritornassi in Italia. 
          Smarrita, come abbandonata nel mezzo di un insuperabile crocevia di 
          sensazioni e pensieri, sedevo nel tepore della laundry room del residence 
          dove alloggiava la mia amica, col ronzìo delle centrifughe che 
          faceva da lamentoso controcanto a quello nella mia testa: le domande 
          non fatte, le parole non dette. 
          La mia amica preparava amorevolmente le lavatrici per il suo bucato 
          e per quello del suo ragazzo brasiliano, conosciuto proprio durante 
          quei mesi al college. 
          Impietosa sorte della triste convalescenza post-addio, avere sotto gli 
          occhi una neonata coppietta che prima si coccola, poi litiga per ricoccolarsi! 
           
          Mentre i due erano usciti un attimo per meglio discutere, o meglio baciarsi, 
          entrò un timido giapponese a riprendersi i panni da un'asciugatrice. 
          Lo salutai e gli sorrisi. La sua sorpresa nel replicare un sommesso 
          "hello", come se lo avessi fisicamente importunato, mi sprofondò 
          un po'meglio nello sconforto di un'incomunicabile solitudine. E di un 
          mesto nervosismo. L'avrei quasi quasi legato all'oblò della sua 
          asciugatrice e costretto ad ascoltare, a tempo indeterminato, i miei 
          ultimi due mesi di vita, ovviamente pretendendo commenti pertinenti 
          ed un'acuta interpretazione psicanalitica... 
        
        Per fortuna avevo detto "without 
          onions"! Quella baguette farcita di Subway ne era piena
pazienza, 
          almeno per quel giorno non avrei dovuto avere contatti ravvicinati con 
          il sesso opposto. Tra l'altro poi, quel sapore agliato nella bocca, 
          mi suscitava dolci ricordi, di baci appassionati al sapor di tzatziki! 
          Certo un po' più indigesto l'aroma dei cipollotti crudi ingurgitati 
          dal Calin versione londinese
 
          Mi ero autoconvinta che sarebbe stato meglio non richiamarlo, per vedersi 
          ancora prima della mia partenza. L'esperienza di quel fine settimana 
          nel Middlesex, aveva stremato le mie meningi, consumatesi nello sforzo 
          (piuttosto vano) di comprendere i suoi bislacchi comportamenti, nonché 
          innescato l'inarrestabile impulso da shopping di compensazione. 
          Proprio nel momento in cui, a discapito delle mie finanze ma a favore 
          della mia integrità mentale, ero riuscita a sublimare il disagio 
          sotto chili di acquisti, un freudiano atto mancato da manuale mi spernacchiò 
          dritto in faccia la triste verità. 
          Avevo dimenticato a casa di Calin ben due giacche ed una sciarpa prestatami 
          da mia madre; risultato dei miei diligenti tentativi anti-depressione: 
          il minaccioso borsone aggiuntivo da passare al check-in e venticinque 
          pounds e quasi tre ore di pullman per ritornare, l'indomani, ad Hayes. 
          Alla notizia che ci saremmo rivisti per la mia ultima notte in terra 
          anglosassone, Calin era sembrato molto contento e la sua voce gioviale, 
          al telefono, mi aveva decisamente risollevata. 
          Anche quel pomeriggio Londra risplendeva di un sole primaverile e passeggiare 
          per le vie di Notting Hill era un piacere, che alleggeriva perfino le 
          buste appese alle mie braccia. 
          Le strade si inarcavano dolcemente tra il bianco ordinato delle case, 
          le porte lucide e colorate numeravano i miei passi, tranquilli sull'asfalto 
          maculato dall'ombra degli alberi. 
          Quando ero venuta tre anni prima alloggiavo proprio da quelle parti, 
          in una pensione al cinque di Pembridge Square, una grossa palazzina 
          di mattoncini beige. 
          Ero giunta a trovare il mio ex ragazzo milanese, che si era dovuto trasferire 
          lì per qualche tempo. Stavamo insieme da appena un mese e Londra, 
          proprio come in quel momento, aveva allora tutto il fascino euforico 
          di un amore appena nato. 
          Davanti all'entrata della Vincent House, mi appoggiai ad un muretto 
          e mi accesi una lenta sigaretta celebrativa. 
          La celebrazione del mio passato era il prodotto retorico del sentimento 
          melanconico. 
          La malinconia si disegnava come un sottile dolore per l'impossibilità 
          di riattualizzare qualsiasi ricordo, se non mentalmente e per immagini 
          sfumate. Il passato, nella sua inconsistenza, diventava una dimensione 
          puramente mentale ed aveva tutta la tristezza delle cose che finiscono. 
           
          Sempre profondamente turbata dalle cose che finiscono, fin da quand'ero 
          bambina, avevo imparato quantomeno a gustarne a pieno il sapore subito 
          dopo, quando cioè erano irreversibilmente entrate nel dominio 
          della mia memoria. Avevo finito con l'innamorarmi della malinconia del 
          ricordo, mi seguiva come la mia ombra. E come la mia ombra mi faceva 
          sentire me stessa, mi faceva esistere. 
          Prima di andare a riprendere il treno per Cambridge, ripercorsi tutta 
          Portobello Road, che declinava serena come il tramonto fino alla stazione 
          metropolitana di Ladbroke Grove. 
          Un po'meno serena fui io, quando mi toccò pagare all'intransigente 
          controllore di Kings Cross un supplemento di ben dodici sterline, per 
          aver preso il treno con appena un quarto d'ora di ritardo!  
          L'austerità e la dispendiosità inglese, per quel che riguarda 
          i mezzi di trasporto pubblici, condisce la vacanza del turista italiano 
          quasi quanto il secondo piano dei double-decker, o la guida rovesciata 
          a destra, che ti fa rischiare di essere investito almeno quella dozzina 
          di volte che ti ostini ad attraversare guardando dal lato opposto
 
        Il pullman da venticinque 
          sterline della National Express, che mi stava portando all'aereoporto 
          di Heatrow, dove sarebbe venuto a prendermi Calin, viaggiava imbottigliato 
          in un mercoledì pomeriggio di traffico infernale, con l'aria 
          condizionata praticamente fuori uso. 
          La mia ultima sera a Cambridge era stata piuttosto movimentata, passata 
          in compagnia di un portoghese-tedesco molto simpatico ma soprattutto 
          prodigo di quei complimenti lusinghieri, che avevo sempre raccolto col 
          contagocce dalla bella bocca di Calin. 
          Una delle prime cose che però mi domandò, una volta montati 
          in macchina e con mia grandissima soddisfazione, fu se avessi per caso 
          conosciuto qualche altro ragazzo nella ridente cittadina universitaria. 
          Con la mia risposta, chissà perchè, non volli dissolvere 
          la sua nuvoletta di buon umore, che pure tante volte aveva urtato così 
          violentemente i miei nervi.  
          Mi accontentai del piccolo, intimo compiacimento per una sua potenziale 
          capacità di ingelosirsi, almeno per un attimo. 
          L'accoglienza dei genitori di Calin fu calorosa, proprio come me la 
          immaginavo.  
          Marya aveva preparato per cena un delizioso pollo arrosto e aveva anche 
          comperato del gelato.  
          Il marito insistette nel regalarmi un altro pacchetto delle sue Ronhill 
          Lights e si intrattenne lungamente con noi a tavola, nonostante non 
          seguisse il filo dei nostri discorsi in inglese. 
          Già sentivo quanto mi sarebbe mancata l'atmosfera semplice e 
          cordiale di quella famiglia.  
          Dopo cena mi presi un'ultima tazza di caffè con il dolce sorriso 
          di Marya; anche Calin era piuttosto loquace e rideva affettuosamente 
          con sua madre, che mi aveva portato una scatola piena di vecchie fotografie, 
          di quando erano ancora in Serbia. 
          Salimmo poi in camera; scherzavamo tra di noi come la domenica passata 
          assieme a Cambridge. Potevo dire di sentirmi contenta; c'era però, 
          nel suo contegno fisico, inversamente proporzionale alla sua parlantina, 
          qualche cosa che mi turbava. Qualcosa che mi insinuava una prossima 
          riedizione di alcuni suoi sguardi asessuati, assonnati, di alcuni abbracci 
          mancati, sconfitti dalla totalizzante visione di Star Trek New Generation... 
          Purtroppo, le mie capacità intuitive, per quanto anestetizzate 
          dalla cecità della mia passione, trovarono sconsolante conferma. 
           
          Una conferma che non poteva, non doveva arrivare proprio l'ultima notte. 
           
          Ero tornata lì solo per lui! L'indomani, visto che lui non aveva 
          nemmeno chiesto delle ore di permesso dal lavoro, avrei anche dovuto 
          raggiungere, sola con i miei ormai due bagagli, l'aereoporto di Standset 
          passando per Heatrow: un totale di quindici minuti di camminata, un 
          autobus e due ore di pullman National Express. E altre ventisette sterline. 
           
          Tutto questo mare di pensieri, si gonfiava sempre più di tempesta 
          nella mia mente, alla seconda ora consecutiva di televisione. Sit-com 
          di ogni sorta, che il mio inconscio ha poi rimosso, scivolavano sullo 
          schermo. Calin rideva di tanto in tanto, io smisi ben presto di fargli 
          eco: il mio nervosismo aveva completamente tagliato i ponti con la lingua 
          inglese. 
          Immobilità statuaria del suo braccio dietro la mia testa, distanza 
          costante e inviolata tra i corpi stesi sotto le coperte. Le lancette 
          del grosso orologio appeso al muro si approssimavano a segnare le undici 
          e mezza. Ed erano praticamente quanto di più mobile ed animato 
          ci fosse nella stanza. 
          I suoi occhi si spegnevano progressivamente, non reagiva più 
          alle brillanti battute delle sit-com. 
          Vidi l'epilogo tragico reincarnarsi nel grigio profilo dell'Enterprise. 
          Vincevano ancora loro, quegli odiosi mutanti dalle tute aderenti, che 
          lo cullavano meglio di qualsiasi ninna nanna, ogni maledetta sera. Lo 
          ripescai dalla soglia dell'addormentamento chiedendogli se per caso 
          ci fosse qualcosa che non andava, forse non gli piacevo abbastanza? 
          Calin sapeva sempre rispondere a qualsiasi domanda con lo stesso, calmissimo 
          tono. Che non tradiva sorpresa, meraviglia, che faceva passare per naturale 
          qualsiasi discorso facesse, perverso o assurdo che fosse. Certo che 
          gli piacevo, e non amava dovermelo ripetere così spesso; certo 
          che non c'era nulla che non andava: era solo molto stanco, domani la 
          solita sveglia alle sei e mezza... 
          Non bisognava pensare solo al sesso, l'importante era stare bene in 
          compagnia dell'altra persona e lui, con me, aveva passato delle bellissime 
          giornate.  
          E se volevo, per prendere sonno, potevo senza problemi continuare a 
          guardare la tv lì in camera sua.  
          Suggellò il tutto con un lungo, appassionante bacio della buonanotte. 
          Disarmante. 
          Per un attimo rividi il cielo stellato delle notti greche, le luminose 
          speranze che mi avevano tenuto insonne per due settimane, le ultime 
          ore prima del mio traghetto di ritorno, passate a farci agguati sui 
          materassini in mezzo alle onde, che terminavano tutti con i più 
          inevitabili e salati dei baci estivi. 
          Gli chiesi solo di venirmi a svegliare la mattina, prima che uscisse 
          di casa, per salutarci. 
          Poi me ne andai nella camera della sorella. Fino alle due scrissi una 
          lunga lettera da lasciargli sulla scrivania: se non tutte, volevo metterci 
          molte delle parole rimaste soffocate, sul suo cuscino. 
          Costringendomi a velare d'ironia la rabbia, di affettuosa leggerezza 
          il peso angosciante delle parole d'addio. Mi addormentai veramente stremata. 
        Dischiusi gli occhi un secondo 
          prima che Calin aprisse la porta della stanza.  
          Mi era sembrato un sonno brevissimo. Mi misi a sedere sul letto, lui 
          accanto a me. Si era appena spruzzato il suo profumo, aveva il suo maglioncino 
          marrone, il suo caschetto ben pettinato e un sorriso stranamente un 
          po'imbarazzato. Era senza dubbio il Calin versione londinese, quello 
          che mi abbracciò teneramente, mi posò un bacio sulle labbra. 
           
          Ero frastornata, ancora annebbiata dal risveglio e quasi non proferii 
          parola. Dovevo giusto avere un'aria vagamente corrucciata, che lui pensò 
          di addolcire ripetendomi un paio di volte che ci saremmo rivisti presto. 
          Si alzò e prima di richiudersi l'uscio alle spalle, agitò 
          la mano in uno dei suoi eterei bye bye. 
          Stava andando via. Io ero seduta sul letto già da sola, orfana 
          prematura di uno struggente, travolgente addio incompiuto! 
          Balzai all'improvviso fuori dalle coperte, infilai gli stivali che erano 
          buttati per terra lì davanti a me. 
          Scesi di corsa le scale, col cuore in gola e il pigiamino di raso nero 
          che era stato destinato a ben altre circostanze; aprii con uno slancio 
          sicuro e liberatorio la porta di casa... 
          Restai inchiodata sulla soglia. Vidi ad una velocità rallentata 
          la macchina banana sfilarmi davanti. 
          Calin seduto alla guida, che guardava dritto la strada davanti a sè, 
          un po'curvo al volante e con la faccia beata di chi continua la sua 
          vita quotidiana, indisturbato ed ignaro. 
          Albeggiava grigio ed umido per la deserta Mildred Avenue.  
          Incrociai le braccia, non uscì nessuna lacrima. Si era stemperata 
          in una tragicommedia, la mia epica rincorsa. E con lei, probabilmente, 
          tutta quell'assurda fuga di fine estate. 
          Risalendo al piano superiore mi affacciai nella camera di Calin, mi 
          spruzzai a profusione l'UltraViolet Man di Paco Rabanne che era sul 
          suo comodino. 
          Quei quattro versi di Sandro Penna appiccicati al muro mi guardavano 
          perplessi, con gli occhi boccheggianti del pesce fuor d'acqua. 
          Il costume arlecchinato giaceva ancora sulla sedia, invitto, intrepido 
          nella sua beffarda fluorescenza. 
        
        Non era il pomeriggio strano, 
          ero io. Finalmente del tutto vuota.  
          Il bicchiere della mia esistenza, finito di attraversare il ponte, si 
          riempiva solo di qualche nuova goccia di pioggia autunnale. 
          Non avevo l'ombrello, dovevo sbrigarmi: ai piedi avevo proprio un paio 
          di scarpe londinesi nuove nuove! 
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