Pietro Giliberti

sono nato nel 1961. Amo molto la letteratura contemporanea. Ho un a passione per Ian McEwan, Philip Roth, Josè Saramago. Scrivo da molti anni, in prevalenza racconti. Sposato, ho due bambine, sono laureato in Scienze Politiche e mi occupo di comunicazione online per un'azienda di telecomunicazioni.

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Era bello chiamarsi compagni?

"A chi fascist'? A chi?" urlava dal palco, con voce isterica, la storica consigliera regionale del PCI.
E poi scendeva per affrontare a muso duro i contestatori.
"A mem', fasc'st'! Con la mia storia! A chi fascist'?".
A pensarci col senno di poi, forse non era l'occasione più opportuna per quella gazzarra libertaria. Ma tutti i gruppi extraparlamentari erano stati tenuti fuori dalle celebrazioni per il ritrovamento del corpo di Moro, non dico uno di Democrazia Proletaria, ma neanche a uno dei dieci radicali locali era stato permesso di salire sul palco con i rappresentati dell'arco costituzionale.
"Moro è qui con tutta la DC!" urlavano i numerosi elettori democristiani accalcati nella piazza.
Ma intanto i gruppuscoli dei malvestiti con cura urlavano a distesa il loro "fascisti, fascisti".
Erano come sempre disorganizzati e disorganici. Peraltro, a parte i democristiani che godevano di percentuali elettorali bulgare e di una gestione delle tessere puntigliosa e litigiosa, anche gli altri partiti lasciavano molto a desiderare in fatto di organizzazione. Persino il PCI, che pure contava su uno storico seggio senatoriale, non riusciva a tenere testa al dominio del biancofiore. Figurarsi gli altri: i socialisti pre-craxiani erano una rarità; i liberali avevano un unico consigliere che era probabilmente anche l'unico iscritto locale del partito; i socialdemocratici poi, giusto se azzeccavano il candidato con un minimo di seguito personale o professionale riuscivano a essere rappresentati. C'era sì il MSI, ma il grosso della truppa dei nostalgici era confluito più proficuamente nella DC e il presidio di qualche rottame consentiva al più che la sezione locale non chiudesse.
Tutta questa truppa era sul palco, mentre gli altri, elettori e voci fuori dal coro, in basso a calpestare le pietre grigie del grande marciapiede posto al centro della piazza. Un calpestio d'abitudine, quasi quotidiano. Dopo la scuola, il primo luogo di sosta era "dietro la villa", un'entrata a lungo considerata secondaria dei giardini pubblici. Si affacciava su una strada stretta, dove le auto transitavano con difficoltà nonostante il senso unico. C'era chi si fermava per pochi minuti, nel doveroso rito quotidiano, ma era poi tenuto a correre a casa per il pranzo. Taluni potevano contare su genitori che lavoravano fino alle 2 e quindi si attardavano, magari facendo un salto al bar per un panzerotto fritto con pomodoro e mozzarella filante, oppure attraversando fino alla noia la villa da un'entrata all'altra. Era qui, nella villa, che avevano luogo gli incontri più importanti. Chi poteva, invidiatissimo, si appartava con una ragazza sulle panchine laterali, anche se non sufficientemente nascoste alla vista dalla rada vegetazione delle aiuole. Altri discorrevano di politica, dividendo il giornale, Paese Sera, acquistato in società per risparmiare. Si sfruttava il tempo leggendo le pagine che poi si sarebbero cedute al socio, in cambio di quelle non ancora lette. E naturalmente c'era tutto lo spazio per il cazzeggio libero, le ironiche considerazioni sulle donzelle che, con passo svelto, rientravano a casa dal lavoro, parrucchiere, operaie delle confezioni.
Naturalmente, quando il tempo lo permetteva, ma spesso anche nell'inclemenza dell'inverno, di sera ci si trovava ancora lì, dietro la villa, formando gruppuscoli sempre variabili, aspettando il passaggio di qualche ammirata ragazza, schernendo il fighetto americanissimo, capace di presentarsi con l'allora raro cappellino da baseball quando non addirittura con il guanto e la palla. Si salutavano gli zii che rapidamente si recavano al vicino Circolo dei Forestieri per una partita a carte o a biliardo.
Appoggiati al muretto, con le gelide inferriate a segnare le schiene, si facevano improbabili programmi futuri per quel mai così remoto che neanche si riusciva a immaginare, distanti da qualsiasi profezia. In tutti una sola certezza: bisognava andare via da lì, fuggire al più presto dal paese, dalla villa, dalle poche ragazze decenti. L'esempio degli amici più grandi, degli universitari, non aiutava però a sognare. Quasi tutti tornavano, si sposavano, lavoravano, cambiavano prospettive esistenziali e ideali, finti nomadi rapiti dalla stanzialità e dalla malia di quella città bianca. Del resto, la maggior parte dei ragazzi erano del tutto disinteressati alle vicende politiche e sociali. Avrebbero conservato quell'atteggiamento superficiale e distratto per tutta la vita, anche in relazione alla propria esistenza, evitando per quanto possibile di lavorare, facendosi mantenere da suoceri arrivisti, e proprio in virtù di tali meriti la città li avrebbe premiati con seggi da consiglieri comunali, regionali, quando non con elezioni a sindaco o a senatore della Repubblica.
A sera inoltrata, il guardiano, con la mano paralizzata protetta da un guanto grigio, veniva a chiudere i cancelli della villa, e i reduci si trasferivano in piazza, sullo stradone, scacciando i vecchi e i notabili, occupando lo spazio per uno struscio generazionalmente più vivace.
Raramente si superava l'arco che conduceva nella piazza del municipio e da lì nella città vecchia. Solo quando l'appuntamento era alla sezione del Partito Radicale o al "locale" ci si infilava nel corso o si facevano tortuose deviazioni per le stradine del centro storico.
La sezione del partito era sotto gli archi, nella piazzetta della cattedrale. Dei dieci iscritti non ce n'erano contemporaneamente mai più di 3 o 4. Franco, il segretario era lì, sempre presente la sera, impegnato a organizzare le prossime raccolte di firme referendarie, ordinando i pochi volantini pervenuti da Roma o ciclostilandone di propri. Lasciava da qualche parte, sull'extramurale, la Bianchina verde alimentata a benzina agricola e presidiava. La sezione era un buon punto di osservazione. Dalla piazzetta nasceva la breve strada in discesa che conduceva alla casa signorile del nonno di Giovanna. Per incrociarla, Marco faceva le più complesse evoluzioni, arrivando persino a rinunciare talvolta all'incontro preprandiale con gli amici dietro la villa, al solo fine di appostarsi dalle parti della sezione, sperando di vederla arrivare da sola, senza il ragazzo - fascista per giunta.
Per raggiungere il locale, invece, bisognava penetrare ancora più a fondo nella città vecchia. Quella passeggiata, un sogno da flaneur, tra slarghi e scale, palazzotti del barocchetto locale, cortili introdotti da archi di grossi mazzacani grezzi e squadrati valeva il prezzo. Il prezzo della noia che inevitabilmente prendeva dopo poche decine di minuti nelle atmosfere male illuminate e fredde di quei seminterrati umidi e disadorni, che parevano scavati nella pietra.
C'erano i musicisti, innanzitutto. Perché in fondo la politica era un lamento e la gioia ogni rielaborazione delle canzoni popolari locali riprodotte con l'immancabile concerto di tamburelli attorno a un paio di chitarre.
"U' sunn, u' sunn, u' sunn… u' sunn, u' sunnaridd', u' lop s'ha mangiet u' p'curidd"
Qualcuno poi avrebbe approfondito fino allo studio queste prime assunzioni ideologiche. Altri sarebbero rimasti stonati.
Seguivano quindi i politici. Il nucleo era formato dagli impegnati cronici, quelli che partecipavano a tutti gli scioperi, scrivevano i bollettini, li ciclostilavano, li distribuivano davanti alle scuole. Si vestivano tutti con sciatteria, i ragazzi con i capelli lunghi le ragazze con i capelli corti. Maglioni sformati, jeans e giacconi, qualche eskimo ritardatario, lascito di fratelli maggiori già integrati nella borghesia locale. Talvolta appariva un guru nuovo, venuto da fuori. C'era un tale Francesco di Roma, bello come un attore e dichiaratamente bisex: mai il locale fu meta di ragazze pronte a sposare ideologie per loro aliene come nel non lungo periodo della sua permanenza.
C'erano parole d'ordine, certamente. Ma sopratutto il bisogno di non soffocare in quell'ambiente conformista e cloroformizzato che era la vita cittadina, con i suoi ritmi immutabili, le gerarchie indiscusse, i potentati ereditari.
Tutti provenivano in qualche modo dall'azione cattolica. Gli spazi di confronto e di cultura, i cineforum e le discussioni erano nati quasi tutti là, nelle salette ai piani superiori del convento, guidati da un sacerdote illuminato. Si usciva da quel luogo, magari fidanzati, si abbandonavano le seggiole del catechismo e si scendeva per strada chi per confondersi con la massa chi per distinguersi, almeno per qualche anno felice.
Altri locali, piccoli garage, nascevano per incontri certo politicamente disimpegnati, ma non meno proficui in quanto a relazioni, soprattutto fra sessi diversi. La musica era sempre un buon traino. Le prime radio locali emulavano, anche nei nomi, quelle lombarde ed emiliane. Le discussioni tra personale e politico, il "dibattito" occupavano però molto raramente lo spazio della musica e soprattutto della pubblicità. Chi investiva nella radio privata - e qualche anno dopo nella Tv locale - preparava inconsapevolmente il suo futuro da imprenditore nel settore pubblicitario.
Marco poteva contare anche su un suo personale luogo di aggregazione, uno studiolo posto mezzo piano sotto l'appartamento dei suoi genitori. C'erano una scrivania anni Cinquanta di legno, formica e pelle, una piccola libreria con una vetrinetta, nella quale erano conservati i libri scolastici di tutta la famiglia, un'altra libreria a muro piena zeppa di edizioni economiche e dei testi più torbidi della biblioteca paterna e raccolte rilegate di Tempo Illustrato accatastate in un angolo. Da una finestrella orizzontale ci si poteva affacciare sul terrazzo della palazzina adiacente e con qualche fortuna ammirare le belle gambe di una vicina che andava a stendere i panni. Era in questo ambiente che tutti i pomeriggi Marco leggeva, suonava la chitarra, studiava, scriveva sulla vecchia Lettera 22 di suo padre, incontrava gli amici e qualche volta, raramente, ospitava come in un evento storico, un estraneo con qualche qualità. Fu nello studio che un pomeriggio fece capolino il poeta Dario Bellezza che era in città per ritirare un premio di poesia. Si erano conosciuti durante un incontro a scuola quella mattina e poi rivisti dietro la villa. Il poeta era accompagnato da un ragazzo. Qualche anno dopo, ai tempi dell'università, Marco lo avrebbe nuovamente incontrato, in compagnia di un altro uomo, nella metropolitana di Napoli e Dario Bellezza si sarebbe ricordato di quel pomeriggio nel quale, con Maurizio e Peppone, avevano parlato di politica - e di cos'altro? - nello studio.
In un diverso ambiente, un ex-negozio o magazzino al piano terra di un piccolo edificio del centro storico, una ragazza, la donna del suo migliore amico, avrebbe tirato a Marco uno scherzo barbino, invitandolo a entrare, abbassando la saracinesca, simulando di volerlo iniziare alle gioie dell'amore fisico. E solo per timidezza, solo per l'incredulità che potesse capitare proprio a lui, Marco non ci sarebbe cascato. All'arrivo vociante dei suoi amici lo avrebbero trovato seduto, imbarazzato, ma vestito e con accanto la ragazza che allargava le braccia sconsolata: "parlava di politica!"
Quando non c'era da portare per strada cavalletti e tavolacci di legno per raccogliere le firme dei referendum radicali, nella sezione del partito si finiva per discutere. Marco era considerato troppo filo-PCI. Intratteneva cordiali relazioni con il suo professore di filosofia e non disdegnava di andarlo a salutare all'ARCI, sfogliando giornali fra cataste di manifesti arrotolati. Si difendeva sostenendo che i compagni comunisti non erano tutti come li si dipingeva, arcaici, bigotti, operaisti ad oltranza. Aveva avuto modo di appurare quanto breve fosse la distanza sui diritti civili, sulle tematiche ambientali. Tranne qualche vecchia cariatide, non c'era più nessuno che si dichiarasse omofobo: le belle barbe dei giovani intellettuali erano già oltre lo strappo da Mosca, erano figli del Manifesto, tolleravano con qualche divertimento persino i lazzi degli indiani metropolitani di cui giungeva eco ai confini dell'impero, "Andreotto fai fagotto", "Il papa fuma e vede la Madonna", almeno finché non si toccava l'icona di Berlinguer.
Di lì a qualche anno il partito radicale avrebbe perduto tutte le sue peculiarità, i temi forti dell'ambiente e dei diritti civili sarebbero diventati patrimonio comune di tutta la sinistra. Marco avrebbe abbandonato Pannella e la Bonino che, per sopravvivere, per distinguersi, per smarcarsi, si sarebbero scoperti iperliberisti, filoamericani, persino a favore degli interventi bellici. È il destino dei movimenti che nascono fortemente motivati da una ispirazione nuova e poco condivisa. Le battaglie radicali avevano all'inizio una sponda solo tra i socialisti ed alcune forze extraparlamentari. Sarebbe accaduto la stessa cosa per i Verdi con l'ambiente e per la Lega con il federalismo. Finché nessuno ne parla, finché il movimento è portatore unico, isolato, spesso discriminato di un tema nuovo e potente ha una forza propulsiva che gli consente di penetrare, sia pure con un duro impegno e grandi sacrifici, fra sconfitte e timide vittorie, nell'agone politico. Ma quando vince, quando riesce ad affermare i suoi valori fino a farli diventare valori fondanti di grandi gruppi di opinione, di forze politiche strutturate, il movimento perde la sua ragion d'essere. Ed è uno sforzo patetico quello della ricerca di nuove idee, di originali visioni del mondo: un'operazione contronatura, lontana dal proprio DNA. Questa manipolazione genetica non riesce mai e il destino di queste forze è la consunzione.
Marco c'era e suo malgrado faceva parte di una generazione di post e di pre. Poteva sforzarsi di leggere Marcuse, ma il dado era tratto e il Rubicone lo avevano passato altri, quando era ancora troppo piccolo per rendersene conto. Neanche la liberazione sessuale sarebbe mai giunta a lambire quelle colline, anche se nelle pieghe dell'ipocrita sessuofobia, avrebbero sguazzato le malelingue con tutti i gossip reali e inventati della cornuteria locale.
In quel luogo lontano dal cuore, terrorismo e antiterrorismo sarebbero stati poi simili a un film e persino una voce su un palco, una voce che non avrebbe saputo cosa affermare di diverso dalle voci degli altri, era debole quanto quello stridente silenzio.
E infine, ragazzi troppo vecchi sarebbero stati per le pantere delle timide rivolte scolastiche degli anni del poterismo assurto a religione dei tanti aspiranti yuppies.
Quali parole avrebbe potuto pronunciare Francesco il bel romano o il segretario del partito se i "fascisti" gli avessero concesso l'onore della tribuna? Avrebbe avuto il coraggio di affermare che aveva sentito con le sue orecchie dei consiglieri comunali da un lato proporre la pena di morte per i terroristi e dall'altra lagnarsi che fosse stato colpito soltanto Moro perché avrebbero dovuto mettere una bomba in Parlamento e farli saltare tutti?
Eccola allora, quella incazzata dozzina di disomogenei, ognuno con il suo bisogno di esserci, ma solo con le sue idee, ancora confuse, stretto agli altri unicamente dalla forza della discriminazione. Eccoli, Marco e gli altri, sotto il palco di legno, nel bel mezzo dello stradone, con la luce primaverile che illuminava la statua del santo sull'arco, in attesa che la piazza venisse liberata per ricominciare lo struscio.

 

FOTOGRAFIE

guarda, ho ritrovato le foto del viaggio in California che non hai mai voluto mettere nell’album, questa dov’era, no, ti ricordi, a Carson City a casa di quella coppia che avevamo conosciuto nello shop di Yosemite Park, la felpa di cosa indossi qui, dell’Università della Carolina, chissà che fine ha fatto, guarda c’era quel quadro finto egiziano che poi abbiamo detto sai come starebbe bene a casa nostra, le risate, per questo forse scattammo la foto, che bel taglio di capelli che avevi, quella sera ero geloso di lui che ti guardava, dai, non te lo ricordi, eh, invece lei, orribile, come no, voi donne avete la capacità di trovare difetti in ragazze bellissime e pregi in certi mostri da collezione, aveva un naso che il mio in confronto, poi dopo cena, neanche mi ricordo che mangiammo, andammo al casino, quello l’ho ben presente, cambiai venti dollari e uscimmo con ventuno e ottanta e andammo in quel saloon a bere birra fino alle 4 di notte, almeno io e te perché la coppia tornò a casa prima, come si chiamavano, Peter e Mary, Ann e John, boh, so solo che per andare a cena da loro restammo a Carson City a dormire e non avemmo più il tempo per andare a Reno, e tu lo sai quanto mi secca rinunciare alle cose, e anche il saloon me lo ricordo bene, davano una partita di baseball in TV e oltre al barman c’erano due persone, e ad un tratto ci offrirono da bere, quel tizio ciccione che mi chiese se ero musulmano, e tu dicesti ancora! perché me l’avevano chiesto anche a Los Angeles, quel tipo con il pastrano nero, vicino alla stazione, sembrava un predicatore o un barbone, e il tipo del saloon mica ci credeva che fossi italiano, insisteva, e poi tornammo al casino con lui, ma non giocammo più, bevemmo e basta, che mestiere faceva non lo rammento più, mi pare fosse laureato in psicologia ma faceva l’operaio, era iraniano o iracheno, direi iraniano, e poi ce ne andammo al motel, ma non era come uno di quei motel da film nei quali ci saremmo fermati le notti successive, un hotel normale di quattro o cinque piani, non ci giurerei, eravamo troppo ciucchi, ma forse abbiamo fatto l’amore quella notte, no, forse è stata quella volta che abbiamo dormito vestiti, e il giorno dopo, ti ricordi che bello il lago Tahoe, quella passeggiata mitica che abbiamo fatto nel piccolo parco sulla riva, tra scoiattoloni grossi come rottwailer e gli uccelli di quel blu così intenso che non siamo riusciti a fotografare, ho una visione nitida del lago, nonostante sia passato tanto tempo, sai e tu, ti ricordi il bagagliaio dell’auto, la Toyota che avevamo preso a noleggio a LA, pieno di cartine, vestiti, regali, tutto sparpagliato, come ci ritrovavamo in quel disordine, magliette e felpe che cambiavamo in continuazione, ogni volta ti guardavo il seno e sorridevi lusingata, pronta sempre a provocarmi, e guarda questa foto, qui eravamo in una camera del motel di San Francisco, in Lombard street, ah già, prima eravamo stati a Sacramento, si, ti ricordi la cameriera carina del ristorante che mi ha lasciato il suo numero sulla ricevuta della carta di credito, non sapevi se prendermi in giro o arrabbiarti con me, come non era carina, era molto carina, e poi a San Francisco quando volevamo fare le foto in posa osè, anche a me ne hai fatte un paio, chissà dove la abbiamo buttate, spero siano state bruciate insieme ai negativi, soprattutto quella con il pezzo di sopra del tuo costume da bagno, dio che vergogna rivederla, ma allora ci facemmo un sacco di risate, e questa foto qui, lo sai che è una delle mie preferite, uscivi dal bagno e ti sei tirata su la minigonna, non l’abbiamo messa nell’album perché ti vergognavi a farla vedere, ma a me piace da morire, questo è un gesto tuo, così dolce e sexy, così provocante e ingenuo, sei proprio tu, intrigante, complice, a te invece non piaceva perché sotto la gonna, le belle gambe magre e i ginocchi aguzzi, avevi i calzini, adesso non dirmi che quella volta non abbiamo fatto l’amore, forse avevo ancora indosso il tuo bikini quando abbiamo cominciato, si deve essere stato quella volta che volevi fare l’uomo, ma è durata 3 secondi, per fortuna, poi abbiamo litigato, ricordi, perché ci siamo messi a commentare quello che l’indovina armena mi aveva detto leggendomi la mano sul molo di San Francisco, quella storia del nemico che avevo, un uomo che mi voleva del male e io quella sera, un po’ per scherzo, ti ho fatto il suo nome e tu sei diventata insopportabilmente aggressiva, cosa c’entra lui, perché proprio lui, gridavi, ci abbiamo messo tutta la notte per fare pace, forse avrei dovuto prestare più attenzione alle parole dell’indovina e al mio istinto, e queste altre tre foto le abbiamo scattate al motel di Santa Maria, sulla costa, mentre tornavamo a LA, qui sei bella da morire, sul letto, neghittosa e imbronciata come non mai, eri seccata da tutti i problemi che avevamo avuto quel giorno, però non era andato storto fin dal mattino, anzi, era una giornata bellissima quando partimmo da San Francisco e ci innamorammo del quartiere Castro, ci sarebbe piaciuto vivere là, dicevamo, tra artisti, froci e puttane, e poi la strada lungo la costa, eravamo così innamorati che ci sembrava una favola o era davvero uno spettacolo da togliere il fiato, e ti ricordi quel tipo che faceva l’autostop, mentre aspettavamo che raggiungesse l’auto dicesti sembra un paranoico, aveva i capelli grigiastri e lunghi ed una cassetta di birre in mano, era nato in Inghilterra, e disse di aver vissuto a Buckingham Palace perché era figlio di uno stalliere della regina, ci raccontò che era in California da vent’anni e faceva l’imbianchino e il meccanico, due giorni alla settimana l’imbianchino e tre il meccanico o viceversa perché un solo lavoro lo avrebbe annoiato, e ci offrì una birra e in cambio gli passammo una Camel, all’epoca fumavamo ancora tutti e due, non gli piaceva San Francisco perché gli ricordava Londra e che ci salutò guardando un tramonto spettacolare tra le rocce e il mare dicendo sono vent’anni che tutti i giorni passo di qua e non sono ancora stanco, poi cominciò a fare buio, e a piovere, una tormenta, i vetri appannati, la visibilità al minimo tu che volevi fermarti io che volevo arrivare il più vicino possibile a La per non perdere l’aereo, il giorno dopo, a San Luis Obispo abbiamo dovuto fermare l’auto perché non si riusciva a fare un metro e come diavolo si chiamava quel posto piccolo, che sembrava un villaggio dei film western dove prima ci hanno fatto entrare nel ristorante e sedere e ordinare e poi ci hanno detto che era troppo tardi per mangiare, alle 9 di sera, tu eri pronta a fare la guerra, a tirare fuori una mitraglietta e trucidare tutti i presenti, ti ho quasi trascinata fuori e ci siamo inzuppati di acqua nel breve tratto tra la porta del ristorante e l’auto, non hai voluto che ti coprissi con il k-way, avevi i capelli appiccicati alla fronte e l’acqua sulle guance, sembrava avessi pianto, e quando provai a metterla in moto la macchina non partiva, mi sentivo come i personaggi sfigati dei cartoni animati, aspettavo che da un momento all’altro passasse un figo su una bellissima auto e ti portasse via, invece non so come trovai la fottuta calotta dello spinterogeno e non so cosa diavolo toccai, ma il motore si accese e tu mi abbracciasti forte come fossi un eroe da romanzo di appendice, e come al solito, tra la gioia e l’imbarazzo ti prendevo in giro, si, l’uomo della tua vita, un meccanico, in sostanza, di cos’altro ha bisogno una donna, e poi facemmo una disperata ricerca di un motel libero e alla fine trovammo questo di Santa Maria, un motel proprio come ce l’eravamo immaginato, il grande parcheggio davanti ai mini appartamenti, l’anonimato più assoluto, te la ricordi quella tv che si vede dietro al letto, no, non era un forno a micronde, c’era un telefilm su un legale dei marines o qualcosa del genere, abbiamo fatto una doccia insieme e poi queste foto, hai voluto mettere il due pezzi, nuda era troppo, ma sebbene il tuo corpo sia bellissimo, è il tuo viso che mi colpisce, guarda questa qui in piedi davanti alla tenda, non avevi voglia di farla, questa anche puoi prenderla, ma queste due, queste due in cui mi guardi così, come forse non mi hai più guardato da allora, ti prego di lasciarle a me.