Davide Pagnotta

Nato a Genova il 4 Marzo 1978.

L’inverno e il ballerino

Il compact disk girava vorticosamente all’interno del suo lettore, proprio come i pensieri facevano all’interno della mia testa. La musica era solamente un pretesto per sentirmi vivo all’interno di quell’inverno maestosamente spietato, che non sembrava essere ancora intenzionato ad abbandonare le sue posizioni di guerra, dalle quali bombardava di neve la natura sottostante.

Il vento sembrava essere sospinto nella sua azione di pressione sulla finestra, da un odio mortale nei confronti del tepore casalingo dietro il quale mi riparavo, e della coperta di pensieri che avevo costruito ed intrecciato in tutta fretta, per isolarmi con me stesso, una volta avvoltomici all’interno.

Ululava tutto quanto il suo disprezzo e il suo rancore, quel polmone sconfinato, sbattendo forte i pugni e la testa contro il vetro della finestra dietro la quale lo vedevo agire, mentre la droga dei miei pensieri cominciava a fare effetto.

Di fronte a quel brutale tentativo di violazione di domicilio, avevo per l’ennesima volta dato via libera alla mia personalità d’aspirante scrittore di venire fuori, e di imbrattare qualche carta che non avrebbe avuto altra funzione se non quella di essere divorata dalla polvere ed ingiallire.

Le pareti della stanza erano divenute, grazie alla mia folle fantasia, immensi video di computers nel quale il cursore lampeggiava la propria richiesta di parole, apparendo e scomparendo nel muro come la breccia di un mondo fantastico ma impossibile da raggiungere.

Provai ad avvicinarmi a quell’ingresso sfuggente, ma noi fui capace di attraversarlo prima che svanisse nel nulla per poi ricomparire, quasi come se desideroso di burlarsi del mio tentativo andato a vuoto. Non ebbi il tempo materiale per potermi sconsolare di quel fallimento, con il quale non ero riuscito ad intrufolarmi furtivamente all’interno del mio mondo immaginario di scrittore. Né, quel tiranno divoratore di secondi, mi diede modo di rammaricarmi per non essere riuscito ad afferrare quella possibilità sfuggente, con la quale forse, avrei potuto incontrare di persona tutte quelle strane voci che hanno sempre ronzato all’interno della mia testa, come api ingorde del miele della mia sanità mentale.

Non ebbi il tempo di farlo, perché troppo grande fu lo stupore di scoprire che il pavimento della mia stanza era divenuto in tutta la sua lunghezza ed ampiezza, la tastiera di un computer.

Sotto i miei piedi la lettera "I", sopportava docilmente la pressione del mio peso; forse il tentativo precedente non era poi stato del tutto fallimentare.

Sulle pareti ormai divenuti schermi bramosi di essere ingrigiti di parole, una "I" maiuscola attendeva pazientemente l’arrivo delle sue sorelle, guardandomi negli occhi curiosa di ciò che ero sul punto di scrivere e raccontare. Il cursore che gli stava a fianco continuava a prendersi gioco di me, andando e venendo come la piccola lingua di un bambino che fa le boccacce.

Quella dimensione irreale aveva reso ancor più aggressiva la pretesa di ingresso del vento, che sputando i propri più pesanti respiri sentiva nascere forte dentro di se la voglia di schiaffeggiarmi e svegliarmi da quel sogno privo di sonno. Da quelle vita priva di vita, da quel torpore privo di ore.

Fermo immobile, sopra la piccola piattaforma del tasto che tenevo pressato con il peso del mio corpo, mi resi conto di non essere mai stato così terrorizzato del vento e dell’inverno.

Una paura che divenne quasi folle nel momento immediatamente successivo, nel quale tutto si fece silenzio e il cursore lampeggiante scomparve abbandonando la "I" sola in mezzo al vuoto dello schermo. Sola di fronte alla paura di essere cancellata dal vento. Un rumore inaspettato mi fece trasalire a causa della sua improvvisa venuta, ma non era che l’affaticato salvataggio di dati su di un flop disk che quella stanza divenuta computer stava effettuando.

Aveva registrato la mia paura. N’aveva annusato la dolce e insistente fragranza, inebriandosene i polmoni, quel Regista divino che aveva creato tutta quella dimensione fantastica e misteriosa… per me.

Dal cursore mobile, con aggraziata agilità, un uomo vestito con una calzamaglia nera fuoriuscì danzando abilmente sopra i tasti che avevano preso il posto del pavimento. Si muoveva con una leggiadria così soave da far sembrare pesante l’aria circostante, da far sembrare quest’ultima così fitta e solida, tanto da potervisi arrampicare sopra.

Mi feci da parte concedendo al suo estro ballerino tutto quanto lo spazio che meritava, e concentrando tutta quanta la mia attenzione nei confronti delle pareti schermi nella quale la danza propiziatoria di quell’uomo aveva provocato una fitta pioggia di parole.

"Come sa essere gelido il vento, quando nascosto dietro alla sua brezza, racconta le sue atroci verità.

I fremiti ti scuotono il corpo e lo fa tremare; ma non è freddo, è paura.

Paura della meccanica e scattante follia con cui disordinate schiere di robot, che si fanno chiamare uomini, portano avanti il loro folle dovere di auto distruzione. Paura di libri di storia rimasti aperti sempre sulle stesse sanguinose pagine, che seguiamo fedelmente come sceneggiature da riprodurre nei teatri e negli attimi nel quale ci portano i nostri passi ormai stanchi.

Paura di un rumore lontano, persosi fra gli echi dello stesso passato che avevamo ingoiato in tutta fretta, accompagnato da un bel bicchiere di acqua, come si farebbe con la più amara delle medicine, ma che ora rievochiamo come adepti di una setta infernale

Il vento ti prende le ossa infiltrandosi nella carne che non può più opporre alcuna resistenza, e le indebolisce e le sgretola lentamente infondendo il terrore di vivere, perché l’inverno ha voluto così. Perché l’inverno ha impartito precisi ordini da dietro la sua bianca divisa da generale.

Ma l’inverno è un assassino che ci tiriamo addosso noi stessi, assaporandone sulla nostra pelle il dolce gusto del suicidio"

La danza di quel ballerino continuava tanto leggiadra nello sfiorare delicatamente i tasti sul pavimento, quanto frenetica nel suo catapultare tutte quante quelle lettere e quei concetti che oltre che ingrigire impietosamente le pareti, bombardavano di tremiti e di paura il mio cervello rovente.

Avrei potuto dire la danza, di quell’uomo, ma non mi sento di farlo. Non sembrava propriamente umano, e non solo perché appartenente a quella dimensione fantastica e surreale che si era venuta a creare nella mia stanza. Egli aveva nelle sue movenze un non so che di leggiadro, liberatorio. Pareva potesse spiccare il balzo da un momento all’altro, aggrappandosi a quell’aria che sapeva domare, e con la quale sembrava giocare come fosse una sorella, con la quale avrebbe potuto volare via lontano.

Si era presentato ai miei occhi stupiti sotto le sembianze di un semplice uomo in calzamaglia, ma, all’interno della sua anima, la mia immaginazione doveva aver riservato un qualcosa di ben più grande ed elaborato da insediare. In quell’uomo non sembrava poter scorrere una cosa come il sangue, troppo pesante e rosso come un invito a fermarsi. No, e poi forse, nemmeno il cuore avrebbe potuto ostacolare con tutto il suo peso quella sua propensione alla leggiadria; non lo aveva probabilmente, o se proprio avesse dovuto averne uno, doveva avercene uno piccolo piccolo, leggero e compatto nelle sue funzioni vitali.

Mi accorsi improvvisamente di provare ribrezzo nei confronti di quell’essere. Quello che si era presentato inizialmente come una magnifica bellezza, era quindi divenuto il fastidio di un orrore devastante.

Danzava agile vicino a me, da dietro quella sua sospetta corporatura inumana, ed io ne schivavo ogni mossa con disgusto, come si fa con un insetto che pavoneggia la propria bellezza e pungente pericolosità.

Una mosca. Ecco che cosa mi sembrava da dietro la sua calzamaglia nera e la sua voglia di volare. Una fastidiosa mosca, ronzante ed assordante nel suo battere quelle alettine avide di aria.

Capii solo più tardi del perché quella dimensione che inizialmente mi era sembrata così limpida e lucente di tutta la sua bellezza, era divenuta una scatola chiusa all’interno del quale mancava l’aria. Una camera nella quale mi sentivo oppresso e stanco, e dalla quale avrei voluto assolutamente sfuggire se solo avessi potuto. Una camera nella quale mi sentivo come sepolto, ma senza pace, con quel fastidioso insetto, fanatico e ronzante, che infuriava tempesta, con il suo ballare e scrivere all’interno dei miei pensieri. Lo capii giusto in tempo per spaventarmene; capii il perché quella dimensione mi fosse divenuta un oscuro peso insopportabile, che opprimeva il mio sistema nervoso come un asma, sebbene prima mi avesse estasiato. E il perché come un esile fiume sfociava dolcemente nella consapevolezza della risposta: quello che avevo letto aveva alterato il mio umore.

La mia voglia di giocare con l’immaginazione e di creare per puro divertimento, aveva trovato nelle parole espresse sulle pareti, mura invalicabili. Quello che avevo letto mi aveva fatto pensare, e quando si pensa è come fare un safari. Più vai a fondo nei segreti della tua testa, come fra le fratte più oscure del bosco, maggiori sono le possibilità che salti fuori un leone e ti sequestri per un po’, assaggiandoti delicatamente e riserbando per te il piacere di assaporare l’idea della morte.

Quelle parole, che ancora si susseguiva nelle pareti come bambini di asilo che si tengono per mano all’uscita di scuola, rispettando la fila imposta dalla maestra, viaggiavano veloci come treni. Mi osservavano e aspettavano, impazienti di essere lette e possedute dai miei occhi, come donne seducenti vestite di eleganti abiti scuri come l’inchiostro.

"L’inverno ci guarda dall’alto, nascosto fra le nuvole che sbatte e ribatte fra le sue mani di vento. Ci osserva immerso fra le sue tempeste in procinto di piombare sulle nostre coscienze disarmate e banali nel loro proseguire ognuna il proprio ruolo nel funzionamento di quella terribile macchina che è l’umanità.

Ci guarda dall’alto il bianco ed anziano padre della neve, e da quella prospettiva non siamo altro che lubrificati meccanismi dalla folle precisione.

Meccanismi di un enorme polmone meccanico di male e paure che teniamo in vita donando ognuno una parte dei propri aliti, una parte delle nostre anime maggiormente corrose dalla malvagità.

Respira grazie a noi, ci uccide lentamente grazie a noi. Noi insensibili automi in procinto di tuffarci nel vuoto dell’auto distruzione, con la stessa noncuranza con cui moltiplichiamo i nostri codici genetici, compriamo e vendiamo le nostre stesse vite o maneggiamo il fuoco di giocattoli troppo pericolosi per stare nelle mani di avidi bambini mai cresciuti.

L’inverno lo vede e continua a ridere forte e violento, il proprio ululante disprezzo, nel vento ambasciatore."

Vicino all’ultima lettera che i miei occhi avevano spedito al cervello dentro ad amare buste di paure e tensioni, lampeggiò il cursore. Lampeggiò solamente un paio di volte, aprendosi e chiudendosi come un incerta breccia sul muro, prima di accogliere al suo interno il balzo del ballerino soddisfatto della sua prestazione, e chiudersi per sempre.

La mia follia era svanita. La tastiera era ritornata ad essere pavimento, gli schermi che avevano dichiarato guerra e bombardato senza pietà il mio cervello, erano ritornati ad essere pareti ingiallite dall’umidità e dal fumo di sogni faticosamente sospirati e quindi immediatamente celati.

Tutto era svanito e morto immediatamente come il soffio che uccide la candela. Tutto era fermo immobile adesso. Niente viveva più, se non il crescere ed il contorcersi di un nuovo cancro di consapevolezza che si era insidiato all’interno della mia testa.

Un cancro dovuto al fumo? Può darsi, ed io insieme a tutti i miei compagni non avrei smesso di fumare.