Sergio Albesano

è nato a Novara il 4 giugno 1958 e risiede a Torino, in strada di Lanzo 155 (10148), tel. e fax 011 22 62 403.

Lavora da ventidue anni presso una Compagnia di assicurazioni, nella quale si occupa di gestione e sviluppo del personale, selezione, formazione e comunicazione.

E' sposato da diciotto anni e ha una figlia di dodici anni.

E' stato premiato al concorso internazionale di poesia Diffusioni Artistiche.

Nel 1983 ha pubblicato per le Edizioni Pentarco il libro Fra le rovine di me stesso, vincitore del premio Portovenere e giunto in due mesi alla seconda edizione.

Collabora alle riviste "Talento" di Torino e "Nuova e nostra" di Milano. Suoi articoli sono stati pubblicati su diversi giornali, fra i quali Alba, AlfaZeta, Avvenimenti, Azione nonviolenta, Business, Controcampo, La voce del popolo, L'indice, L'incontro, Missione oggi, Satyagraha, Spirali.

Nel 1991 si è laureato in Materie letterarie presso l'Università degli studi di Torino con il massimo dei voti, discutendo una tesi sulla "Storia dell'obiezione di coscienza al servizio militare in Italia dal 1945 al 1972", che ha ottenuto il primo premio ex aequo del concorso La Pira indetto dalla Fondazione Emanuela Zancan di Padova.

Un suo racconto, vincitore assoluto del premio "La mole" nel 1993, è stato pubblicato nello stesso anno nell'antologia Fantasy, edita dalle Edizioni Italscambi di Torino.

Un suo scritto è stato inserito nella postfazione del libro di J. SEMELIN, Senz'armi di fronte a Hitler, Sonda, Torino 1993.

Nel 1993 è stato stampato il suo saggio Storia dell'obiezione di coscienza in Italia dalla casa editrice Santi Quaranta di Treviso, che ha ottenuto più di settanta recensioni su quotidiani e periodici, fra cui Il sole 24 ore (recensore Goffredo Fofi), L’osservatore romano, Avvenire, Linea d’ombra, Famiglia cristiana, A rivista anarchica, Tuttolibri (inserto de La stampa), Nigrizia, Storia & dossier, l’Adige, L’unione sarda, L’eco di Bergamo, Messaggero di sant’Antonio, Letture, Giornale di Brescia, Corriere di Novara.

Nel 1996 le Edizioni Era Nuova di Ellera Umbra PG hanno pubblicato il libro Obiezione di coscienza e nonviolenza, da lui scritto insieme a Gabriele De Veris e Andrea Maori.

Un suo racconto, premiato con il secondo posto al concorso "Arte 96", è stato pubblicato nel 1997 nell'antologia Il segreto del sogno, l'incanto della meraviglia.

Nel 1998 un suo racconto ha vinto il primo premio assoluto al XV concorso per la pace indetto dal Centro studi Cultura e società di Torino ed è stato pubblicato sulla rivista "Cultura e società" edita dal Centro stesso.

Nello stesso anno un suo racconto ha vinto il concorso "Torino, passato e futuro", indetto dalla Città di Torino, ed è stato pubblicato in un inserto de "La stampa".

Nel 1999:

  • un suo racconto ha ottenuto il diploma di merito al premio letterario Città di Collecorvino;

  • è stato pubblicato dal Movimento Nonviolento e dall’A.N.N.P.I.A. il libro Le periferie della memoria, un'opera collettiva, di cui ha coordinato il progetto, sulla biografia di personaggi che hanno costruito in Italia, dall'Unità ad oggi, la storia dell'opposizione alla guerra;

  • un suo racconto ha vinto il secondo premio assoluto del concorso "Io libro", organizzato dalle Edizioni dell’Altana di Roma;

  • un suo racconto ha vinto il concorso "Lettere d’amore", indetto dall’A.R.C.I. di Torino;

  • un suo pezzo radiofonico ha vinto il terzo premio del concorso "Omero", indetto dalla Provincia di Torino;

  • un suo racconto è stato segnalato al concorso "La fabbrica delle nuvole" e pubblicato nell’antologia omonima edita dalle edizioni M.E.P. di Teramo.

Martedì grasso

 La vecchietta è appisolata sulla poltrona. La digestione le causa sempre sonnolenza, benché mangi meno di un uccellino. La testa lentamente scivola su una spalla, le palpebre si abbassano, il corpo si rilassa. Improvvisamente alcuni colpi sparati in strada la ridestano. Il cuore le batte. Quei sonnellini pomeridiani hanno la proprietà di portarla fuori dal tempo, più dei sonni lunghi della notte. Si sveglia e per un attimo non ricorda più dove si trova e quanti anni ha. La sua memoria la conduce in un porticato. Per un momento si sente giovane, con il corpo ancora forte, ma una morsa di paura le afferra il cuore. Poi rivede la stanza, le tende alle finestre. Comprende che gli spari che vengono dalla strada sono quelli di petardi. Guarda il suo fisico. Non è più quello della ragazza che era. Adesso è un peso adagiato sull’animo. La forza di un tempo è svanita e ha lasciato posto alla stanchezza che precede la fine. Perché fanno esplodere i petardi? Guarda il calendario. Oggi è martedì grasso. Una fitta le attraversa la mente e piano piano ritorna ad un giorno lontano del passato. Non è il sogno questa volta a trasportarla, ma la memoria.

Anche quel giorno era martedì grasso. La guerra sarebbe terminata di lì a pochi mesi, eppure la tragedia che stava volgendo al suo epilogo bruciava ancora corpi e animi. La sua follia, ora così palese, metteva a nudo il senso dell’assurdo di tutto quel sangue sprecato. Si era abituati allora alla presenza quotidiana della morte e la sensibilità degli spiriti si era protetta con un duro callo. La terra impregnata di plasma chiedeva pietà, ma gli uomini non ne avevano ancora avuto abbastanza e protraevano il loro macabro gioco. Avrebbero potuto cessare immediatamente di uccidersi, ma forse la misura non era colma, forse nella botte ci stava ancora un po’ di sangue e perciò bisognava finire di riempirla. Perdere la vita in quegli ultimi mesi era così sciocco: bastava attendere, sopravvivere ancora per qualche settimana e poi tutto sarebbe finito; la morte, con la sua fredda compagnia quotidiana, li avrebbe abbandonati. Negli anni precedenti il morire era una possibilità continua nella vita di ciascuno, come il rischio di inciampare per strada, ma adesso non più, adesso bastava tenersi aggrappati alla vita ancora per qualche tempo e ci si sarebbe salvati. Invece si continuava a morire e ora tutto perdeva definitivamente senso: nessuno aveva più la forza di domandarsi il motivo di quella violenza. Si era nauseati e si voleva soltanto che la tragedia, con tutti i suoi dolori e orrori, finisse.

Anche quel martedì grasso del 1944 era una giornata serena come oggi, con il cielo limpido, indifferente alle miserie dei mortali, e con il sole che scaldava piacevolmente, facendo sentire lontana la guerra e i suoi terrori. Ricorda che insegnava allora nella scuola elementare di un paesino delle Langhe e abitava in un’ala di una grossa cascina insieme a Maria, un’altra maestra che lavorava nella scuola del paese vicino, e a Pina, una donna anziana e senza parenti. Maria era più vecchia di due anni; la ricorda ancora: bruna, con i capelli sempre allacciati alla nuca come usava allora, alta almeno una decina di centimetri più di lei. Pina invece era una vecchina tutta bianca, incurvita su se stessa, che tenevano con loro. Preparava il pranzo quando tornavano da scuola e in cambio le due ragazze le offrivano la loro compagnia. Al secondo piano della cascina viveva Luigi, un bel ragazzo dagli occhi verdi, figlio unico di una ricca famiglia di Torino. Studiava all’università e stava per laurearsi in medicina. Spesso sulla città cadevano le bombe alleate e i genitori temevano per lui. Perciò lo avevano mandato in campagna, in quel paesino tranquillo, dove ritenevano che fosse al sicuro. Anche loro odoravano la fine ormai prossima della guerra e sentivano che era necessario resistere ancora poche settimane; poi il loro unico figlio avrebbe potuto esercitare brillantemente la professione di medico in un’Italia ormai in pace. Nell’altra ala della cascina si era insediato da alcuni giorni un gruppo di partigiani. Erano sette ragazzi tranquilli, che amavano mangiare a sazietà, bere il vino forte di quelle colline, cantare le canzoni piemontesi e pensare alle ragazze. Era strano vederli armeggiare con i fucili mitragliatori, perché erano più pratici ad usare il forcone per raccogliere il fieno. Se non si fossero trovati in guerra, non avrebbero mai fatto male neppure ad una mosca; invece camminavano armati ed erano pronti ad uccidere, ma rimanevano comunque un gruppo di ragazzoni allegri. Non erano nati guerriglieri, lo erano diventati per necessità. Allora non si poteva scegliere se entrare nella mischia o se restarne fuori. Nella mischia si era coinvolti obbligatoriamente; si poteva soltanto scegliere da quale parte schierarsi.

Il paesino era stato per tutto il periodo della guerra un’oasi di pace in mezzo al deserto della violenza. Nessun bombardamento lo aveva neppure sfiorato e i fascisti se ne erano andati ormai da parecchio tempo senza più farsi vedere. Nessun combattimento si era svolto lungo quelle colline e non c’erano stati né morti né feriti. Non sembrava neppure di essere in guerra. Quel martedì grasso l’allegria aleggiava nell’aria, sia perché si percepiva la festa, sia per il sole che splendeva nel cielo sereno, sia perché nella mattinata gli aerei inglesi avevano paracadutato nelle vicinanze del paese diversi pacchi contenenti viveri e munizioni. Infatuati da quell’aurea di pace, i giovani partigiani si erano dimenticati di essere ancora in guerra e avevano festeggiato il carnevale come piaceva a loro: mangiando e bevendo. Durante gli anni del conflitto le feste di ogni tipo erano state proibite e potevano esser tenute soltanto clandestinamente. Come reazione a quell’imposizione, i partigiani provavano ora una soddisfazione maggiore nel festeggiare.

I fascisti arrivarono poco dopo mezzogiorno. Da Alba avevano notato il lancio dei pacchi alleati e avevano deciso di intervenire. Il paese era situato in cima ad un bricco e la strada per raggiungerlo era particolarmente tortuosa. A circa un chilometro dalle prime case sorgeva una vecchia torre, dalla quale si dominava gran parte della pianura che collegava quella collina alle altre che si alzavano verso Alba. La strada correva scoperta per un lungo tratto e, grazie alla morfologia della zona, un uomo solo bastava a controllare l’unica via d’accesso. Dagli altri tre lati, il paese, ubicato sulla cima di una rupe, era protetto dalle ripide pendici della collina. Nessuno sarebbe riuscito ad arrampicarsi da quella parte e dunque, per proteggersi, era sufficiente controllare la strada principale. Quel giorno i partigiani si sentivano particolarmente tranquilli, forse perché il paese non aveva mai subito attacchi, forse perché si sentiva che la guerra era agli sgoccioli, forse perché era martedì grasso. Avevano posto un solo ragazzo sulla torre per controllare la strada e gli altri si erano riuniti nella cascina a festeggiare. Nel pomeriggio qualcuno sarebbe andato a dare il cambio al soldato di vedetta e anche lui avrebbe potuto divertirsi insieme con i suoi compagni.

Non si riuscì mai a capire perché il ragazzo di guardia non si avvide dell’arrivo del camion gremito di repubblichini. Forse aveva deciso di festeggiare il carnevale lo stesso, anche se da solo, e aveva bevuto troppo vino. Fu ritrovano dopo alcuni giorni strangolato nella sua brandina. I fascisti riuscirono ad arrivare in paese all’improvviso, silenziosi e inaspettati. Ricorda che la cascina dove lei viveva era la prima sulla strada e le camicie nere sapevano che era la sede dei partigiani, perché vennero a colpo sicuro. Avevano i loro informatori. Pina, Maria e lei avevano appena terminato di pranzare, quando improvvisamente udirono scatenarsi l’inferno dall’altra parte della casa. Raffiche di fucile mitragliatore si susseguirono una all’altra. I fascisti colsero i partigiani di sorpresa e nessuno dei ragazzi ebbe il tempo di sparare un solo colpo. I primi due caddero a pian terreno, seduti a tavola, uno tenendo ancora la forchetta in pugno. Un altro fu falciato sulle scale. Gli ultimi tre morirono al primo piano, con le pistole nelle mani, ma senza essere riusciti a premere il grilletto. I fascisti non sapevano quanti erano i partigiani e si misero a cercarne altri. Le due parti della casa comunicavano attraverso un corridoio e le donne sentirono i passi dei soldati avvicinarsi sempre più.

Ricorda che, dopo essere rimaste pietrificate dal terrore per alcuni minuti (o forse per molto meno, ma quel tempo parve un’eternità), fu la prima a parlare: "Scappiamo, altrimenti ci uccidono". Si mossero verso la porta e scesero nel porticato. Le gambe le tremavano e doveva imporsi con il cervello su di loro per obbligarle a muoversi. Pina si muoveva lentamente, senza dir nulla, mentre il volto di Maria era privo di colore, con gli occhi sgranati ed enormi. Si fermarono un attimo nel porticato, ma lei capì presto che anche lì erano in pericolo. Tra qualche istante i fascisti avrebbero aperto la porta e senza dubbio le avrebbero uccise. Durante le azioni, infatti, gli uomini aprivano le porte con un calcio e sparavano immediatamente contro qualunque cosa si muovesse. Era la legge della sopravvivenza. Prima sparavano e poi andavano a controllare che cosa avessero ucciso, se un nemico, un cane, un cappotto mosso dal vento o un innocente impaurito.

Ricorda che invitò le compagne: "Andiamo in strada. E’ l’unico luogo in cui possiamo essere sicure. I fascisti avranno tempo di vederci e si renderanno conto che non siamo partigiani, che siamo solo tre donne". Intanto i rumori si avvicinavano sempre più. Pina la guardò e, senza dire nulla, acconsentì con la testa. Lei la prese sotto braccio e l’aiutò a camminare. Uscirono dal porticato e si avventurammo in strada, camminando lentamente, senza movimenti veloci. A quel punto si voltò e si accorse che Maria non le aveva seguite. Era ancora sotto il porticato, vicino alla porta. "Maria", urlò "vieni!"

"Ho paura", le rispose con voce bassa. Poi si mosse anche lei e venne verso di loro, che intanto si eravano fermate ad aspettarla. Era già quasi in strada, quando la porta dietro di lei si aprì e immediatamente una scarica di pallottole la colpì. Ricorda ancora oggi l’espressione delle sue pupille volte verso di lei, che si dilatavano in un’espressione di dolore e di terrore. Cadde a terra senza un gemito. Non riuscì a vedere chi le aveva sparato, perché, dopo essersi fermato sulla soglia per un istante, rientrò in casa. Forse era un ragazzo della sua età.

Lasciò Pina in mezzo alla strada e si lanciò verso Maria. Era ancora viva. Le urlò qualcosa e lei le disse: "Mi hanno colpito al ginocchio. Mi fa tanto male." Allora guardò entrambe le gambe della ragazza, ma nessun colpo l’aveva raggiunta lì. Un buco era aperto, invece, al basso ventre e un fiotto di sangue ne usciva a singhiozzo, spinto da una pompa che stava per spegnersi. Le prese la testa fra le mani e proprio in quel momento gli occhi le rimasero immobili, la bocca restò socchiusa e sentì il suo corpo abbandonarsi senza più forza. Non capiva più nulla. Restava lì accanto al cadavere di Maria, incapace di fare qualunque cosa. Dopo qualche istante le passò accanto il camion dei fascisti e uno di loro da cassone le gridò di andarsene. Gli urlò contro qualcosa, ma non ricorda più le sue parole. Non riesce ad immaginare quanto tempo trascorse, prima che si potesse riprendere dal torpore in cui era caduta. Ricorda solo che si trovava in piedi e vicino a lei c’era Pina. Non si sentivano più gli spari e il paese era piombato in un silenzio opprimente. La gente era nascosta nelle case. Gridò che qualcuno venisse ad aiutarla a trasportare il corpo di Maria, ma nessuno uscì. Avevano paura che i fascisti tornassero. Allora, facendosi aiutare da Pina, iniziò a trascinare il cadavere, che le sembrava pesantissimo. Dopo un po’ due vecchi uscirono dai loro nascondigli e vennero a dar loro una mano. Portarono il corpo di Maria in una casa lì vicino e lo adagiarono sopra un tavolo di legno.

Il giorno dopo, mercoledì delle ceneri, un contadino trovò il cadavere di Luigi riverso fra due filari di una vigna, con gli occhi verdi sbarrati verso il cielo. Aveva sentito gli spari e, impaurito, era fuggito fra i campi. I fascisti lo avevano visto e, credendolo un partigiano, lo avevano ammazzato. Il paese, che per tutta la guerra era rimasto in pace, aveva avuto nove morti in un pomeriggio. Il più vecchio aveva ventinove anni.

Ricorda che insieme con il parroco e il farmacista considerarono la necessità di mandare qualcuno nel paese di Maria per avvertire i suoi genitori, ma in quel periodo nessun giovane poteva permettersi di camminare per le strade, per paura di cadere nelle mani dei fascisti. Tutti i ragazzi dovevano arruolarsi nell’esercito di Salò e chi era trovato sbandato veniva considerato un disertore o un partigiano e fucilato sul posto. Alla fine un vecchio si assunse l’incarico e partì per il paese di Maria. Giuntovi, arrivò sin davanti alla casa dei genitori, ma non ebbe la forza di dare l’annuncio funebre a quelle povere persone. Si recò allora dal parroco e insieme a lui tornò alla casa dei genitori.

Il padre di Maria le raggiunse nel pomeriggio e insieme a lui sistemarono il cadavere in una rozza bara di legno e posero il feretro su un calessino tirato da un mulo. Iniziarono così il loro triste viaggio verso il paese della ragazza. Le strade allora non erano facilmente agibili e inoltre il mulo procedeva lentamente. Il paese era ancora distante quando il buio delle sera li colse. Si fermarono a passare la notte in una pensione, i vivi nelle camere e Maria sul carro, nel cortile della locanda.

Il giorno seguente, mentre stavano per attraversare un ponte, due ragazzi in bicicletta vennero loro incontro. Ricorda che quando furono vicini, si accorse che erano i suoi fratelli. Avevano saputo che era stata uccisa una maestra e avevano temuto che fossi lei. Così, rischiando di essere catturati dai repubblichini, erano partiti per recuperare il cadavere della sorella. Invece la trovarono ancora viva.

Finalmente raggiunsero il paese di Maria e la seppellirono. Lei non fece mai più ritorno nel paese dove la sua compagna era stata uccisa.. Ricorda che rimase per sei mesi a letto nella casa dei genitori, al buio, con gli scuri abbassati. Arrivò la Liberazione e la trovò abbandonata in una profonda depressione. Poi lentamente riprese a muoversi, ad uscire e infine anche a lavorare.

L’ondata dei ricordi l’ha stancata. Abbassa di nuovo le palpebre e si appisola ancora. Alcuni colpi sparati in strada la fanno svegliare improvvisamente. E’ consapevole che oggi è martedì grasso, ma, con il cuore allarmato, per un istante si chiede se i rumori sono petardi lanciati da ragazzetti o gli spari di tanti anni fa.