Tito Pioli

35 anni scrive da sempre, pubblica poco, disegna, più che vivere immagina, sogna, lotta, legge, si stupisce, abbraccia.

SUONI DA PORTINAIO

Passo lento sovietico, sguardo col mezzo sorriso enigmatico, Michele il russo faceva il portinaio in un signorile palazzo del centro città.
In quel palazzo dove i condomini salutavano a malapena, quasi tutti avevano macchine di colore grigio, grigio come le loro teste, Michele studiava quei condomini come se fosse un maestro di scuola.
I condomini palavano tra loro di meteo, di vacanze da sogno, di figli propri quasi laureati, di figli altrui quasi drogati.
Nel tempo Michele aveva ascoltato trenta tipi di passi, cinquanta di respiri, di voci, settanta movimenti di chiavi, venti tipi di scoreggia, colpi di tosse, tipi di starnuto.
Michele il sovietico viveva solo e ascoltando quei suoni si sentiva più sereno, si sentiva parte di una famiglia, anche se la famiglia non sapeva della sua esistenza, la notte infatti Michele dormiva poco, non c'erano suoni, si sentiva solo.
Michele di giorno girava con in tasca un piccolo registratore che nessuno vedeva, la notte a volte lo faceva partire, s'addormentava che ancora quei suoni, quelle voci e quei colpi di chiave continuavano nel silenzio della notte cittadina.
Quei notai, avvocati, imprenditori non è che rivolgessero molto la parola a Michele se non per qualche particolare servizio.
Avevano tutti paura dei ladri, ma Michele pensava che anche lì qualche ladro c'era.
"Come fanno i ladri ad avere paura dei ladri?".
Michele il sovietico conosceva il passo lento del Dottor Malpi insigne melomane, i colpi di chiave nervosi e secchi dell'imprenditore Moretti, il respiro affannato della Professoressa Savi, il colpo di tosse del notaio Rocchi era inconfondibile, il colpo di chiave delicato della signora Macciani, le scoregge della anziana maestra Volpi erano inconfondibili.
A volte Michele dal fondo della scala salutava chi stava salendo o scendendo senza vederli e quelli rimanevano straniti.
"Maestro conosce suoi allievi" diceva sovieticamente col mezzo sorriso.
L'unico che non salutava mai Michele e che anzi lo insultava era l'avvocato Sartori "Zingaro fannullone" lo aveva chiamato con disprezzo una volta, Sartori era un uomo silenziosissimo nel passo, felpato nell'aprire l'uscio di casa, l'unica cosa che lo contraddistingueva era che fischiettava la canzone "Un cuore matto".
Alle riunioni con il portinaio l'avvocato non andava mai perché lavorava fuori città, non parlava mai con nessuno del palazzo quell'uomo. Era un cuore matto. Matto da legare.
E non c'era neppure quella volta famosa che Michele durante una riunione fece u vero show davanti a quei signori in giacche e cravatte grige con cui di solito non scambiava che poche parole formali.
Michele svelò a tutti come faceva a salutarli senza vederli fisicamente, imitò colpi di tosse, colpi di chiave, rutti, scoregge, starnuti, tipi di passo di quei professionisti che lo guardavano senza dire una parola.
Poi poco per volta se ne andarono tutti lasciando quella sala nel gelo più totale e Michele col mezzo sorriso a canticchiare triste "Sapore di sale", cantava per imparare l'italiano Michele il sovietico.
Michele pensava di fare una cosa bella e invece si era tagliato le gambe da solo, gli arrivò un invito ad andarsene dal condominio entro l'estate, la gente non voleva essere spiata.
La gente borghese voleva ruttare e scoreggiare in santa pace.
Michele era triste in quella estate, tutti quei fottuti d'avvocati e notai se n'erano andati in Sardegna e lui se ne stava in canottiera in Luglio ad ascoltare "Luglio" a Parma.
Tutti quei suoni che venivano dal registratore non bastavano a tirargli su il morale.
Una domenica mattina sentì salire il fischio di "un cuore matto", era l'avvocato Sartori, Michele fu felice di sentire un rumore anche se era quel farabutto che gli diceva "Lei non sa far niente".
Dopo quindici minuti Michele udì tre colpi di pistola, Michele si buttò contro un muro nella portineria, tremava come quando era in Siberia.
Sentiva il fischiettio dell'avvocato Sartori, lo sentiva scendere lentamente dall'ascensore di servizio.
Trovarono il corpo senza vita della moglie dell'avvocato Sartori, fu un gioco da ragazzi per il fido e fine uditore Michele denunciare quel delinquente che non l'aveva mai salutato, il mezzo sorriso sovietico divenne sorriso e basta.
I condomini si complimentarono con Michele e decisero di tenerlo come portinaio, tutti i giornali e le televisioni parlavano di li e della sua sublime arte di ascoltatore, Michele non lo fregava nessuno, questo era il suo amore per il prossimo imparato dalle pagine di Tolstoi.
Quando l'avvocato Sartori passò davanti alla portineria tra due Carabinieri, Michele fischiettò perfidamente "Un cuore matto".
"Buona serata avvocato, canti anche stasera mi raccomando" disse con il mezzo sorriso sovietico Michele.
"Addio Michele" rispose l'avvocato Sartori salutandolo per la prima volta e chinando la testa.
Eppure quei due avevano qualcosa in comune.
Erano due cuori matti.
Matti da legare.

 

GUIDONE, CARROZZIERE CORTO MALTESE

Guidone il carrozziere con il naso e il fisico da pugile, tutto il giorno impegnato a riparare fiancate e parabrezza, macchine di gran lusso, Jaguar, Mercedes, macchine che non avrebbe mai avuto in vita sua.
Guidone sognava la macchina di Diabolik, la cravatta di Corto Maltese, una donna conturbante di Crepax, uno spettacolo di equilibrismo come Bagonghi in mezzo a cento bambini.
Ci provava tutte le notti nel suo garage pieno di maschere da fumetto, a fare la faccia cattiva di Zanardi, avere la forza di Batman, voleva raggiungere il fisico di Tarzan e saltava la corda urlando come lui, avrebbe voluto avere anche la dolcezza di Clarlie Brown, ma era difficile davanti a quello specchio sporco di una carrozzeria di provincia avere tutte quelle facce in una.
Guidone aveva imparato a navigare, a saltare sui tetti, a rapinare le gioiellerie, a sparare agli indiani, a rubare nelle case, ma ciò che amava di più era navigare e ogni tanto con Camilla la sua fidanzata partiva per lunghi viaggi vestito da Corto Maltese, Camilla era una professoressa di liceo, non bella, con gli occhiali, andava al cinema d'essai, non leggeva fumetti ma i saggi di Roberto Longhi, non si perdeva una mostra d'arte, guardava sempre l'orologio, parlava sottovoce e ascoltava i Requiem.
Lui in mare vestito come Corto Maltese e lei in tailleur e doppi occhiali e il registro in mano, guardava continuamente l'orologio Camilla, mentre lui urlava che bisognava trovare l'uomo Dorato che lei si chiedeva chi fosse? E poi Guidone Corto Maltese annunciava che bisognava assaggiare i funghi speciali messicani e Camilla diceva che bisognava tornare a casa, alla realtà, alle bollette del gas, che doveva preparare delle lezioni, c'era una mostra che non poteva perdere.
Guidone Corto annunciava a prua a squarciagola come il suo eroe.
<Un esperienza val sempre la pena di essere vissuta anche se pericolosa> e Guidone lo sapeva perché si iniettava quasi ogni giorno robaccia nelle vene, faceva a pugni nei parchi con le panchine sfasciate per una dose e Camilla che lo implorava di smettere incollandolo contro gli alberi.
Un giorno partirono, Guidone vestito da Corto Maltese annunciò a Camilla che bisognava combattere lo spietato e fanatico leader della Lega per l'Unità Militare e Camilla diceva che aveva gli scrutini, e lui urlava <Ma come c'è la guerra e tu pensi agli scrutini!>.
Si sposarono un giorno d'estate in mezzo al mare circondati dalle scimmie i bambini gli lanciavano addosso fiori gialli e rossi, anche la temibile tribù dei Jivaro che tante volte aveva combattuto Corto Guidone questa volta festeggiò il matrimonio di Guidone Corto e Camilla la professoressa, non aveva Guidone come al solito la bocca spalancata e i coltelli in mano ma aveva i fiori e sorrideva.
Che quando fecero vedere le foto agli amici nessuno capiva che diavolo avessero fatto, se avessero girato un film o se si fossero impasticcati fino al collo.
Ogni notte Guidone Superman era nella cantina sotto la carrozzeria, aveva cucito negli anni con l'aiuto di Camilla, centinaia di vestiti dei suoi eroi, ed erano appesi come salami, c'era Mandrake, Bagonghi, Lupin, Diabolik, Dick Tracy, Terry e i pirati.
Se ne stava quella notte vestito da Diabolik , sicuro di rubare tutto agli altri, di sfuggire agli altri, ma era così fatto che non stava in piedi, riusciva solo a fare qualche passo e poi la testa gli crollava, non poteva sfuggire agli altri, al mondo, non poteva sfuggire al suo calvario quotidiano.
Diceva a Camilla immobile contro il muro che fumava e i suoi occhiali si appannavano per le lacrime, gli urlava che c'era d'andare a Clerville e lei gli dava sberle in faccia, frantumava quelle siringhe, lui urlava che amava Eva Camilla.
Lei scappava e giurava per sempre.
Camilla si era innamorata di Guidone perché lui parlava come nelle nuvolette, la prima volta che vide Camilla al bancone di un pub e c'era la canzone Born to be alive.
Le si avvicinò e la baciò urlando <Smak! Smak!>, Camilla prima lo spintonò, poi sorrise, se Guidone piangeva faceva <Whaah!>, quando chiudeva la porta urlava <Clank!>, quando rideva urlava <Ah! Ah!>, se dava un pugno e ne dava tanti, faceva <Stump>, se sgommava in macchina si sporgeva dal finestrino e urlava <Wroom! Wroom!>.
Come tutti i personaggi dei fumetti Guidone era una miscela incontrollata di cattiveria e di bontà, era spesso violento con le donne e mollava certi <Stump!>, se voleva qualcosa in un negozio non faceva <toc toc> ma faceva <Bokk!> sulla vetrina e la sfondava per arraffare una telecamere digitale che era <troppo bella>.
Ma Guidone sapeva anche essere gentile come Paperino con Paperina e rubava per Camilla tutto quello che voleva.
Camilla seguiva a volte Guidone nelle sue avventure, terrorizzata e eccitata, poi si pentiva e scappava, guardava l'orologio e diceva che doveva andare a messa e che c'era da stirare, Camilla doveva trovarsi un bravo ragazzo come diceva sua mamma e invece gli era capitato il peggiore.
Da qualche anno ogni estate Guidone si vestiva da Tarzan e con Jane Camilla con occhiali e registro andavano tre settimane nella foresta, ma con la liana era un mezzo disastro, e Jane Camilla si fratturò un polso, andando da un albero all'altro si spaccarono le ossa quei due.
Se vedevano una scimmia Camilla scappava terrorizzata mentre Guidone Tarzan gli faceva il verso, gli urlava che puzzavano che facevano schifo, gli urlava di andarsi a lavare e le scimmie quando vedevano quello scimmione di Guidone scappavano, non volevano farsi allevare da un mostro del genere.
Poi Guidone andava a farsi su un albero e allora quei due si picchiavano anche nella foresta e poi finiva quasi sempre in un ospedale.
Poi Camilla decise di abbandonare Guidone che lei non aveva tempo da perdere, c'era da andare a scuola, c'era da pagare l'ici, c'era da guardare l'orologio e andare una volta alla settimana al cinema a vedere Harry Potter con i nipoti e Guidone imperversava nel mondo, come Corto Maltese in una isola del Pacifico uccise un serpente enorme che lo aveva attaccato, combatté con altri contro la tribù Jivaro, bevve il vino di Guanavana.
Fece danni anche nei panni di Popey, mangiò trenta chili di spinaci ma fu ricoverato al pronto soccorso con un feroce mal di stomaco, tentò di fare una scalata come l'Uomo Ragno ma la ragnatela non si incollava lungo le pareti dei palazzi, cadde rovinosamente in un sottotetto e si buttò dentro a una finestra da dove aveva visto una donna nuda.
L'esperienza più bella di eroe fu quando un giorno nel giardino pubblico pieno di bambini cambiò dieci abiti diversi, era Tarzan che passava da una magnolia all'altra mentre le mamme urlavano e i bambini applaudivano, fu Capitan Nemo, Bagonghi il piccolo pagliaccio che incantava tutti i bambini con le sue evoluzioni passando da un cavallo all'altro, arrampicandosi sugli alberi con una corda, era Paperino che insegnava a giocare a golf ai bambini
Il giorno prima tutti lo schivavano quel povero tossico con la barba incolta, i jeans strappati che urlava sempre strani versi, oggi tutti i bambini erano intorno a lui, felici e urlanti, poi arrivò la Polizia e lo portò via tra le urla dei bambini inferociti, Camilla era felice come non mai nel vedere il suo amore in trionfo.
Il giorno dopo ricominciava la vita di sempre, qualche ora in carrozzeria, poi Guidone si ritrovava con la faccia sporca in terra e un occhio nero davanti allo specchio scheggiato del giardino pubblico, si lavava la faccia con l'acqua lurida, si pisciava addosso per il freddo, fece a botte con un pusher, solo i sogni gli rimanevano, gli uscivano dalle tasche le maschere di Flash Gordon, di Lupin, di Snoopy, e poi cadevano cartine, pezzi di mela, coltellini e biglietti d'autobus scaduti.
Quando Guidone partì da solo per l'America vestito da Tex Willer gli successe una cosa incredibile, per la prima volta non si sentì un fallito, girava nei vari paesi con la divisa da ranger, aveva il rispetto di tutti, ammazzò delinquenti e innocenti, ma non subì mai un processo, gli fecero persino fare una pubblicità e un film e lo candidarono governatore ma lui andò via perché lui si drogava, ma in quel paese si drogavano più di lui.
Una notte Guidone tentò l'assalto di una banca come Zanardi a grandi falcate spaccò una vetrina, ma i poliziotti erano alle calcagne, Camilla fu avvertita che il suo uomo era ricercato. Guidone si era barricato in mezzo alle divise dei suoi eroi, deciso a vendere cara la pelle come Superman, faceva finta di sparare, di lanciare proiettili invisibili, Camilla lo raggiunse che era ferito, seduto su una sedia rossa da barbiere guardava il soffitto, la cenere della sigaretta penzoloni, stava per bucarsi, guardava le sue divise, si sentiva il requiem di Mozart che amava Camilla, era completamente nudo e sanguinava nelle gambe e nelle braccia.
<Non riesco a metter in moto la macchina come Diabolik, non riesco più a fare i balzi come Flash Gordon, non riesco più a contare i soldi come Paperone>.
Poi Guidone chiudeva gli occhi mentre Camilla asciugava il suo sangue, gli strappava la siringa, lo baciava sulla fronte, lo vestì da Corto Maltese, Guidone biascicava parole, poi chiudeva gli occhi, alzava e chinava la testa, faceva dei versi.
<Bloh! Onhk! Grgn! Drr! Room!> poi crollò per terra e Camilla che urlava mentre i poliziotti lo portavano via vestito da Corto Maltese mentre le infermiere cercavano di rianimarlo.

 

MA SEI DARK?

Gli si slacciavano continuamente le stringhe delle scarpe ad ogni colonna.

Ogni giorno Tazio doveva consegnare la posta lungo via Zamboni, suonare, imbucare, parlare con portinai di gol irregolari e di abolire la minimum tax, incontrare notai che non salutavano. Ogni incontro con un conoscente erano almeno venti gocce di sudore, due incontri erano quaranta gocce, perchè Tazio era timido soprattutto con le donne. Tazio ascoltava in cuffia "Stasera mi butto" e ballava da solo.

Quella mattina era piu' assonnato del solito. Era proprio davanti a Palazzo Forte e sul muro c'era scritto "i fasci al muro", vide una schiena di donna ed uno zaino con scritto "Federica".

Federica aveva un completo nero, le unghie dipinte di nero, i lunghi capelli neri e lisci come i fasci al muro, le gote rosse, le mani che non finivano piu', con il vento i suoi occhi piangevano.

Le gocce di sudore erano almeno centoventi, come tre donne in una, lei teneva nelle mani il "Viaggio" di Celine, gli cadde e lui lo raccolse, lei lo accarezzò, e gli sorrise.

Tazio fissava quelle mani lunghe come quelle della Callas e non seppe che dire una cosa assurda: "Ma sei dark?", lei sorrise e basta, quasi rise, prese il fazzoletto e asciugò il sudore di Tazio.

Tazio da quel giorno era piu' lento a svegliarsi, sbagliava numeri civici, mangiava la pizza sempre da solo, della "rosea" leggeva solo i titoli. Tazio, Celine lo aveva letto, si, faceva il postino e aveva letto Celine, lo adorava. Nessuno aveva mai asciugato il sudore a Tazio. Magari Fede avrebbe ballato con Tazio "Stasera mi butto". Tazio con le donne non si buttava mai.

Erano quattro giorni che Tazio non vedeva Federica la dark, lasciò il lavoro e appiccicò un foglio sopra alla colonna davanti all'ingresso di Lettere e scrisse: "Sei arrivata a quando Bardamu fa il viaggio in nave? Il prossimo te lo metto alla colonna nove". Federica la dark puntualmente rispose con fogli sulla colonna nove.

La notte Tazio non dormì che due ore, la mattina accelerò le consegne per andare alla colonna nove, c'era un foglietto rosa appiccicato: "Non ci sono ancora arrivata...non voglio sapere nulla di te, nessuna parola fra noi, parleremo solo dei personaggi letterari che abbiamo conosciuto" e gli parlò di Fantine e di Raskolnikov. Tazio pensò che se era muta poteva anche dirlo. Ma Federica la dark non era muta, parlava solo col cervello.

Tazio per quindici giorni percorse quei portici dimenticando la mamma che lavorava nella fabbrica di profumi, il papà autista di taxi che gli parlava della Ferrari, dimenticò La Bruyere, 90° minuto e la pizza mangiata da solo.

Tazio perse il lavoro perchè cominciò a passare intere giornate a scrivere lettere sotto i portici e chi lo conosceva quasi non lo salutava piu'. Federica la dark aveva abbandonato Lettere per altre lettere e visto che gli invidiosi rubavano i foglietti, scrisse di notte sui muri e direttamente sulle colonne di Via Zamboni. Parlarono di Federico dell'Educazione Sentimentale e di Oblomov e quei due personggi esistevano davvero in carne ed ossa secondo Federica la dark e Tazio e un giorno si sarebbero fatti vivi ai loro occhi sognatori e alle loro menti troppo spirituali.

Al mattino chi si soffermava a leggere si stupiva di come uno potesse scrivere: "Io sicuramente dal dottor Bovary non sarei andata neanche a provarmi la pressione" o "secondo me Javert non deve essere stato antipatico se lo incontravi fuori dal posto di lavoro".

Mai una parola, solo sguardi si scambiavano quei due quando si incontravano, ballavano intorno alle colonne. Si scrissero pure sui tovaglioli e sui conti del ristorante raccolti per strada a Bologna.

Tazio non sapeva nulla di quella donna, il nome del suo profumo, il mestiere di suo padre, il colore delle pareti della sua stanza, eppure Tazio amava quella donna perchè in Lei c'erano Gervaise, Fantine, Caterina, Emma e Federica la dark amava lui perchè lui era anche Bouvard, Bardamu, Jean Valjean.

Sotto la torre degli Asinelli una notte Tazio vide Federica la dark fumare un Cubano, da una finestra si sentiva "In mia man alfin tu sei", Tazio andò davanti alle sue labbra sorridendo, lei chinò la testa, Tazio girava intorno alla sua testa e le sue gote rosse, Federica la dark gli asciugò le gocce di sudore. Strusciavano le loro teste uno contro l'altro, si abbracciavano fino a farsi male.

Tazio provò a baciarla ma lei lo guardò piangendo, gli diede uno schiaffo e scappò via, dalla foga sembrava per sempre, il suo sigaro Cubano cadde per terra e Tazio lo raccolse e se lo infilò in bocca.

Tazio rincorse Federica la dark urlando il suo nome sotto i portici e qualcuno dai balconi urlò "Tacete bastardi!". Federica era sparita.

Tazio correva sotto i portici, urlava, piangeva abbracciando le colonne senza foglietti, aveva abiti consunti, i capelli sporchi, la barba lunga e dal suo cappotto uscivano i pezzi di carta di quell'amore senza parole.

Tazio capì che l'amore piu' duraturo sarebbe stato quello di carta. Il corpo sfiorisce, il cervello può sempre fiorire.

Imbianchini un giorno cancellarono dai muri di Bologna le mille parole di amore e letteratura di Federica la dark e Tazio. Ma le scritte tornarono. Imbianchini le cancellarono. Le scritte tornarono.

 

UN MERLO ALLA PRIMA DELLA LIRICA

MIACULLA, Primavera 1977

In quella città in cui si dibatteva di suole di scarpe e di tagli di giacca, con Mary la ballerina scalavo i ponteggi che vestivano le chiese e ascoltavamo il caos dei volteggi dei piccioni nelle feritoie, facevo il verso del piccione al piccione e quello mi fissava e Mary rideva, sapevo imitare decine di voci d'animale, al telefono rispondevo con un nitrito di puledro irlandese, alla posta ordinavo un vaglia con un barrito d'elefante d'Africa, io che un tempo avevo trasformato le mie classi in porcilaie e stalle ero pronto a stupire la città con le mie imitazioni.
Avevo studiato da animale perché l'uomo mi sembrava talmente noioso, quando a scuola mi parlavano di tempio in antis io ero nel bosco a cercare di riconoscere una pavoncella ed imitare la sua voce, quando c'era da scegliere tra Dio e Marx io ero sulla spiaggia a distinguere la rondine dal balestruccio che non era da tutti, mi servì molto nella vita perché io avevo ascoltato in silenzio mentre intorno a me tutti urlavano senza ascoltare gli altri.
Mary aveva una gonna lunga a fiori e i capelli rossi sciolti sino in vita e occhi verdi in cui perdersi per sempre, gli orecchini a goccia e le unghie dipinte di rosso, tagliate e pulite, una faccia da finta suora come piacevano a me, Mary mi faceva mancare il respiro, la vedevo girare per le strade di Miaculla già da lungo tempo, con i fiocchi di neve o con i raggi di sole lei teneva la testa ben eretta e non spesso china come la mia, provava passi di danza nelle piazze vuote avvolte nella nebbia, con le mani piene d'anelli d'oro la vidi lavare la testa di una down, faceva sorridere quella povera ragazza che se l'avessi avuta io per le mani, quella ragazza sarebbe diventata ancora piu' anormale, io la seguivo per la strada esattamente a distanza di nove metri.
Non uno di più non uno di meno, ma mi nascondevo dietro ai lampioni e agli angoli della strada facendo il verso del pollo sultano, alcune volte lei si rivolse ai vigili: "disturbo alla quiete pubblica" diceva il verbale.
Le parlavo di come ipnotizzavo i pesci del mare e lei rideva, facevo il verso della gru all'edicolante e lei rideva, avevo conquistato Mary senza dichiarazioni, facevo la rana e l'asino e si rideva, le giuravo che avremmo fatto uno spettacolo nel teatro principale della città e lei rideva.
Sembravamo due malati di mente, anche far l'amore fu una passeggiata, dalle auto intorno alla nostra suonavano un po' per i versi d'antilope che sentivano dentro la mia cinquecento, ma non andò male: "Non nascerà un panda vero?" mi chiedeva Mary preoccupata.
Avevo conosciuto gli animali attraverso Esopo, mia madre mi leggeva ogni giorno una favola e a chi le rinfacciava che io passavo tutto il tempo nelle lagune a vedere i fenicotteri e nel bosco a osservare i gufi e urlare come loro, invece che andare a lavorare come tutti gli umani, lei orgogliosa citava la storia di Esopo della leonessa e della volpe.
La volpe scherniva la leonessa rinfacciandole di non sapere mai mettere al mondo piu' di un figlio per volta: "Si" rispose quella "Uno solo, ma un leone".
Così io descritto un leone da mia madre, mi sentii così leone da diventarlo almeno nella voce, ed Esopo divenne la mia guida spirituale per tutta la vita.
Maculla era la nostra città dove c'erano merli e tortore, ma erano in pochi a distinguere le rondini dai rondoni. Miaculla delle schiene curve dei vecchi accompagnati da una giovane mano, Miaculla delle confessioni davanti ad un bicchiere di rosso o sotto un crocefisso.
Miaculla degli animali dello zooforo del Battistero che di
notte forse andavano in giro per la citta' ma nessuno se n'era accorto, nemmeno io che li cercavo da una vita in ogni tombino per sapere che voce avessero, Miaculla dei pioppeti dove portare l'amore della propria vita, a Miaculla si aveva il culto di ciò che non si muoveva: le pietre antiche, i conti in banca, i tortelli, la musica di un compositore dell'800, Miaculla ci aveva stancato perchè frequentare qualcuno piu' bello di te è sempre difficile e nessuno ha il coraggio di dirle sei bella ma ti lavi poco, sei bella ma hai l'alito cattivo, sei piu' bella di me e nessuno mi guarda, quella città non ci voleva perchè non eravamo nornali, ma noi le avremmo fatto uno scherzo.
Trovammo casa proprio sopra lo zoo di Miaculla, li chiamavo uno ad uno quegli animali e qualcuno rispondeva pure, il piu' loquace era il ghepardo, la piu' silenziosa era la capra, quei versi erano tanto simili a quelli dei miei amici pescatori di Miaculla che davanti al mare urlavano e bestemmiavano per il poco pesce, li seguivo nella loro pesca notturna, mi facevano sentire meno solo nella notte, volevo scoprire la voce dei pesci, gli unici che mi sfuggivano.
La mia Luna andava in gita con i vecchi nei castelli dove qualcuno chiamava il nome di un fantasma di cui si fantasticava, mangiavano in trattoria e potevano mettersi a cantare in coro da un momento all'altro o un Parigi o Cara o Tu che m'hai preso il cuor addentando una fetta di torta al limone e brindando con Torna a Surriento battendo in coro le mani, tutti adoravano la lirica ma nessuno di loro nella vita era mai riuscito a entrare nel teatro della città.
L'ospizio dove vivevano i vecchi di Mary era una povera fattoria di brandine con coperte bucate e sgualcite intorno a tavoli gialli sotto il pergolato deove i vecchi intingevano il pane nel latte, i topi camminavano piano come bradipi, le donne cucivano le camicie piene di buchi degli uomini, scarseggiava la carta igienica e intorno solo fabbriche che costruivano macchine per gelato, ciminiere a sbuffare fumi bianchi, le galline incerte sui muriccioli e ragazzini a bestemmiare nel campo di calcio di fronte alla parrocchia.
Una volta alla settimana Mary portava quei vecchi intorno al teatro dai muri gialli e le imposte verdi, quel teatro che sembrava una culla da cui un uomo tende le mani ed emette i primi vagiti, proprio come quelle voci di tenore in prova interrotto dalle gocce di pioggia e i vecchi mettevano le mani ben aperte sui muri, ai piedi di quelle finestre da dove usciva la voce d'una Violetta o d'una Adalgisa e quando la cantante in prova interrompeva l'aria a metà, erano Luisa che aveva distribuito benzina per tutta la vita e Gino che aveva passato la vita a tagliare bistecche a proseguire con "Croce e delizia al cor" tra le colonne davanti al teatro, nessuno di loro sarebbe mai entrato in quel teatro.
Franci mi fece felice e dopo una serata a dar da mangiare a una vecchia e una notte a coccolarla per guadagnare il sonno, la mia Vita venne a trovarmi e andammo a fare uno spettacolo per i pescatori di Miaculla, prima e dopo la pesca, sui barconi gialli con le vele bianche ammainate a bere sangria e a mangiare polipi e alla fine anche i pescatori si interrogavano sulla vera voce dei pesci e allora provavano a immaginarla e provavano a chiamarli: "Un giorno ve la farò sentire la voce dei pesci" promisi loro per vederli sorridere.
Quasi sempre i pescatori di Miaculla cantavano anche se avevano i buchi nelle camicie, il vuoto nello stomaco, la miseria nelle pupille, loro cantavano Rosamunda e dalle case di mattoni della collina guardavano di sotto i grattacilei e forse s'immaginavano che i ricchi oltre che piu' ricchi e arroganti erano anche piu' alti dei poveri e con quei grattacieli volevano toccare il cielo con i capelli per farsi proteggere dalle nuvole.
Avevano la pelle dura, sapevano che in quella città non erano padroni ma solo ospiti anche un po' buffi, dileggiati a ogni angolo di strada per il puzzo che emanavano e allora era meglio per loro stare con lo sguardo a pelo d'acqua e guardare di sotto che anche li' in fondo c'erano i grattacieli tra le alghe, c'erano le montagne, le anime e la vita ma nessuno dei pescatori pensava di essere qualcosa di importante in quel mondo.
I vecchi di Franci e i miei amici pescatori, tutti volevano entrare anche solo una volta nel teatro piu' bello della città. Ma i vecchi non potevano perche' non avevano soldi, perche' spesso ruttavano, spesso sghignazzavano per le barzellette sporche, spesso urlavano per passarsi una caramella e i pescatori invece che potevano vantare l'abitudine al silenzio per non spaventare i pesci, avevano qualcosa di intollerabile, puzzavano, grondavano sangue, non erano presentabili agli occhi della gente, della società. sotto le luci d'uno dei piu' importanti teatri del mondo, eppura tutti volevano vedere un nostro spettacolo e cosi' fu, ma prima io e Mary dovevamo affrontare la prova generale.
Era il tempo della prova generale dello spettacolo nel teatro piu' grande della città mentre Mary aveva preso contatti per fare spettacoli in carceri e ospizi era pronta per me, per il mio mondo, per una lezione d'amore.
Mary era convinta che l'uomo potesse con la sua voce e le sue idee elevare il mondo, creare rivoluzioni, offrire solidarietà, concedere l'amore, io invece volevo dimostrarle che i gesti silenziosi d'amore degli uccelli erano piu' forti d'ogni filosofia umana.
La portai nei boschi di Miaculla, la portai a vedere come la poiana riesce a stare ferma in volo e poi prendemmo lezione d'amore dagli animali, ma Mary era titubante: "Devi provarmi il tuo amore" le dissi.
Le feci vedere le cicogne in amore e io e lei cercavamo di imitarle, alzavamo il collo al cielo e battevamo fragorosamente il becco e il nostro becco era il nostro naso, dopo che per un poco non le spaccai il nasino, Mary urlava: "Per fortuna che siamo uomini".
Seguimmo i grifoni che nel volo d'amore si tengono uniti volteggiando insieme, io e Mary ci mettemmo sopra a un albero mentre lei non faceva che ridere, provammo a imitare i grifoni, colpi di testa contro i rami, calci nello stomaco, per poco non ci sfracellavamo a terra, quant'era difficile l'amore tra animali, ridevamo, urlavamo mentre in molti che facevano il bagno sotto le cascate si tiravano spruzzate di acqua e non ci facevano nemmeno caso.
Ma la tortura e la prova d'amore inflitta a Mary non era finita perche' imitammo i galli forcelli che allargano e rialzano le penne della coda uno di fronte all'altro e quando fummo a sedere scoperto e pazzi d'amore a correre nel bosco, fu uno scandalo.
Ultima prova d'amore era imitare i falchi di palude che si afferrano per gli artigli in volo, per poi fare avvinghiati spettacolari voli acrobatici, ci mettemmo sdraiati su quei rami a tirarci e legarci con i piedi come loro, rischiando di precipitare, un sacco di botte, di morsi, ma di sesso nemmeno l'ombra, ormai ci odiavamo, poi stravolti cio addormentammo ai piedi d'una quercia mentre gli scoiattoli ci davano leccate sul naso, ci avevano presi per animali.
Che onore. Quanto avevamo imparato, ci amavamo di piu'. Finimmo pero' la giornata in ospedale, un ospedale di esseri umani, non eravamo all'altezza dell'amore degli animali.
Lo spettacolo della vita ci attendeva, dovevamo rovinare la prima di teatro di tutta Miaculla, quel teatro di Jago e Pollione, di intrighi e fazzoletti, di gioielli a forma di rana, di cosce nude di donne, di truffe da organizzare, di imprese da realizzare a danno degli altri.
Dopo la prova d'amore cui costrinsi il mio amore Mary e in cui fallii miseramente, fu lei a costringermi a una azione di sabotaggio della cultura ufficiale, una penosa pagliacciata in odio a quella citta' che ci considerava un uomo animale e una ballerina senza voce per quel palco, ma lo dovevamo ai suoi vecchi e ai miei pescatori.
Eppure sotto le luci dei candelabri tutti sorridevano anche se avevano un tumore, quel tonto dall'occhio di vetro era in frac in quinta fila anche quest'anno con la mano sulla gamba della sua vecchia moglie col naso mezzo mangiato, si sarebbe addormentato al secondo atto come sempre, gli occhi si scambiavano occhiate, le mani stringevano bicchieri, sederi, tartine, pugnali come sul palco.
Mary mi trascino' in quell'avventura rischiosa e quando il mattino presto entrammo di soppiatto per studiare il piano per la serata mi venne un colpo; sembrava che il mondo ti fosse sulla pelle, dentro alla tua pelle, luci, piedi di cavallo del soffitto, braccia profumate di donna, anche se il teatro era vuoto sentivi l'alito della gente, cominciai a palpare il rivestimento delle poltrone di velluto rosso: "Non sraà solo loro la prima, questa volta" urlo' Mary.
Quella notte ci confondemmo tra le comparse di quell'Aida di antichi egizi e mentre l'orchestra intonava il preludio e dai palchi intravvedevo le dita inanellate delle donne, i loro capelli raccolti con le spille a forma di violino, le loro schiene nude, la lunga cenere penzoloni delle loro sigarette mentre guardano un uomo, i colpi di tosse.
I pescatori scalarono le pareti del teatro ed entrarono sghignazzando e i vecchi si travestirono da maschere ed entrarono ruttando e bestemmiando.
Tutto era pronto in sala. La stretta di mano docile del prefetto, il livido nella schiena della moglie del commercialista, lo sguardo di un uomo e di una donna che si scambiavano le pupille da un palco all'altro, la moglie di un sottosegretario che si toccava continuamente una tetta temendo che quel pallone gonfiato scoppiasse da un momento all'altro. Mary entrò in scena mentre l'orchestra era pronta alle prime note.
Si sporsero dai palchi all'improvviso i pescatori di Miaculla con cesti di pesci e tenevano i bicchieri in alto in segno di brindisi, avevano le canottiere bianche rigate dal rosso del sangue di pesce, il pubblico zitti' quei villani, alcuni urlarono: "Vergogna!"nessuno capiva come diavolo avevano fatto a entrare quei manigoldi, ma l'Aida avrebbe sopito tutto, le voci di quegli animali, anche il puzzo di quei farabutti, i pescatori sporgevano i loro bicipiti gonfi e fischivano alla pelle nuda delle donne, un gruppo di guardie si mosse verso quei palchi puzzolenti, ma le luci ormai si abbassavano.
Mary comincio' a ballare mentre io andai sul bordo del palco, iniziai con i cinque versi del merlo, il primo che indica un nemico nelle vicinanze, volevo avvertire quello stolto pubblico che Mary stava per giocare un brutto scherzo a quella prima, a quella città, il secondo canto del merlo avverte che il pericolo è piu' vicino, dai palchi le donne urlavano con le unghie proiettate in avanti: "Uccideteli!" Mandatelo a casa! Ma che scherzo è mai, noi vogliamo l'Aida!" urlavano, alcuni uomini si alzavano minacciosi e avanzarono verso il palco mentre i pescatori invocavano la voce dei pesci e i vecchi guardavano il sipario e i violini e piangevano come bambini, nessuno piu' bestemmiava, nessuno piu' ruttava.
Feci la voce dei cefali, dei polipi e dei tonni e quei pescatori si sporgevano dai palchi con gli occhi allucinati, alcuni piangevano, qualcuno tra il pubblico cominciò a intonare il coro dell'Aida, le mie gambe tremavano, ero là nel tempio della lirica a far versi d'animale e non me ne vergognavo.
A fatica riuscivo a concentrarmi sul mio canto mentre dietro al palco c'era una vera rissa di uomini, schienali di sedie, rossetti proiettati come proiettili, il terzo canto del merlo significava: "Andate a nascondervi presto!" mai quel giorno mi vennero bene quei versi che avevo provato per giorni interi.
Il quarto canto del merlo indicava la presenza di predatori specialisti nella cattura degli uccelli, come sparvieri, astori o rapaci notturni e quel teatro ne era pieno, travestiti da uomini, mentre i violinisti mi urlavano contro parole di fuoco, un uomo sparò in aria intimando di andarmene per sempre, venne poi il mio quinto canto del merlo, quello dell'"angoscia", quando il merlo è finito nelle grinfie del predatore, cinque, sei donne e uomini mi furono addosso, mi divincolavo tra unghie spezzate, denti aguzzi e piedi scalcianti.
Si alzò il sipario e cominciò la Marcia Trionfale: "Vogliamo l'Aida! Vogliamo l'Aida!" "Porci maledetti, animali!" e tutto il pubblico cominciò a intonare in coro la marcia trionfale.
I pescatori urlavano sconvolti: "La voce dei pesci vogliamo la voce dei nostri pesci!" si denudavano, presero i pesci dalle ceste e li gettarono ancora vivi in mezzo alla folla terrorizzata, gli uomini coprivano con le loro redingote la pelle nuda delle donne, alcuni fecero fuoco verso il palco.
Io, Mary e tutti i pescatori fummo messi nelle gabbie dello zoo, proprio quelle gabbie da cui io avevo imparato le voci degli animali, ora ero là dentro io fui messo in gabbia in qualità d'animale ad honorem, Mary fu messa dentro perchè ballava e non parlava mai, proprio come gli animali e i pescatori perchè puzzavano esattamente come gli animali.
L'Aida cominciò e i vecchi d Mary smisero di piangere, erano felici quel giorno: Se quel guerrier io fossi! se il mio sogno si avverasse!..

 

NUDI E CRUDI

C'era chi oliava il suo mitra, chi scriveva una lettera seduto a pancia in giu' sulla branda, il sole stava calando su quella vallata di sabbia che cambiava colore durante il giorno come la faccia di un uomo nella vita, al mattino era rosa come un bimbo vispo, il pomeriggio era rossa come un viso avvinazzato o timido, la sera era bianca come la faccia di un vecchio.
I soldati della 101esima divisione aspettavano l'ora dell'attacco, dall'altra parte gli stessi gesti, le stesse risate per mascherare la paura, le urla per spaventare il nemico.
Nella notte i Buoni ascoltavano gli insulti urlati dai Cattivi, i Cattivi ascoltavano in silenzio gli insulti dei Buoni, ma nessuno capiva esattamente, sembravano gridi d'animale che abbaia ma non morde, Non c'era bisogno in fondo di capire.
Nessuno, il comandante dei Buoni era un tipo tutto lentigginoso, paffuto, canticchiava "Let's spend the night toghether", era tutto meno che un capitano, aveva la voce infantile come chi rimane piccolo finchè tutto d'un colpo arriva ad essere un uomo, compiendo un delitto atroce.
Nessuno fece schierare i suoi uomini sotto la collina e disse:
"Giocate fino all'ora dell'attacco, giocate in qualsiasi modo perchè cosi' vi abituate al gioco della guerra, dovrete usare la stessa cattiveria che avevate quando qualcuno vi rubava un giocattolo, quando picchiavate il piu' piccolo".
Quei soldati nell'attesa dell'attacco schiacciavano formiche, si lanciavano palle da baseball, giocavano a nascondino.
Dall'altra parte il capitano dei Cattivi, Ignoto, baffo curato e occhio senza fondo, parlava sottovoce, come chi parla solo con gli occhi e i suoi erano occhi incoscienti come quelli dei soldati piu' eroici.
Fece schierare i suoi uomini sotto la collina e disse:
"Giocate fino all'attacco, divertitevi, tutta la vita vi hanno detto di lavorare e non divertirvi se non alle ore stabilite, adesso sfogatevi"
I soldati Cattivi giocavano a carte, si prendevano scherzosamente per le gambe, giocavano ai soldatini.
Era l'ultima notte prima dell'attacco, Vedova e Sola, mogli dei due capitani erano medici dei rispettivi schieramenti, senza conoscersi ebbero la stessa idea per fermare quella guerra infame e inutile, che non avrebbe cambiato le loro vite, che avrebbe consolidato altre dittature mascherate da democrazie.
La mattina dell'attacco quando i soldati si svegliarono si misero a cercare i propri stivali, le proprie mitragliatrici, sia i Buoni che i Cattivi nello stesso istante erano disperati, urlavano con il terrore nel volto. D'improvviso erano rimasti nudi.
Si guardavano in mutande e canottiera e quando il capitano dei Buoni e quello dei Cattivi di presentarono in mutande ai rispettivi schieramenti, tutti fecero il saluto militare e cantarono l'inno nazionale riuscendo a non ridere, anzi qualcuno pianse.
"C'è stato un sabotaggio, non abbiamo piu' ne' divise, ne' armi, andremo incontro al nemico a mani nude, per l'onore della nostra Patria" dissero i due capitani nello stesso istante.
Piu' le ore passavano piu' nessuno di quegli uomini aveva il coraggio di attaccare per primo, si sentivano soli, nudi, non si sentivano piu' uomini, alcuni da una parte e dall'altra della collina singhiozzavano sulla loro pelle nuda, inutile e indifesa.
Scrivevano lettere non piu' alle mogli o alle fidanzate ma solo alle mamme, i due capitani erano gli unici lucidi, spietati e adulti, non avevano perso la calma e incitavano gli uomini a non perdersi d'animo.
Nè da una parte nè dall'altra della collina si osava agire, giorno dopo giorno i Buoni e i Cattivi facevano facce di paura, ridevano senza un motivo, si gettavano a terra e camminavano a mani e gambe come i neonati, si facevano la pipì addosso, nascondevano la testa sotto la sabbia mentre i due capitani cercavano di scuotere gli schieramenti con la musica.
Da una parte ci provarono con "Guerra! Guerra, Le Galliche Selve!" dall'altra con la "Passione di Matteo". Ma quegli uomini bambini ridevano e morsicavano le gambe dei suonatori. Ci riprovarono da una parte con "Squilli, echeggi la tromba guerriera!" e dall'altra con la "Cavalcata delle Valchirie" ma quei soldati bambini ballavano nudi al ritmo di quelle musiche, facevano linguacce e pernacchie alla Storia, alla Patria.
Erano sempre meno uomini, meno soldati, avevano paura, non volevano agire piu', volevano solo giocare.
Al suono di "Noi siam le zingarelle" da una parte e dall'altra si ballò nudi e quasi felici ed uniti, non c'erano le zingarelle, ma quei soldati bambini nudi imitarono le zingarelle, sembrava che Verdi potesse fermare la guerra e unire gli uomini ma non fu così.
Bastò che una palla rossa fosse lanciata per sbaglio dalla parte dei Buoni a quella dei Cattivi e tutti quei soldati bambini a quattro zampe di gettarono su quella palla, la "loro" palla.
Fu un massacro, con quella palla che rimbalzava in alto e in basso tra corpi che si pestavano, si colpivano, si dilaniavano con urli da bambini, schizzavano dappertutto fiotti di sangue.
Quei soldati bambini erano d'improvviso tornati soldati uomini e volevano sopraffare il nemico, volevano la "loro" palla, la "loro" terra, i loro "soldi".
Si ammazzarono l'un l'altro e non rimase vivo nessuno in quella sabbia rossa di sangue, solo due donne che abbracciate urlavano, piangevano e vomitavano sulla guerra.

 

ULTIMOAMORE FATTO DI CIBO

Quest'anno sono andato al mare a Rimini con un gruppo di anziani, io ne imboccavo due, Sincero e Rina.
Tutti i giorni, uno di fronte all'altro, stesso tavolo in riva al mare, due piatti di minestra fumante di anolini in brodo.
Fino a quando quei due erano all'ospizio in città quei due avevano sempre gustato i cibi, facendo i complimenti, dicendo che tutto era buono, che tutto era perfetto, che ne volevano ancora e noi volontari eravamo soddisfatti, gli regalavamo più volentieri i nostri sorrisi, ci mettevamo sempre grande impegno per fare nuovi piatti.
Poi da quel giorno in vacanza, in riva al mare qualcosa sembrava essere cambiato.
Ad ogni fetta di prosciutto, scaglia di parmigiano, tortino di spinaci, pezzo di crostata che arrivava, quei due muovevano con moto ondulatorio la testa e inarcavano il naso.
Assaggiavano appena quel cibo squisito e facevano una faccia schifata, poi tornavano ad inarcare il naso verso il mare, tendevano le orecchie per sentire lo schiantarsi delle onde sulla battigia.
Noi volontari li guardavamo senza parole.
Quei due vecchi dicevano che sentivano il profumo del mare, che quello era bello,
dicevano che quello era buono, masticavano addirittura dopo aver odorato il mare, come se quell'odore di mare fosse un cibo che li potesse nutrire, un cibo che potesse rendere felici.
Altro che anolini in brodo, altro che stracotto, quei due mangiavano mare.
Rina e Sincero avevano davanti a loro cibi squisiti, ma non facevano complimenti, non li annusavano, annusavano l'aria, si guardavano negli occhi quei due e dicevano che nell'aria c'era un buon profumo. Masticavano senza cibo in bocca.
Alcuni di noi, ridevano e non capivano, altri se ne stavano cupi e guardavano il mare e poi le bocche in movimento di quei due vecchi.
Rina e Sincero volevano ascoltare "Azzurro".
Ricordo che io e i miei amici volontari vagavamo per la spiaggia ad annusare il mare con il naso all'insù, ma quasi tutti noi alla fine concludevamo che non era un buon profumo, qualcuno diceva che era meglio dare da mangiare dei pesci a quei due, che forse era quello che volevano.
Sincero dagli occhi celesti e inquieti, dal gesto nervoso e le mani grosse da contadino, a volte sbatteva le mani con rabbia sul tavolo, bestemmiava pure.
Rina dagli occhi nocciola spaventati e dolci, muoveva con delicatezza le mani, quasi suonasse un'arpa.
Nessuno dei due parlava piu', solo con gli occhi parlavano. Guardavano il mare in silenzio. Sembravano ormai due morti dagli occhi aperti e dalla bocca aperta, noi dovevamo riportare verso le cucine in fondo alla spiaggia quei cibi squisiti che per la prima volta erano stati ignorati.
Mio Dio i piatti della cucina parmigiana che erano stati ignorati, derisi, vilipesi per un osceno odore di mare, ma che pazzia stava succedendo?
Noi facevamo a gara per preparare loro piatti prelibati, dai tortelli di zucca, alla bomba di riso, passando per il vitello tonnato e lo stracotto, fino alle torte sbrisolone e il castagnaccio, ma quei due continuavano ad annusare l'odore del mare.
Non toccavano cibo.
Che tutti ci guardavamo in faccia e in realtà era un odore non tanto buono, non certo più buono di quello dello stracotto o degli anolini.
Ci provammo a cucinare branzini e tonni, e sogliole e pure aragostelle ma ne' Rina ne' Sincero assaggiavano quei piatti da gran Ristorante.
Quel cibo marciva sulla tavola.
Che quei due avessero perso oltre che le forze e la bellezza, anche il lume della ragione? Il senso dei profumi e del gusto dov'era?, quello che fa star bene tutti perché non faceva star bene i due vecchi rottami Rina e Sincero?
Un giorno che venne la banda a suonare "Romagna mia", quei due erano particolarmente allegri, noi non ci facevamo più vedere, li spiavamo da poca distanza coricati sulle sdraio.
Dopo ore di movimenti ondulatori della testa verso il mare e di lunghe aspirazioni con il naso, accadde qualcosa di stupefacente.
Rina spezzò un pezzo di branzino in diversi pezzi e mettendo in ordine i pezzi scrisse "Begli occhi, come il mare" e guardava fisso Sincero, Sincero rimase muto.
Andò avanti Rina per giorni a scrivere messaggi dolci a Sincero con fette di prosciutto e pezzi di mela, e cappelletti e scriveva: "Vieni a casa mia che ti faccio da mangiare" "Ti presento a mia madre" ma Sincero la guardava senza espressione.
Poi un giorno Sincero spezzò il formaggio parmigiano a pezzetti e scrisse: "Le tue mani delicate, vorrei toccarle".
Da quel giorno quei due continuarono a scriversi messaggi col cibo, con quel cibo prelibato e immortale, senza mai toccarsi.
Il problema era che quei due vecchi innamorati non mangiavano piu', usavano il cibo solo per scrivere messaggi d'amore.
Noi volontari eravamo sconvolti, eravamo preoccupati, che non erano normali quei due, che noi eravamo normali.
Io e gli altri gli fornivamo pane, grissini, pezzi di pesce, di carne, pezzi di formaggio, per quei due vecchi il cibo era ormai diventato inutile, disgustoso.
Continuavano a masticare mare sorridendo.
Non mangiarono piu', come se nutrirsi solo d'Amore potesse bastargli per campare, il loro amore li portò alla Morte.
Un giorno trovammo Rina e Sincero schiantati sul tavolo in riva al mare, finalmente abbracciati.