Emanuele Fontana

nato ad Anghiari il 23/01/1972. Vivo ad Anghiari, dove sono tornato dopo alcuni anni di permanenza a Perugia, Roma e Rimini. Sono laureato in Scienze Politiche e mi occupo di formazione. Attualmente lavoro come ricercatore per CESCOT TOSCANA ad Arezzo ma collaboro con enti ed università per ricerche di carattere sociolavorista. Scrivo da sempre. Nel 1999 ho pubblicato un libro di poesie da Maremmi di Firenze con prefazione di Saverio Tutino. Ho pubblicato poesie e racconti in molte riviste e giornali.

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Il mastino

"Sei allo stesso tempo dolce e sbrigativo". Disse. "Non so che dirti. Per me è naturale fare così". Risposi con un filo di voce. Un filo sottile rimasto appeso alle labbra umide di saliva. Me ne stavo comodamente disteso, da almeno un'ora, sul corpo morbido di lei. Strinsi i suoi capelli fra le dita e cominciai a fissarla nella penombra della mia machina, anch'essa, come noi, quasi sospesa nell'aria gelida di una notte autunnale. Eravamo sul ciglio di una stradina di campagna, vicino ad un casolare abbandonato che, presumibilmente, serviva come deposito degli attrezzi di qualche impresa agricola. "Ancora non capisco che vuoi da me". Riprese. Era visibilmente coinvolta nella situazione. I suoi occhi continuavano a fremere e luccicare ogni volta che li fissava sui miei. "Nulla, bambina, solo te". Risposi candidamente. Sapevo che l'avrei presto abbandonata. Succedeva sempre così, in quel periodo. Mi sceglievo una preda, la braccavo con decisione e, una volta raggiunta, ero così ipocrita da farla innamorare come una pazza di me per poi abbandonarla dopo poco tempo. Sicuramente per gonfiare la mia vanità maschile. Forse anche per il semplice desiderio di essere amato da qualcuno. Ci baciammo con passione per un'ora, dispensando carezze e sospiri. L'avevo già posseduta ma ora era giunto il momento dell'illusione. Durò quel tanto che basta a convincerle di essere amate, adorate. Le illudevo a tal punto che poi, quando non avevano più notizie di me cominciavano, tutte, a cercarmi disperatamente, con bramosia. Mi sentivo vile nel comportarmi così ma d'altra parte non riuscivo a farne a meno. Era un motivo di orgoglio da un certo punto di vista. Da un'altra prospettiva era invece la mia inesorabile sconfitta come uomo. Almeno così diceva una mia amica. Con fare sbrigativo mi accinsi a rivestirmi. Era appunto terminato il nostro idillio. Le sacre regole del seduttore mi costringevano ora ad abbandonarla con la mente e con il cuore per almeno due giorni, poi un'altra notte da innamorato, un paio di uscite a passeggio, qualche promessa e nulla più: sparivo come un fulmine sparisce dietro alle nuvole appena squarciate. "Non ho voglia di andare! Ti prego, aspettiamo ancora un po'". "No, non possiamo piccola - adoravo chiamarle così - devo rientrare al più presto, domattina mi aspettano a Milano". Tirare in ballo questa città fa colpo su qualsiasi donna; che non sia di Milano, naturalmente. Sembra che tutto ruoti intorno a quella città. O perlomeno le donne ne sono convinte. Dire che devi andare a Milano l'indomani, significa che sei uno che conta, che devi sbrigare degli impegni importanti, da sbrigare solo in una città importante: la capitale economica. Questa deriva degli anni '80 è ancora presente, mi ripeto, in tutte le donne che frequento o che mi è capitato di frequentare. Milano è la capitale di un mondo ovattato, alla moda, capace di concedere tutto a chi tutto vuole. E' la città americana che l'Italia tutta ha sempre sognato. Come da copione, anche Adriana non obiettò nulla rispetto alla mia decisione di andare a casa, visto che l'indomani mi attendeva una dura giornata di lavoro a Milano. Non persi tempo e in due minuti ero già sotto casa di lei. Ci salutammo con un bacio e ne me tornai di fretta verso casa mia. In quel periodo abitavo in una casetta di mattoni rossi in prossimità della ferrovia e a due passi dalla statale. Con la nebbia il luogo, pur godibile d'estate, diveniva ora, in piano inverno, una sorta di via di mezzo fra un grigio quartiere di periferia di una qualsiasi città del nord e una porzione incolta della piatta campagna emiliana. Entrai nel vialetto nella stradina che portava a casa svoltano velocemente a destra dalla strada principale. Sostai nel consueto posto, assegnatomi, con tanto di benedizione, dal proprietario di casa fin dal primo giorno di permanenza in quel luogo. Andai a letto per riposare, finalmente, testa e arti, stancati dalla solita faticosissima giornata. L'indomani ero in piedi già alle sette. Dovevo andare a prendere il capo a casa sua per portarlo all'aeroporto. Nella nebbiosa mattinata pensai a lei. Fingevo di stringerla ancora a me, fra i sedili della mia macchina, dove i vetri appannati ci avevano nascosto la sera prima. Appena lasciato il capo me ne tornai in ufficio per sbrigare le emergenze e per eseguire immediatamente gli ordini che mi aveva impartito prima di salutarmi all'ingresso dell'aeroporto. Passò così, intensamente, la mattinata in ufficio. Il pomeriggio poi fu ancora più impegnativo. Ci si mise anche un tedesco, che di solito veniva solo nel mese di maggio. Era in città anche in questo periodo, come disse lui, per altri giri. Come se per fare delle commesse io me ne andassi a Lipsia o, che so io, in una sperduta cittadina della Baviera. Alle sette di sera ero fuori: toccava a lei adesso. Una cenetta da Gianni, in riva al mare, ci fece assaporare la bellezza di starsene incollati alla tavola mano nella mano, gustando cozze e mille altri molluschi in un numero infinito di salse e guarnizioni. Alcuni dicono che sia illuminante portarsi una donna a cena. Capisci subito se è quella giusta per te o se è solo un'avventura. Questo all'apparenza, diciamo da manuale. Quello che invece penso è che, comunque sia, con una donna non è mai un'avventura, c'è sempre qualcosa sotto. Più che altro dipende dal fatto che ci sentiamo tutti quanti soli e si fa di tutto per staccarsi da questa solitudine, o qualcosa del genere. Insomma più che altro, non è mai per gioco che ci si frequenta. Ognuno proietta se stesso e l'altra, in una prospettiva unitaria, insomma insieme, in una realtà artificiale distante anni, un po' per curiosità, un po' per gioco e forse, come detto prima, un po' per solitudine. E' l'eterno gioco del "forse è la persona adatta per me". Anch'io, quella sera, cominciai a giocare. Cercai di convincermi di amrla e immaginai come avrei potuto vivere con lei. Anche lei, forse, pensava alle stesse cose. Per dir la verità a cena, di una donna, non capisci proprio niente. Sei solo in grado di immaginartela in un modo o in un altro: di fare ipotesi. Anche quella sera fu la macchina ad accogliere i nostri gemiti. I vetri erano molto più appannati rispetto alla sera prima. "Mi sei mancato, sai. Oggi non ho fatto altro che pensare a te". "Anche tu sei stata nei miei pensieri per tutto il giorno. Avevo voglia di sentirti". Risposi. "Perché non mi hai chiamata, allora?" Domandò con curiosità. Mi accorsi che in lei stava prendendo forma il solito, indistinto, sentimento di possesso verso l'amante. Mi abbracciò più forte, in modo da farsi sentire fisicamente ancora più presente su me. Poi le solite smancerie gratuite, la solita collera, il solito atteggiamento distaccato, fornirono di me, per adesso ai miei occhi, il quadro impietoso. Mi stavo stancando anche di lei. Improvvisamente. Abbassai il finestrino per avere aria. Lei mi guardò con dolcezza. "Perché non mi hai chiamata. Non vuoi rispondere?" Come al solito mi accinsi alla mia sceneggiata per giustificare un comportamento scorretto. "Semplicemente perché non ne ho avuto il tempo. Sai, sono stato molto impegnato". Affermai solennemente. Dovevo ricordarmi di essere stato a Milano. E ora che avrei detto? Lei, per fortuna, non mi ascoltava nemmeno più. Convinta dalle mie carezze, si crogiolava sul mio petto, accarezzando i miei capelli. Quando l'accompagnai a casa erano già le due di notte. Avevamo fatto tardissimo. Quello che di più mi preoccupava era alzarmi fresco l'indomani mattina, così la salutai in fretta e ripartii verso casa nella notte. Da quel momento, nulla andò diversamente al mio solito schema. Passarono i giorni e continuavo a non cercarla. Semplicemente non ne sentivo la mancanza. Farci l'amore era stato bello ma ora non sentivo quella necessità. Per la verità non sentivo proprio niente. Un'altra donna era passata su me indifferente, senza lasciami niente di più che il suo profumo sul maglione. Molte volte provò a farsi sentire ma io, cinico, appena vedevo il suo numero apparire sul mio telefono, non badavo a rispondere. Poi le telefonate cominciarono ad arrivare anche in ufficio ma Tamara, splendida segretaria, filtrava con il solito sorrisetto, le chiamate e impediva così ad Adriana di raggiungermi. Fu così che mi liberai di lei. Dopo almeno due mesi dall'ultimo incontro, rientrando in casa, trovai di fronte alla porta, una scatola di cartone abbastanza grande, con sopra un biglietto. Avvicinando la mano alla scatola notai, con una certa apprensione, che questa si muoveva vibrando. Poi dei vagiti mi fecero trasalire. Allora prontamente aprii la scatola e ne uscì fuori un cane, già di mezza taglia. Un cucciolo, grigio e nero di mastino napoletano. Impressionato dalle feste dell'animale e dall'andazzo della situazione lessi velocemente il biglietto: Era il mio regalo per il tuo compleanno, che avrei voluto festeggiare con te. Purtroppo non mi hai più cercata e l'ho tenuto. Visto che è cresciuto troppo, penso sia giunto il momento di restituirlo al legittimo proprietario. Adriana. "Eh no"! Gridai. Non puoi farmi questo"! Ma evidentemente, l'aveva già fatto. Mi ritrovavo con un mastino napoletano di tre mesi circa. Già robusto e forte. Capace in un attimo di divorarsi un chilo di carne cruda - me ne accorsi dopo pochi minuti dal suo ingresso in casa - tenace come tutti i mastini, mai domo. Era chiara una cosa: stavo pagando il prezzo della mia vanità di maschio Comincia a pensare al modo di rivederla per ridargli il suo mastino. Non che io odi gli animali ma il pensiero di avere un bestione del genere accanto mi dava i brividi: solo di carne un animale del genere può costare milioni in un anno. E poi dove lo avrei mai potuto tenere. Mi attaccai immediatamente al telefono e composi in successione il numero di casa sua e quello del suo cellulare. Il panico mi investì appena una voce metallica mi annunciò che l'abbonamento del telefono fisso era stato disdetto. Neanche il cellulare dava speranza: era costantemente irraggiungibile. Intanto il cane, dopo il lauto pasto, si era comodamente disteso sul divano, senza il minimo timore per il nuovo ambiente o altre remore: un vero mastino napoletano. Solo molti giorni dopo riuscii a trovare Adriana ma un secco "chi se ne frega, ora abito in un'altra città" fu il suo unico commento alla mia richiesta disperata di aiuto. Prima di quella richiesta, priva della più elementare manifestazione di dignità umana, mi ero rivolto già a mia madre e a due zie, quest'ultime però, vista l'età, non avrebbero mai potuto tenere a bada quel cane, così con loro non insistei nemmeno. Mia madre invece fu molto più risoluta nel respingere le mie suppliche e lasciarmi al mio destino. Una bella mattina di sabato, tre giorni dopo l'arrivo del cane a casa mia. Lo feci salire in macchina, dove fece di tutto, e lo portai a casa dei miei in campagna. Mia madre ci vide arrivare dalla strada seduta sugli scalini della porta di ingresso. Appena scesi dalla macchina mi squadrò con un eloquente sguardo interrogativo e disse: "Spero che non sia tuo quel cane". "Invece lo è". Risposi prontamente. "Beh comunque io non lo posso tenere. Ho già Pepe".

Anche la strada apparentemente più facile si dimostrò impraticabile e così non mi rimasi altra scelta che tenermi il mastino. Intanto questo cresceva in continuazione, consumando kl e kl di carne e contribuendo a sperperare le mie risorse economiche. Insomma, in breve mi trovai schiavo di un enorme e fra l'altro intrattabile cane. Era la punizione per le mie avventure senza senso? Per le mie truffe sentimentali a fanciulle innocenti? Nulla di tutto questo. Solo la sfortuna mi stava perseguitando, tanto da far sembrare che anche gli animali ce l'avessero con me. Il cagnone mangiava, abbaiava sporcava la casa e io non potevo impedirlo, anche perché, come di consueto rimanevo fuori per tutta la giornata. Convinto ottimista, provai a rivolgere la situazione a mio favore. Siccome il cane doveva passeggiare, almeno qualche volta, presi l'abitudine di recarmi con lui nel grande parco a ridosso della statale tutti i sabati pomeriggio. E li non potevi non calarti nella realtà di un posto adibito allo sfogo delle paranoie caloriche di devine di ragazze. Tutte prese a correre a destra e sinistra come caprette. In due visite cominciai ad abituarmi alle diverse figure femminili che animavano il parco. Al cune carine e altre meno ma comunque tutte, irrimediabilmente possibili prede per la mia famelica determinazione di seduttore. Il cane, cucciolo bello e Robusto, serviva nel migliore dei modi la causa. Con altre due giornate riuscii a farmi conoscere da al meno un paio di belle ragazze in tenuta sportiva. Si avvicinavano ad accarezzare il cane mentre, ansimando, stavano per completare l'ultimo degli innumerevoli giri del percorso obbligato per la corsa. Abbracciavano l'affascinante anemale e poi intervenivo io. Le solite chiacchiere, la solita smorfia del viso, i soliti sorrisi. Nel rispetto del protocollo di abbordaggio riuscii, alla quinto Sabato a rimorchiare una simpatica esperta di formazione professionale, in forza ad un ente fra i più qualificati della città. Fissammo un appuntamento per la sera stessa. Una pizza sarebbe stato lo scopo della nostra riunione dopo le fatiche della giornata sportiva. Beh dopo tutto il mio cane era servito a qualcosa. Tornando a casa, mentre scodinzolava come un matto e annusava tutto e tutti, ne brandivo il sguinzaglio con orgoglio, quasi che fosse diventato d'improvviso il mio fido compagno di avventure. Pensai improvvisamente che il mio amico non aveva ancora un nome ufficiale. Lo avevo chiamato in mille modi ma tutto mi era apparso provvisorio. Non sapevo ancora come battezzarlo, se è il termine giusto. Una volta l'avevo quasi deciso ma poi "Cornelius", in onore di uno scimmione cinematografico, non mi sembrava facile da pronunciare e quando un nome non è facile da pronunciare e supera le quattro lettere è inutile appiopparlo ad un cane, tanto non lo capisce. Questa lezione sui nomi me l'aveva fatta un mio amico veterinario, al quale avevo fatto vedere il cane. Arrivato a casa, sfinito, mi preparai per la sera. Per il mio cane, da oggi Fidelio, anche se il nome superava le quattro lettere, doppia razione di carne. Alle 20 passai a prendere la mia nuova amica, mentre a Fidelio avevo riservato il garage, con tutti gli onori del caso, visto che fino ad ora aveva dormito in una cuccetta in giardino. Lorella mi aspettava a casa sua, attendeva il mio arrivo alla finestra. La potevo vedere dalla macchina, considerato che, nel rigoroso rispetto dell'architettura locale, anche la sua casetta era, singola, a due piani, color rosso ruggine, e con poche finestre: un misto fra stile New England e campagna padana. Usci con un bel passo di casa. Era vestita semplicemente. Una maglietta verde chiaro, un bel paio di blue jeans e un velo di trucco a renderla più bella. Anch'io ero rimasto rigorosamente casual indossavo il mio paio di jeans preferito e la solita camicia fuori dai pantaloni. Ci avviammo in macchina verso il centro. "Dove andiamo?" Mi disse. "Pensavo da Carlo ma ho paura che stasera sia pieno. Direi che possiamo vedere quella nuova pizzeria su al colle di Cavagnana, che ne dici?" "Ottima idea". Mi piacerebbe andare lassù. Era simpatica, splendida, decisa, che altro dire di lei. Lanciai un bacio immaginario al mio Fidelio. Pensandoci forse il nome Annibal gli si addiceva di più. Un pizza buonissima e una stupenda chiacchierata a spasso per il centro ormai vivibile perché scaldato dai venti primaverili, furono il cemento della nostra relazione, che di li a poco iniziò, con un bacio sotto casa di Lorella. Felicemente me ne tornai a casa. Mi accorsi subito di quello che era successo, perché trovai la porta del garage aperta. Incredibilmente, ma poi pensandoci non era stato così incredibile visto che avevo lasciato io la porta aperta, il cane era riuscito ad aprirsi un varco e fuggire dal garage. Mi preoccupai subito: non potevo accettare l'idea che Annibal divenisse il protagonista di qualche incidente notturno. Salii in macchina e cominciai a cercare nel quartiere. Annibal era sparito, non si trovava in nessun posto. In più il fatto di avergli cambiato nome almeno una decina di volte non mi permetteva di poterlo chiamare se non con dei fischi sempre uguali. Comunque sia Annibal non tornò che il giorno dopo. Era un po' sporco ma comunque si vedeva che non aveva sofferto nessuna disavventura. Lo abbracciai e lo sistemai subito in garage, con una bella razione di carne che divorò all'istante. Cominciavo ad affezionarmi al mio cane. Anche Lorella vi si affezionò nei mesi successivi. Amava venire a casa mia per l'ora di cena, preparare per me, lei e naturalmente per Annibal, che nel frattempo era diventato Rodrigo, poi Magath, infine Orlando. Eravamo una bella famiglia e così durò fino al giorno in cui non fece il suo rientro in scena Adriana. "Sono venuta da Bologna per riprendermi il mio cane e ridarti le tue cose". Furono queste le sue parole nell'entrare furiosamente in casa mia. La guardai un po' interdetto e non riuscii a mettere a fuoco la situazione fino a che non ripetè con veemenza la sentenza che pensava di aver deciso di applicare. "Sei il solito stronzo egoista, rivoglio in dietro il mio cane. Ho da ridarti le tue cose che come al solito, per la fretta di scappare dalla mia vita mi hai lasciato". "Penso che ti dovresti sedere per prima cosa. Dopo di che posso farti notare che il cane me lo hai affibbiato per vendetta. Come puoi pensare di riaverlo indietro ora?" Pronunciai quelle parole mentre Adriana non mi presta minimamente attenzione, perché proprio in quell'istante era entrata in casa Lorella. Questa si presentò prontamente e da sola ad Adriana. Capii subito che le mie parole di li in avanti non avrebbero avuto più senso. Le due donne si stavano squadrando con aria minacciosa, mentre Orlando, svegliato dal trambusto, era già arrivato a reclamare attenzione. "Sei una sua amica?" Chiese Lorella ad Adriana. La domanda era ovviamente retorica. Con l'impareggiabile sesto senso femminile Lorella sapeva già di chi si trattava ma con quella domanda voleva sottolineare la sua presunta superiorità. "No, sono la sua ex fidanzata se proprio ci tieni a saperlo". Rispose prontamente Adriana, che già aveva compreso la strategia di Lorella. "Bene, ragazze, volete sedervi entrambe?" Ancora le mie parole risuonarono vuote e senza speranza di risposta nel soggiorno. "Sai, ho prestato io il cane al tuo amico". Disse Adriana. "Come prestato, io sapevo che gli e lo avevi regalato". Rispose Lorella e bastò questo a mettere la discussione sul binario fatale delle rivendicazioni. "Non proprio carina". Ribatté ancora Adriana. Ecco questa non la volevo sentire. L'aggettivo "carina" pronunciato da una donna nei confronti di un'altra, provoca irrimediabilmente lo scoppio di una rissa, perlomeno verbale, fra le contendenti. Me lo dice l'esperienza. Ogni volta che ho sentito dire "carina" ne ho viste e sentite di tutti i colori. "Non so cosa ti passi in testa per pensare che quel cane sia tuo. L'hai abbandonato e se non fosse stato per le cure del mio uomo sarebbe già morto e sepolto". Eravamo alla marcatura del territorio. Le cose si mettevano veramente male. Un sussulto di Adriana mi fece pensare al peggio ma poi mi resi conto che la sua attenzione si era spostata su Orlando, che immobile fissava la scena. Adriana si gettò su di lui con grande dimostrazione di affetto e il cane, da buon ruffiano, ricambiò le attenzioni scodinzolando come un matto. "Vedi come mi vuol bene? Sa benissimo che sono io la sua padroncina. Ma come è cresciuto il mio bel cagnone!". Disse rivolgendosi prima a me e poi al cane. "Pazienza Victor, andiamo via fra poco". Disse ancora rivolgendosi al cane. "Victor?" Esclamammo all'unisono io e Lorella. "Beh, anche Victor però non è male come nome". Dissi leggermente mentre Lorella fissava una sguardo di fuoco su me. Capii al volo che era meglio stare zitto. A volte sdrammatizzare non serve a nulla. La tenzone era fra le due donne. Io e il cane eravamo solo delle vittime predestinate. "Come vedi Lorella il mio Victor ha voglia di andarsene subito". "Non penso proprio Adriana". Disse Lorella rimarcando con voce alta la A: segno inequivocabile di sfida. Pensai ancora al peggio. "Il nostro cane, difficilmente rifiuta le festa a qualcuno, lo abbiamo abituato bene, noi". Insisté Lorella. "Punti di vista carina. Io penso che lui non veda l'ora di tornare a casa con me". "In quale casa? La tua? Non penso proprio". Disse ancora la sempre più innervosita Lorella. Entrambe avevano caratteri forti. Adriana era un po' più sognatrice ma pur sempre determinata nelle cose della vita. Una carta in più la poteva giocare nelle cose di tutti i giorni, perché era abituata a parlare con tutti, uomini e donne, da una posizione di potere. Lorella era più serena di Adriana. Molto più matura sotto qualche aspetto ma indifesa sotto altri. Non sognava Lorella. Era intelligente quanto basta per affrontare con razionalità il mondo e gli altri ma meno attrezzata di Adriana nelle trattative che prevedono il coinvolgimento degli altri. Mamma una sorella l'altra, eccone delineati in due stereotipi i caratteri. La mamma Adriana stava ora cercando di strapparci il buon Annibal. Lorella non tenne più e sbottò intimando ad Adriana di lasciarci in pace e sparire. Fu l'inizio vero e proprio delle lite. Adriana si alzò e con impeto strattonò Lorella. Questa, incapace di far male, le intimò di nuovo di andarsene, pena una sonora bastonata. "Ti rovino se mi tocchi brutta scema!" Urlava Adriana, che non si era resa conto di aver a sua volta strattonato Lorella. "Sei pazza! Sei pazza!" Urlava Lorella. A questo punto mi misi in mezzo alle due contendenti e cercai di calmare gli animi proponendo un caffè. Non ci fu risposta da nessuna delle due parti. Solo un insulto mi arrivò all'orecchio, forse era stata Adriana. Nel contempo il cane saltava felicemente a turno addosso ad uno dei tre. Le donne si scaldavano sempre più e cominciavano a volare strattoni, calci, scappellotti, anche qualche pugno. Io, nel mezzo, cercavo di parare le botte. Annibal, saltava arpionando con le unghie ora la maglietta di Lorella ora quella di Adriana. Dopo aver preso due pugni in faccia, uno da ogni ragazza. Mi decisi ad emettere un grido iroso. Intimai ad entrambe di andare a sedersi nelle poltrone, pene un sacco di botte. Inaspettatamente, o perché si erano stufate di urlare e strattonarsi, o perché volevano veramente raggiungere un accordo, si sedettero tranquille sulle poltrone, come se non fosse accaduto niente. L'avevo scontata solo io ma non ci pensai più di tanto, ora i problemi da risolvere erano altri. Pugno più, pugno meno, non faceva differenza. Il cane intanto si era disteso comodamente sul tappeto proprio in mezzo al soggiorno che ci ospitava tutti. "Vediamo di comportarci da persone adulte". Dissi. "Vorrei che tu, Adriana mi spiegassi perché rivuoi il cane con così tanta insistenza, visto che me lo hai scaricato diversi mesi fa. Intimandomi che non si trattava di altro che di un punizione". "Al momento era giusto così ma poi ci ho ripensato. Comunque ora lo rivoglio". Rispose con decisione. Adriana era così, eterna indecisa, sofferente e rompi balle. L'altra donna cominciò ad innervosirsi sempre più. Era rossa in volto e stringeva i pugni con violenza contro i fianchi. Una bella scena si presentava al nostro amato cane. Tre adulti stupidi che rivendicavano la loro proprietà su di lui. Comincia a ridere fra me pensando alla immensa sciocchezza che stava alla base di quel piccolo dramma famigliare. Lorella, sempre più rossa in volto, riprese la parola: "Per me questo cane non ti appartiene affatto. L'avevi regalato a lui e ora non puoi riprenderlo". "Non penso proprio. Ho tutto il diritto di riaverlo indietro, visto che sono tornata a vivere in questa città. Diciamo che nel periodo di mia assenza poteva tenerselo ma ora devo riaverlo. Per correttezza però dovrebbe dire l'ultima parola il tuo uomo, se ci tieni a chiamarlo così". Stavo osservando il cane, che tranquillamente si stava addormentando sul tappeto al centro della sala,e quelle parole mi colsero un po' di sorpresa. Mi sentii chiamato in causa nel momento peggiore e con il compito più gravoso. Adriana stava fiutando un successo, perlomeno di forma, visto che Lorella era nervosa e senza parole. In più era visibilmente stufa di quella discussione senza senso. Stava in pratica cedendo il campo ad una raggiante sempre più raggiante Adriana. A questo punto sarebbe stato sensato rimandare il tutto ad un successivo conciliabolo ma fui preso dal solito affaticamento da coppia e d'impeto mi inventai quello che segue. Presi il guinzaglio, lo allacciai con cura al collo di Odino, nuovo e bellissimo nome per il mio cane, e salutai con la mano le due donne sedute sul divano. Lorella rimase pressoché sbalordita. Adriana, più avvezza a comportamenti del genere da parte mia, si adagiò con il corpo indietro sul divano e rispose al saluto con un cenno della testa. Uscii di casa con il cane e imboccai la strada principale. In fondo era venuto il momento di lasciare anche Lorella e così feci. Senza rimpianti e senza remore, la abbandonai lì, sfuggendo poi a tutte le sue domande e richieste di chiarimenti. Come al solito, come sempre avevo fatto con tutte le donne. Cominciai a pensare che solo quel cane mi poteva capire, che sarei rimasto per sempre solo con la mia tristezza di seduttore solitario. Ma anche queste erano solo paranoiche idee da film holliwoodiano di terza categoria. Ridevo di me stesso e di queste stupidaggini mentre passeggiavo con il cane. La verità, una delle tante verità, era che mi ero stancato anche di Lorella per il semplice motivo che non l'amavo. Continuai a passeggiare mentre il cane tirava il guinzaglio seguitando ad annusare tutto e tutti come al solito. Il sole spariva nel rosso vivo sopra le colline.