| Pietro Giliberti sono
      nato nel 1961. Amo molto la letteratura contemporanea. Ho un a passione
      per Ian McEwan, Philip Roth, Josè Saramago. Scrivo da molti anni, in
      prevalenza racconti. Sposato, ho due bambine, sono laureato in Scienze
      Politiche e mi occupo di comunicazione online per un'azienda di
      telecomunicazioni. www.pietrogiliberti.it  | 
    Era
      bello chiamarsi compagni?
       "A chi fascist'? A chi?" urlava
      dal palco, con voce isterica, la storica consigliera regionale del PCI. 
      E poi scendeva per affrontare a muso duro i contestatori. 
      "A mem', fasc'st'! Con la mia storia! A chi fascist'?". 
      A pensarci col senno di poi, forse non era l'occasione più opportuna per
      quella gazzarra libertaria. Ma tutti i gruppi extraparlamentari erano
      stati tenuti fuori dalle celebrazioni per il ritrovamento del corpo di
      Moro, non dico uno di Democrazia Proletaria, ma neanche a uno dei dieci
      radicali locali era stato permesso di salire sul palco con i rappresentati
      dell'arco costituzionale. 
      "Moro è qui con tutta la DC!" urlavano i numerosi elettori
      democristiani accalcati nella piazza. 
      Ma intanto i gruppuscoli dei malvestiti con cura urlavano a distesa il
      loro "fascisti, fascisti". 
      Erano come sempre disorganizzati e disorganici. Peraltro, a parte i
      democristiani che godevano di percentuali elettorali bulgare e di una
      gestione delle tessere puntigliosa e litigiosa, anche gli altri partiti
      lasciavano molto a desiderare in fatto di organizzazione. Persino il PCI,
      che pure contava su uno storico seggio senatoriale, non riusciva a tenere
      testa al dominio del biancofiore. Figurarsi gli altri: i socialisti
      pre-craxiani erano una rarità; i liberali avevano un unico consigliere
      che era probabilmente anche l'unico iscritto locale del partito; i
      socialdemocratici poi, giusto se azzeccavano il candidato con un minimo di
      seguito personale o professionale riuscivano a essere rappresentati. C'era
      sì il MSI, ma il grosso della truppa dei nostalgici era confluito più
      proficuamente nella DC e il presidio di qualche rottame consentiva al più
      che la sezione locale non chiudesse. 
      Tutta questa truppa era sul palco, mentre gli altri, elettori e voci fuori
      dal coro, in basso a calpestare le pietre grigie del grande marciapiede
      posto al centro della piazza. Un calpestio d'abitudine, quasi quotidiano.
      Dopo la scuola, il primo luogo di sosta era "dietro la villa",
      un'entrata a lungo considerata secondaria dei giardini pubblici. Si
      affacciava su una strada stretta, dove le auto transitavano con
      difficoltà nonostante il senso unico. C'era chi si fermava per pochi
      minuti, nel doveroso rito quotidiano, ma era poi tenuto a correre a casa
      per il pranzo. Taluni potevano contare su genitori che lavoravano fino
      alle 2 e quindi si attardavano, magari facendo un salto al bar per un
      panzerotto fritto con pomodoro e mozzarella filante, oppure attraversando
      fino alla noia la villa da un'entrata all'altra. Era qui, nella villa, che
      avevano luogo gli incontri più importanti. Chi poteva, invidiatissimo, si
      appartava con una ragazza sulle panchine laterali, anche se non
      sufficientemente nascoste alla vista dalla rada vegetazione delle aiuole.
      Altri discorrevano di politica, dividendo il giornale, Paese Sera,
      acquistato in società per risparmiare. Si sfruttava il tempo leggendo le
      pagine che poi si sarebbero cedute al socio, in cambio di quelle non
      ancora lette. E naturalmente c'era tutto lo spazio per il cazzeggio
      libero, le ironiche considerazioni sulle donzelle che, con passo svelto,
      rientravano a casa dal lavoro, parrucchiere, operaie delle confezioni. 
      Naturalmente, quando il tempo lo permetteva, ma spesso anche
      nell'inclemenza dell'inverno, di sera ci si trovava ancora lì, dietro la
      villa, formando gruppuscoli sempre variabili, aspettando il passaggio di
      qualche ammirata ragazza, schernendo il fighetto americanissimo, capace di
      presentarsi con l'allora raro cappellino da baseball quando non
      addirittura con il guanto e la palla. Si salutavano gli zii che
      rapidamente si recavano al vicino Circolo dei Forestieri per una partita a
      carte o a biliardo. 
      Appoggiati al muretto, con le gelide inferriate a segnare le schiene, si
      facevano improbabili programmi futuri per quel mai così remoto che
      neanche si riusciva a immaginare, distanti da qualsiasi profezia. In tutti
      una sola certezza: bisognava andare via da lì, fuggire al più presto dal
      paese, dalla villa, dalle poche ragazze decenti. L'esempio degli amici
      più grandi, degli universitari, non aiutava però a sognare. Quasi tutti
      tornavano, si sposavano, lavoravano, cambiavano prospettive esistenziali e
      ideali, finti nomadi rapiti dalla stanzialità e dalla malia di quella
      città bianca. Del resto, la maggior parte dei ragazzi erano del tutto
      disinteressati alle vicende politiche e sociali. Avrebbero conservato
      quell'atteggiamento superficiale e distratto per tutta la vita, anche in
      relazione alla propria esistenza, evitando per quanto possibile di
      lavorare, facendosi mantenere da suoceri arrivisti, e proprio in virtù di
      tali meriti la città li avrebbe premiati con seggi da consiglieri
      comunali, regionali, quando non con elezioni a sindaco o a senatore della
      Repubblica. 
      A sera inoltrata, il guardiano, con la mano paralizzata protetta da un
      guanto grigio, veniva a chiudere i cancelli della villa, e i reduci si
      trasferivano in piazza, sullo stradone, scacciando i vecchi e i notabili,
      occupando lo spazio per uno struscio generazionalmente più vivace. 
      Raramente si superava l'arco che conduceva nella piazza del municipio e da
      lì nella città vecchia. Solo quando l'appuntamento era alla sezione del
      Partito Radicale o al "locale" ci si infilava nel corso o si
      facevano tortuose deviazioni per le stradine del centro storico. 
      La sezione del partito era sotto gli archi, nella piazzetta della
      cattedrale. Dei dieci iscritti non ce n'erano contemporaneamente mai più
      di 3 o 4. Franco, il segretario era lì, sempre presente la sera,
      impegnato a organizzare le prossime raccolte di firme referendarie,
      ordinando i pochi volantini pervenuti da Roma o ciclostilandone di propri.
      Lasciava da qualche parte, sull'extramurale, la Bianchina verde alimentata
      a benzina agricola e presidiava. La sezione era un buon punto di
      osservazione. Dalla piazzetta nasceva la breve strada in discesa che
      conduceva alla casa signorile del nonno di Giovanna. Per incrociarla,
      Marco faceva le più complesse evoluzioni, arrivando persino a rinunciare
      talvolta all'incontro preprandiale con gli amici dietro la villa, al solo
      fine di appostarsi dalle parti della sezione, sperando di vederla arrivare
      da sola, senza il ragazzo - fascista per giunta. 
      Per raggiungere il locale, invece, bisognava penetrare ancora più a fondo
      nella città vecchia. Quella passeggiata, un sogno da flaneur, tra slarghi
      e scale, palazzotti del barocchetto locale, cortili introdotti da archi di
      grossi mazzacani grezzi e squadrati valeva il prezzo. Il prezzo della noia
      che inevitabilmente prendeva dopo poche decine di minuti nelle atmosfere
      male illuminate e fredde di quei seminterrati umidi e disadorni, che
      parevano scavati nella pietra. 
      C'erano i musicisti, innanzitutto. Perché in fondo la politica era un
      lamento e la gioia ogni rielaborazione delle canzoni popolari locali
      riprodotte con l'immancabile concerto di tamburelli attorno a un paio di
      chitarre. 
      "U' sunn, u' sunn, u' sunn… u' sunn, u' sunnaridd', u' lop s'ha
      mangiet u' p'curidd" 
      Qualcuno poi avrebbe approfondito fino allo studio queste prime assunzioni
      ideologiche. Altri sarebbero rimasti stonati. 
      Seguivano quindi i politici. Il nucleo era formato dagli impegnati
      cronici, quelli che partecipavano a tutti gli scioperi, scrivevano i
      bollettini, li ciclostilavano, li distribuivano davanti alle scuole. Si
      vestivano tutti con sciatteria, i ragazzi con i capelli lunghi le ragazze
      con i capelli corti. Maglioni sformati, jeans e giacconi, qualche eskimo
      ritardatario, lascito di fratelli maggiori già integrati nella borghesia
      locale. Talvolta appariva un guru nuovo, venuto da fuori. C'era un tale
      Francesco di Roma, bello come un attore e dichiaratamente bisex: mai il
      locale fu meta di ragazze pronte a sposare ideologie per loro aliene come
      nel non lungo periodo della sua permanenza. 
      C'erano parole d'ordine, certamente. Ma sopratutto il bisogno di non
      soffocare in quell'ambiente conformista e cloroformizzato che era la vita
      cittadina, con i suoi ritmi immutabili, le gerarchie indiscusse, i
      potentati ereditari. 
      Tutti provenivano in qualche modo dall'azione cattolica. Gli spazi di
      confronto e di cultura, i cineforum e le discussioni erano nati quasi
      tutti là, nelle salette ai piani superiori del convento, guidati da un
      sacerdote illuminato. Si usciva da quel luogo, magari fidanzati, si
      abbandonavano le seggiole del catechismo e si scendeva per strada chi per
      confondersi con la massa chi per distinguersi, almeno per qualche anno
      felice. 
      Altri locali, piccoli garage, nascevano per incontri certo politicamente
      disimpegnati, ma non meno proficui in quanto a relazioni, soprattutto fra
      sessi diversi. La musica era sempre un buon traino. Le prime radio locali
      emulavano, anche nei nomi, quelle lombarde ed emiliane. Le discussioni tra
      personale e politico, il "dibattito" occupavano però molto
      raramente lo spazio della musica e soprattutto della pubblicità. Chi
      investiva nella radio privata - e qualche anno dopo nella Tv locale -
      preparava inconsapevolmente il suo futuro da imprenditore nel settore
      pubblicitario. 
      Marco poteva contare anche su un suo personale luogo di aggregazione, uno
      studiolo posto mezzo piano sotto l'appartamento dei suoi genitori. C'erano
      una scrivania anni Cinquanta di legno, formica e pelle, una piccola
      libreria con una vetrinetta, nella quale erano conservati i libri
      scolastici di tutta la famiglia, un'altra libreria a muro piena zeppa di
      edizioni economiche e dei testi più torbidi della biblioteca paterna e
      raccolte rilegate di Tempo Illustrato accatastate in un angolo. Da una
      finestrella orizzontale ci si poteva affacciare sul terrazzo della
      palazzina adiacente e con qualche fortuna ammirare le belle gambe di una
      vicina che andava a stendere i panni. Era in questo ambiente che tutti i
      pomeriggi Marco leggeva, suonava la chitarra, studiava, scriveva sulla
      vecchia Lettera 22 di suo padre, incontrava gli amici e qualche volta,
      raramente, ospitava come in un evento storico, un estraneo con qualche
      qualità. Fu nello studio che un pomeriggio fece capolino il poeta Dario
      Bellezza che era in città per ritirare un premio di poesia. Si erano
      conosciuti durante un incontro a scuola quella mattina e poi rivisti
      dietro la villa. Il poeta era accompagnato da un ragazzo. Qualche anno
      dopo, ai tempi dell'università, Marco lo avrebbe nuovamente incontrato,
      in compagnia di un altro uomo, nella metropolitana di Napoli e Dario
      Bellezza si sarebbe ricordato di quel pomeriggio nel quale, con Maurizio e
      Peppone, avevano parlato di politica - e di cos'altro? - nello studio. 
      In un diverso ambiente, un ex-negozio o magazzino al piano terra di un
      piccolo edificio del centro storico, una ragazza, la donna del suo
      migliore amico, avrebbe tirato a Marco uno scherzo barbino, invitandolo a
      entrare, abbassando la saracinesca, simulando di volerlo iniziare alle
      gioie dell'amore fisico. E solo per timidezza, solo per l'incredulità che
      potesse capitare proprio a lui, Marco non ci sarebbe cascato. All'arrivo
      vociante dei suoi amici lo avrebbero trovato seduto, imbarazzato, ma
      vestito e con accanto la ragazza che allargava le braccia sconsolata:
      "parlava di politica!" 
      Quando non c'era da portare per strada cavalletti e tavolacci di legno per
      raccogliere le firme dei referendum radicali, nella sezione del partito si
      finiva per discutere. Marco era considerato troppo filo-PCI. Intratteneva
      cordiali relazioni con il suo professore di filosofia e non disdegnava di
      andarlo a salutare all'ARCI, sfogliando giornali fra cataste di manifesti
      arrotolati. Si difendeva sostenendo che i compagni comunisti non erano
      tutti come li si dipingeva, arcaici, bigotti, operaisti ad oltranza. Aveva
      avuto modo di appurare quanto breve fosse la distanza sui diritti civili,
      sulle tematiche ambientali. Tranne qualche vecchia cariatide, non c'era
      più nessuno che si dichiarasse omofobo: le belle barbe dei giovani
      intellettuali erano già oltre lo strappo da Mosca, erano figli del
      Manifesto, tolleravano con qualche divertimento persino i lazzi degli
      indiani metropolitani di cui giungeva eco ai confini dell'impero,
      "Andreotto fai fagotto", "Il papa fuma e vede la
      Madonna", almeno finché non si toccava l'icona di Berlinguer. 
      Di lì a qualche anno il partito radicale avrebbe perduto tutte le sue
      peculiarità, i temi forti dell'ambiente e dei diritti civili sarebbero
      diventati patrimonio comune di tutta la sinistra. Marco avrebbe
      abbandonato Pannella e la Bonino che, per sopravvivere, per distinguersi,
      per smarcarsi, si sarebbero scoperti iperliberisti, filoamericani, persino
      a favore degli interventi bellici. È il destino dei movimenti che nascono
      fortemente motivati da una ispirazione nuova e poco condivisa. Le
      battaglie radicali avevano all'inizio una sponda solo tra i socialisti ed
      alcune forze extraparlamentari. Sarebbe accaduto la stessa cosa per i
      Verdi con l'ambiente e per la Lega con il federalismo. Finché nessuno ne
      parla, finché il movimento è portatore unico, isolato, spesso
      discriminato di un tema nuovo e potente ha una forza propulsiva che gli
      consente di penetrare, sia pure con un duro impegno e grandi sacrifici,
      fra sconfitte e timide vittorie, nell'agone politico. Ma quando vince,
      quando riesce ad affermare i suoi valori fino a farli diventare valori
      fondanti di grandi gruppi di opinione, di forze politiche strutturate, il
      movimento perde la sua ragion d'essere. Ed è uno sforzo patetico quello
      della ricerca di nuove idee, di originali visioni del mondo: un'operazione
      contronatura, lontana dal proprio DNA. Questa manipolazione genetica non
      riesce mai e il destino di queste forze è la consunzione. 
      Marco c'era e suo malgrado faceva parte di una generazione di post e di
      pre. Poteva sforzarsi di leggere Marcuse, ma il dado era tratto e il
      Rubicone lo avevano passato altri, quando era ancora troppo piccolo per
      rendersene conto. Neanche la liberazione sessuale sarebbe mai giunta a
      lambire quelle colline, anche se nelle pieghe dell'ipocrita sessuofobia,
      avrebbero sguazzato le malelingue con tutti i gossip reali e inventati
      della cornuteria locale. 
      In quel luogo lontano dal cuore, terrorismo e antiterrorismo sarebbero
      stati poi simili a un film e persino una voce su un palco, una voce che
      non avrebbe saputo cosa affermare di diverso dalle voci degli altri, era
      debole quanto quello stridente silenzio. 
      E infine, ragazzi troppo vecchi sarebbero stati per le pantere delle
      timide rivolte scolastiche degli anni del poterismo assurto a religione
      dei tanti aspiranti yuppies. 
      Quali parole avrebbe potuto pronunciare Francesco il bel romano o il
      segretario del partito se i "fascisti" gli avessero concesso
      l'onore della tribuna? Avrebbe avuto il coraggio di affermare che aveva
      sentito con le sue orecchie dei consiglieri comunali da un lato proporre
      la pena di morte per i terroristi e dall'altra lagnarsi che fosse stato
      colpito soltanto Moro perché avrebbero dovuto mettere una bomba in
      Parlamento e farli saltare tutti? 
      Eccola allora, quella incazzata dozzina di disomogenei, ognuno con il suo
      bisogno di esserci, ma solo con le sue idee, ancora confuse, stretto agli
      altri unicamente dalla forza della discriminazione. Eccoli, Marco e gli
      altri, sotto il palco di legno, nel bel mezzo dello stradone, con la luce
      primaverile che illuminava la statua del santo sull'arco, in attesa che la
      piazza venisse liberata per ricominciare lo struscio. 
       
      FOTOGRAFIE 
      guarda, ho ritrovato le foto del viaggio in California
    che non hai mai voluto mettere nellalbum, questa dovera, no, ti ricordi, a
    Carson City a casa di quella coppia che avevamo conosciuto nello shop di Yosemite Park, la
    felpa di cosa indossi qui, dellUniversità della Carolina, chissà che fine ha
    fatto, guarda cera quel quadro finto egiziano che poi abbiamo detto sai come
    starebbe bene a casa nostra, le risate, per questo forse scattammo la foto, che bel taglio
    di capelli che avevi, quella sera ero geloso di lui che ti guardava, dai, non te lo
    ricordi, eh, invece lei, orribile, come no, voi donne avete la capacità di trovare
    difetti in ragazze bellissime e pregi in certi mostri da collezione, aveva un naso che il
    mio in confronto, poi dopo cena, neanche mi ricordo che mangiammo, andammo al casino,
    quello lho ben presente, cambiai venti dollari e uscimmo con ventuno e ottanta e
    andammo in quel saloon a bere birra fino alle 4 di notte, almeno io e te perché la coppia
    tornò a casa prima, come si chiamavano, Peter e Mary, Ann e John, boh, so solo che per
    andare a cena da loro restammo a Carson City a dormire e non avemmo più il tempo per
    andare a Reno, e tu lo sai quanto mi secca rinunciare alle cose, e anche il saloon me lo
    ricordo bene, davano una partita di baseball in TV e oltre al barman cerano due
    persone, e ad un tratto ci offrirono da bere, quel tizio ciccione che mi chiese se ero
    musulmano, e tu dicesti ancora! perché me lavevano chiesto anche a Los Angeles,
    quel tipo con il pastrano nero, vicino alla stazione, sembrava un predicatore o un
    barbone, e il tipo del saloon mica ci credeva che fossi italiano, insisteva, e poi
    tornammo al casino con lui, ma non giocammo più, bevemmo e basta, che mestiere faceva non
    lo rammento più, mi pare fosse laureato in psicologia ma faceva loperaio, era
    iraniano o iracheno, direi iraniano, e poi ce ne andammo al motel, ma non era come uno di
    quei motel da film nei quali ci saremmo fermati le notti successive, un hotel normale di
    quattro o cinque piani, non ci giurerei, eravamo troppo ciucchi, ma forse abbiamo fatto
    lamore quella notte, no, forse è stata quella volta che abbiamo dormito vestiti, e
    il giorno dopo, ti ricordi che bello il lago Tahoe, quella passeggiata mitica che abbiamo
    fatto nel piccolo parco sulla riva, tra scoiattoloni grossi come rottwailer e gli uccelli
    di quel blu così intenso che non siamo riusciti a fotografare, ho una visione nitida del
    lago, nonostante sia passato tanto tempo, sai e tu, ti ricordi il bagagliaio
    dellauto, la Toyota che avevamo preso a noleggio a LA, pieno di cartine, vestiti,
    regali, tutto sparpagliato, come ci ritrovavamo in quel disordine, magliette e felpe che
    cambiavamo in continuazione, ogni volta ti guardavo il seno e sorridevi lusingata, pronta
    sempre a provocarmi, e guarda questa foto, qui eravamo in una camera del motel di San
    Francisco, in Lombard street, ah già, prima eravamo stati a Sacramento, si, ti ricordi la
    cameriera carina del ristorante che mi ha lasciato il suo numero sulla ricevuta della
    carta di credito, non sapevi se prendermi in giro o arrabbiarti con me, come non era
    carina, era molto carina, e poi a San Francisco quando volevamo fare le foto in posa osè,
    anche a me ne hai fatte un paio, chissà dove la abbiamo buttate, spero siano state
    bruciate insieme ai negativi, soprattutto quella con il pezzo di sopra del tuo costume da
    bagno, dio che vergogna rivederla, ma allora ci facemmo un sacco di risate, e questa foto
    qui, lo sai che è una delle mie preferite, uscivi dal bagno e ti sei tirata su la
    minigonna, non labbiamo messa nellalbum perché ti vergognavi a farla vedere,
    ma a me piace da morire, questo è un gesto tuo, così dolce e sexy, così provocante e
    ingenuo, sei proprio tu, intrigante, complice, a te invece non piaceva perché sotto la
    gonna, le belle gambe magre e i ginocchi aguzzi, avevi i calzini, adesso non dirmi che
    quella volta non abbiamo fatto lamore, forse avevo ancora indosso il tuo bikini
    quando abbiamo cominciato, si deve essere stato quella volta che volevi fare luomo,
    ma è durata 3 secondi, per fortuna, poi abbiamo litigato, ricordi, perché ci siamo messi
    a commentare quello che lindovina armena mi aveva detto leggendomi la mano sul molo
    di San Francisco, quella storia del nemico che avevo, un uomo che mi voleva del male e io
    quella sera, un po per scherzo, ti ho fatto il suo nome e tu sei diventata
    insopportabilmente aggressiva, cosa centra lui, perché proprio lui, gridavi, ci
    abbiamo messo tutta la notte per fare pace, forse avrei dovuto prestare più attenzione
    alle parole dellindovina e al mio istinto, e queste altre tre foto le abbiamo
    scattate al motel di Santa Maria, sulla costa, mentre tornavamo a LA, qui sei bella da
    morire, sul letto, neghittosa e imbronciata come non mai, eri seccata da tutti i problemi
    che avevamo avuto quel giorno, però non era andato storto fin dal mattino, anzi, era una
    giornata bellissima quando partimmo da San Francisco e ci innamorammo del quartiere
    Castro, ci sarebbe piaciuto vivere là, dicevamo, tra artisti, froci e puttane, e poi la
    strada lungo la costa, eravamo così innamorati che ci sembrava una favola o era davvero
    uno spettacolo da togliere il fiato, e ti ricordi quel tipo che faceva lautostop,
    mentre aspettavamo che raggiungesse lauto dicesti sembra un paranoico, aveva i
    capelli grigiastri e lunghi ed una cassetta di birre in mano, era nato in Inghilterra, e
    disse di aver vissuto a Buckingham Palace perché era figlio di uno stalliere della
    regina, ci raccontò che era in California da ventanni e faceva limbianchino e
    il meccanico, due giorni alla settimana limbianchino e tre il meccanico o viceversa
    perché un solo lavoro lo avrebbe annoiato, e ci offrì una birra e in cambio gli passammo
    una Camel, allepoca fumavamo ancora tutti e due, non gli piaceva San Francisco
    perché gli ricordava Londra e che ci salutò guardando un tramonto spettacolare tra le
    rocce e il mare dicendo sono ventanni che tutti i giorni passo di qua e non sono
    ancora stanco, poi cominciò a fare buio, e a piovere, una tormenta, i vetri appannati, la
    visibilità al minimo tu che volevi fermarti io che volevo arrivare il più vicino
    possibile a La per non perdere laereo, il giorno dopo, a San Luis Obispo abbiamo
    dovuto fermare lauto perché non si riusciva a fare un metro e come diavolo si
    chiamava quel posto piccolo, che sembrava un villaggio dei film western dove prima ci
    hanno fatto entrare nel ristorante e sedere e ordinare e poi ci hanno detto che era troppo
    tardi per mangiare, alle 9 di sera, tu eri pronta a fare la guerra, a tirare fuori una
    mitraglietta e trucidare tutti i presenti, ti ho quasi trascinata fuori e ci siamo
    inzuppati di acqua nel breve tratto tra la porta del ristorante e lauto, non hai
    voluto che ti coprissi con il k-way, avevi i capelli appiccicati alla fronte e
    lacqua sulle guance, sembrava avessi pianto, e quando provai a metterla in moto la
    macchina non partiva, mi sentivo come i personaggi sfigati dei cartoni animati, aspettavo
    che da un momento allaltro passasse un figo su una bellissima auto e ti portasse
    via, invece non so come trovai la fottuta calotta dello spinterogeno e non so cosa diavolo
    toccai, ma il motore si accese e tu mi abbracciasti forte come fossi un eroe da romanzo di
    appendice, e come al solito, tra la gioia e limbarazzo ti prendevo in giro, si,
    luomo della tua vita, un meccanico, in sostanza, di cosaltro ha bisogno una
    donna, e poi facemmo una disperata ricerca di un motel libero e alla fine trovammo questo
    di Santa Maria, un motel proprio come ce leravamo immaginato, il grande parcheggio
    davanti ai mini appartamenti, lanonimato più assoluto, te la ricordi quella tv che
    si vede dietro al letto, no, non era un forno a micronde, cera un telefilm su un
    legale dei marines o qualcosa del genere, abbiamo fatto una doccia insieme e poi queste
    foto, hai voluto mettere il due pezzi, nuda era troppo, ma sebbene il tuo corpo sia
    bellissimo, è il tuo viso che mi colpisce, guarda questa qui in piedi davanti alla tenda,
    non avevi voglia di farla, questa anche puoi prenderla, ma queste due, queste due in cui
    mi guardi così, come forse non mi hai più guardato da allora, ti prego di lasciarle a
    me.  |