Pablo Lazzarin

Ventisette anni con un lavoro "flessibile" e prospettive di laurea molto scarse.
Lavoro studio e sopravvivo nell'alto Polesine. Oltre a non avere mai pubblicato nulla non ho mai reso pubblico alcuno dei miei racconti brevissimi. Provo oggi a farlo. Un po' per gioco e..un po' perché anche le piccole vanità rivendicano il loro spazio.

Il cappello nero

<<Mai una volta in orario>>

<<Sarà successo qualche altro incidente. Tanto oramai ci siamo abituati.>>

<<E poi parlano di Europa!>>

Tra le poche persone intorno a me non sembrano esserci futuri premi Nobel ma del resto nemmeno io ho grandi cose da dire. Però almeno sto zitto. Il pallore alcolico del mio viso non sembra disturbare nessuno. Meglio così, il viaggio è lungo e il ritardo del treno sta alterando la quiete mattutina dei pendolari.

Senza grossi problemi trovo posto in uno scompartimento semivuoto dove sistemo la mia borsa e saluto con un cenno un signore di una certa età che mi guarda più per abitudine che per curiosità. Ha in mano un quotidiano e un vecchio cappello nero che continua ad accarezzare per privarlo della polvere che forse non c’è più. Al suo fianco una ragazza ha gli occhi chiusi e la testa china ma non credo dorma. Sembra molto bella e un’età non tanto diversa dalla mia ma potrei sbagliare. Per fortuna nessuno dei due mi rivolge la parola e io posso gettare lo sguardo e la mente fuori dal finestrino.

Non sono un grande viaggiatore nonostante i tanti viaggi fatti, ho sempre la sensazione di avere fretta di arrivare da qualche parte e mi prende l’ansia del ritorno, del bagaglio messo male, del biglietto forse non obliterato e così via. Non sono soprattutto un granché come compagno di scompartimento ma parlare per parlare non mi attira affatto e allora chiudo gli occhi, appoggio la testa cerco di recuperare almeno un po' di sonno.

Quando li riapro mi rendo conto d’avere dormito un po'’, forse mezzora o di più...

<<Alla sera leoni...>>

Il vecchio lascia la frase sospesa, io gli butto addosso un sorriso fin troppo eloquente poi giro lo sguardo: la ragazza è ancora lì e dal gonfiore degli occhi deve avere dormito almeno quanto me. Ci fissiamo un attimo e ci scappa un gesto di reciproca approvazione con il capo. E’ davvero bella. Ho persino voglia di dirglielo ma lei si rituffa nel sonno e io guardo fuori dove il sole pian piano si impadronisce della situazione. Anch’io mi metto a dormire ma non è più facile come prima, il sole, il vecchio che strofina il cappello e ancora pensa a come rimediare alla battuta infelice di poco prima, il treno sempre più rumoroso. E allora penso, senza troppo ordine. Il viaggio, il lavoro che mi aspetta, la tristezza che ho dentro, la vita e altre stupidaggini del genere.

<<Un giorno, molti anni fa, non avevo ancora trent’anni, sono stato felice>>

Il vecchio aspetta un attimo prima di continuare, cerca approvazione, strofina il cappello con la mano, guarda fuori e riprende con più voce.

<<Non è facile essere felici, occorre esserci abituati. Io felice lo sono stato una volta, pochi giorni, ma al mattino, quando gli occhi si aprivano, ero certo che il sole fosse sorto anche per me.>>

La ragazza lo osserva attenta, io meno, lo trovo patetico, ma mi rendo conto che ha qualcosa da raccontare probabilmente da troppo tempo. Per qualche secondo un certo imbarazzo aleggia tra noi improbabili compagni di viaggio, finché la ragazza borbotta qualcosa.

<<Essere felici è la cosa più semplice del mondo>>

Il vecchio sorride, la fissa e poi guarda verso di me.

<<Tu sei felice?>>

Di colpo mi trovo spiazzato. Confuso. Non amo parlare, figurarsi parlare di quello che sono o che sento. Cerco di dare forma decente a quello che vorrei dire.

<<No. Ma cerco di non pensarci. Tutto qui.>>

Con una calma che quasi infastidisce il vecchio si toglie la sciarpa e il cappotto e li appoggia con cura sul sedile vuoto in fianco al mio. Sembra abbia voglia di raccontare qualcosa. Accendo una sigaretta con aria di chi si è rassegnato. La birra sempre abbondante, le poche ore dormite, il biglietto forse non timbrato. Ci mancava il saggio e le sue storie di vita. Io la vita la sopporto, la invento ogni mattina che il mal di testa me lo permette. Vorrei parlare di questo ma lui mi ruba il tempo. Appoggio la testa e do una tirata ingorda alla cicca.

<<C’era questa ragazza. Una donna potrei dire perché non era mica più una bambina. Sui trent’anni, ventotto per essere precisi. Ricordo che era bella, questo si lo ricordo, eccome se me lo ricordo. Allora lavorava alle poste, allo sportello intendo, e io alle poste ci andavo tutte le mattine per ritirare la posta dell’ufficio senza aspettare che ce la portassero alle undici, undici e mezza.>>

La ragazza sembra molto più interessata di me e approfitta dell’arrivo del controllore per interrompere il racconto con una domanda. Io sfilo il biglietto dalla tasca ed è timbrato dalla parte giusta, guardo compiaciuto il bigliettaio.

<<Anche lei aveva trent’anni?>>

<<Si, quasi trenta anche io.>>

Accendo ancora una sigaretta e aspetto il seguito che non tarda.

<<E tutte le mattine mi svegliavo con l’unico scopo di vedere ancora quel viso, il suo sorriso, le mani svelte con lunghe dita sottili. La mia giornata iniziava e finiva li, appoggiata al grosso vetro che mi impediva di sfiorarla, di accarezzare quelle guance sempre poco truccate, di sentirne il profumo. Non che conducessi una gran bella esistenza, lo ammetto, ma per quei pochi mesi lei era entrata in me a rompere il fragile equilibrio della monotonia. A volte, se c’era molta gente, passavo anche diversi minuti in fila e niente mi avrebbe dato più gioia di quei sorrisi allegati ad ogni pacco di lettere o ai vaglia>>

<<Ma allora era così con tutti>>

La ragazza mi lancia un’occhiata non proprio gentile, la mia considerazione non sembra essergli piaciuta molto. Il vecchio prende con calma il cappotto, infila il giornale sulla tasca di destra poi si sistema la sciarpa, la prossima fermata deve essere la sua.

<<Si, era gentile con tutti ma una mattina il suo sorriso fu diverso, tutto il suo viso sorrideva ed era per me. Sono cose che senti dentro. Non ci potevo credere. Fu così per molti giorni e io mi sentivo di nuovo vivo, avevo capito quanto la vita poteva offrirti se solo lo volevi, fui felice in quei giorni. Lo fui davvero, come nascere di nuovo e poterlo capire.>>

La ragazza ha gli occhi lucidi. Il vecchio è già in piedi pronto per scendere e lei non sembra appagata.

<<Poi l’hanno trasferita?>>

<<No, ci siamo conosciuti e siamo ancora sposati>>

<<E non siete più stati felici?>>

<<Oh, stiamo bene. Anche dei momenti di vera gioia, ma la felicità, quella vera, dura pochi istanti e devi saperla cogliere. Capisci?>>

La ragazza annuisce con aria soddisfatta di chi ha capito davvero. Io cerco ancora una sigaretta per evitare di rispondere. Il vecchio si sistema il cappello nero sulla testa grigia, ci saluta con affetto, o almeno lo simula, e si avvia alla porta.

Il resto del tempo non parliamo molto. Ogni argomento si dissolve in poche battute e forse ne io ne lei abbiamo niente da dirci. Cerco di trovare in lei qualcosa di interessante ma, evidentemente, non è oggi il giorno per essere felice.

Pazienza, in fondo la mia tristezza la posso ancora reggere per un po’ e poi treno ha già iniziato a rallentare, il lavoro, la felicità, la vita e tutte le altre stupidaggini mi aspettano.