Roberto Ferraresi

ho 27 anni e vengo dalla abulica cittadina nomata Caserta, famosa per aver dato i natali a gente illustra come tale Tarrigone Pietro, ho scritto una serie di racconti brevi, alcuni dei quali già apparsi sulle pubblicazioni di Orizzonti, poesie, musica, etc. Ho creato, e dirigo, un giornale, attualmente in vita, chiamato Daunbailò, presso un circolo arci di Caserta, e basta. I racconti che vi propongo sono, comunque, inediti. Spero che vi piacciano.

IL BULLO

Quando ero piccolo, non proprio piccolo, ma più piccolo, avevo 12 anni e mezzo e frequentavo il primo anno di ragioneria, per continuare la gloriosa tradizione familiare di ragionieri e commercialisti, mia madre, mio padre, lui dottore, non semplice ragioniere, mio fratello, ed, infine, io. Ragionieri da generazioni, denominazione d'origine controllata, ragionieri per poi frequentare l'università, Economia e commercio, naturalmente, per poi entrare nello studio, numero due o tre a Caserta, laureato con onore per sostituire, piano, piano, mio padre e per non sfigurare agli occhi del suo socio, altra figura di autorevole commercialista. In verità, loro, erano una bella coppia di professionisti, esperti al massimo, forse sprecati per una piccola cittadina come Caserta, erano soddisfatti, ma loro, non io, loro, io non c'entravo. Così, dicevamo, frequentavo il primo anno all'ITC "Cesare Pavese", per inciso, in cinque anni di prime ore d'italiano, non abbiamo mai letto niente di Pavese, un peccato, un vero peccato. Il "Cesare Pavese" ubicato in quella via popolare, non nel senso di famosa, ma nel senso di popolare, del popolo, insomma, non era una via fighetta, quella via popolare che era via Acquaviva. Io, avevo un percorso di studi un po' particolare per un iscritto all'ITC "Pavese", nel senso che avevo studiato dai preti, anzi, dalle suore, in una bell'atmosfera ovattata, senza mai sondare i "pericoli della vita, i vari bulli e bulletti che, con sommo gaudio, ti rendevano la vita difficile. Tutti, o quasi tutti, quelli che frequentavano gli istituti delle "beate suore" (fateci caso, in inglese potrebbe suonare come "beats whore", puttane suonate? Puttane battute? Ai posteri l'ardua sentenza.) andavano poi a finire al classico, al magistrale (le femminucce) o, appartenendo ad una famiglia alternativa, allo scientifico, mai all'industriale, al geometra, e, tantomeno, mai alla ragioneria. Io, povero fighetto in erba, mi aspettavo di crogiolarmi al tepore della letteratura classica, di ricercare le mie radici nel latino, di affinarmi e trarre saggezza dal greco, di esaltarmi con la filosofia, invece, invece, mi ritrovai sui ruvidi banchi dei ragionieri e periti commerciali a cavarmela con materie ostiche, tipo tecnica commerciale, ragioneria, matematica e tre, e dico tre anni di letteratura passati a studiare la Divina commedia, inferno al primo anno, ed era un inferno, purgatorio al secondo e, in terza andavamo in paradiso, per poi buttarci ( o essere buttati ) su Manzoni per altri due anni. E Boudelaire? E Rimbaud? Pavese? Pirandello? Bukowsky? Kerouac e i beat? Ed Hemingway, Lorca, Keats, Joyce, Gadda, Proust, Voltaire? Al cesso? Non esistono quelli? E poi c'era anche un altro fattore da tenere presente: noi, povere anime, che venivamo dalle medie, chi più, chi meno, avevamo imparato un buon italiano, però, essendo venuti a trovarci noi in un periodo di trasformazione, fisica e psicologica, cioè in un periodo dove cercavamo in tutti i modi di imitare i grandi (non avendo un carattere ben formato, avevamo tutti quella necessità di fascino, di idoli da imitare e questi, quasi sempre coincidevano con i più grandi) e, ponendo come secondo fattore il dato, assunto da esperienze empiriche, che i più grandi, in quanto ripetenti, o, essendo andati a scuola più tardi di noi fighetti piccolo borghesi, a causa di esperienze lavorative nel "campo" dell'agricoltura o della trasformazione del tabacco, più in la negli anni sarebbero diventati esperti in altre sostanze da fumare che non siano propriamente tabacco, dicevo, questi esseri mitologici, questi "grandi", provenivano dall'entroterra Casertano, cioè, da paesi tipo: Marcianise, Capodrise, Maddaloni (quando ci andava di lusso), o, magari, come una sorta di riconoscimento alla cultura Casertana, importati dal Napoletano: Acerra, Villa Literno et similia. Ora, non vorrei essere razzista, sono tutti posti normali, coprifuoco a parte, ma, hanno la spiacevole caratteristica di non aver frequentato scuole medie competitive e, cosa che rende onore ai tradizionalisti del vernacolo, una composizione del linguaggio corrente formato da una minuscola parte di italiano puro e una netta superiorità dialettale che, rendeva il loro linguaggio a dir poco strano, in pratica non avevano la più pallida idea di cose basilari come le forme verbali, i tempi grammaticali, la dizione e la sintassi. ora, essendo noi facilmente influenzabili, si vedevano, per quanto riguarda il primo anno, forti conflitti esistenziali tra la nostra cultura precedente e quello che saremmo divenuti, e sarei divenuto anch'io, se, per puro caso, accompagnando una ragazza alla quale facevo la corte, non mi fossi imbattuto in uno strano personaggio, tale Pirandello Luigi, e, in particolare in un suo romanzo: "Il fu Mattia Pascal", che, come una folgorazione mi avrebbe insegnato il piacere di leggere, leggetelo subito, è importante. Insomma, tutto questo giro di parole per tratte le conclusioni seguenti: gli insegnanti non battevano molto sul tasto "educazione linguistica", seguendo strettamente gli orientamenti scolastici che dicevano che, per gli alunni delle scuole superiori, la lingua italiana era un dato di fatto e, adesso, bisognava solo insegnare loro, nozioni inservibili nella vita quotidiana e la noia e la frustrazione di un lavoro e di una vita insoddisfacente. Dall'altro lato la frequentazione di persone fascinose si, ma non certo dotate di una buona dialettica, e il nostro spiccato istinto di imitazione, ci facevano dimenticare le nozioni precedentemente apprese che non venivano rinfrescate. E che cazzo! Insomma ero uno stronzetto di dodici anni e mezzo, quasi tredici, il più piccolo della classe e certo non il più rispettato. Nei miei confronti, da parte dei ragazzi normali (parlo di ragazzi perché per le ragazze non esistevo nemmeno), nascevano sentimenti contrastanti. Io, ero un fighetto impaurito dalla novità, ero raccomandato, e questo lo sapevano tutti grazie alla Prof. di Italiano che il primo giorno in classe esclamò: ma tu sei il figlio di... ( mio padre, fino a sei mesi prima, insegnava in quella stessa sezione) e, quindi, ero il capro espiatorio di ogni malumore, non avevo, e non ho, grande simpatia per la gente e ciò mi dava un aria da tirato, snob, e, quindi, vittima ideale. In compenso ero alto, a quell'età, un metro e settanta, abbastanza robusto, con mani belle grosse, quindi intimorivo un po' il prossimo. In totale ero odiato, parlavano male di me, ma mai in faccia, perché mi temevano. I ragazzi non normali, quelli che dominavano, i seguiti, gli idoli, quelli che per evidenti doti fisiche maturate con la disciplina dell'agricoltura e della zootecnica, non mi temevano, avevano visto il bluff, avevano capito che ero un coglione ma, essendo loro superiori e non avendo nulla da dimostrare, mi lasciavano in pace, anzi a volte gli ero anche simpatico, mi offrivano da fumare, fumare io? Allora era inconcepibile, oggi fumo due pacchetti e mezzo di gauloises al giorno. Però mi vergognavo a dire "no, grazie, non fumo" e allora dicevo di avere il mal di gola, o, al limite, quando non potevo proprio rifiutare, la prendevo e dicevo: " questa la fumo dopo", oppure "questa me la fumo in classe" e loro mi guardavano con pietà pensando: "povero stronzo". La situazione poteva essere idilliaca: mi temevano, da un lato, e provavano pietà di me, dall'altro, se non fosse per un povero cazzone di nome Carmine P., il quale non era un fighetto, perché per due millimetri era superiore a noi poiccolini e menava, ma non era neanche un grande, perché i grandi, con un dito, lo avrebbero sotterrato. Non era nemmeno in una situazione ambigua come la mia, perché aveva avuto qualche esperienza di botte, esperienza nel senso di averle date, non solo prese. era, in fin dei conti un povero infelice, anzi, per dirla tutta e dirla bene, un povero idiota borioso, che , per far notare la sua esistenza, doveva rompere le palle al prossimo. E quale era, secondo voi, il suo bersaglio preferito? Un centesimo contro un milione. Ero io. Come ero fortunato. Il sottoscritto fungeva da bersaglio per le sue paranoie offensive, io, che non volevo rotture di coglioni, io, che ero così mite, così adorabile, così perbene. Anzi, non solo io. Con me si limitava agli insulti, alle minacce, alle finte, ma c'era un poveraccio, più poveraccio di me, lo zimbello della classe, piccolo, storto, fragile, malaticcio, indifeso, veramente indifeso, perché io, alle sue spalle, di Carmine, ero una carogna. Il poveraccio invece no. Lui le prendeva. Le prendeva e in disparte piangeva e piangeva tanto e tornava a prenderle. Ogni giorno le buscava e, ogni giorno, lo vedevo sognare di prendere il bullo a schiaffi davanti a tutti, il suo viso, quando sognava vendetta, si trasformava in una smorfia truce, feroce, omicida. Però le prendeva. Vedevo che, ogni giorno, raccoglieva in un sacchetto di plastica la polvere dei banchi, il truciolo di quando temperava la matita, i gessetti quasi finiti, che, lui, riduceva in polvere e ficcava nel sacchetto. M'incuriosiva quel sacchetto. M'incuriosiva e tanto. Un giorno non ce la feci a sostenere la curiosità e glielo chiesi: "senti, ti ho visto raccogliere varie schifezze in quel sacchetto, e, non ne sono sicuro, ma sospetto che ci sia anche della merda, giorno dopo giorno. Che cazzo ci devi fare?" E' per lui, rispose, un giorno o l'altro, quando mi romperà le palle, glielo sbatterò in faccia accecandolo e poi lo colpirò forte, talmente forte che il colpo lo sentiranno in tutte le aule. L'odio, l'odio puro, l'odio che non fa ragionare, l'odio motivato dal desiderio di vendetta da parte dell'oppresso, l'odio santo. quel giorno ho capito veramente cos'è l'odio. Comunque, i giorni passavano e il bullo rompeva, i giorni passavano e lui non trovava il coraggio di reagire, i giorni passavano trasformandosi in mesi, e i mesi in anni e di anni ne passarono due. Due anni passati ad accumulare detriti nel sacchetto, due anni passati a subire, due anni passati a covare rancore, a coltivare odio. Due anni nei quali io avevo iniziato a conoscere le ragazze, a starci e a venire lasciato. Quel giorno ero stato appena lasciato. Quel giorno eravamo in terza e non lo avremmo dimenticato facilmente, né io, né la vittima, né tantomeno il bullo. Quel giorno avevo i nervi a pezzi, ero incazzato, ero incazzato nero, ero deluso, lei mi aveva lasciato, una cotta fortissima, non ascoltavo le lezioni, ero presente solo fisicamente, le voci erano un ronzio insopportabile nelle orecchie e specialmente la voce di Carmine, il bullo, e, insopportabili erano le minacce a me e gli schiaffi a lui e le risate degli altri, dei deboli quando se la prendono con qualcuno più debole di loro e gli insegnanti che non vedevano o non gliene fotteva niente. Quel giorno lui, la vittima, decise di agire. venne vicino a me e disse: lo faccio, oggi lo faccio. Le ore si trascinarono da una banalità all'altra, quando, all'improvviso Spartaco ruppe le catene. All'ennesimo schiaffo sentii io, e sentì il bullo: mi hai rotto il cazzo, dopo ti gonfio. Era il debole, la vittima che minacciava. La faccia del bullo, per un attimo, solo per un attimo, si trasfigurò, il suo sorriso sprezzante fece spazio al dubbio, la minaccia lo colse di sorpresa, sgretolò per un attimo la sua roccaforte di forza, di sicurezza, di dare tutto per scontato, i suoi occhi, per un attimo, accolsero il panico, poi, però, si riprese e, con il solito sorriso sprezzante, disse: ci vediamo fuori. La vittima era nel panico più completo, aveva paura, ogni coraggio era sparito in lui, aveva paura, veramente paura, avrebbe voluto congelare il tempo. Ma il tempo non si ferma, almeno non per sciocchezze come queste, e fece il suo percorso e la campanella suonò. La vittima si precipitò fuori, io lo seguii. Era terrorizzato, voleva scappare ma non riusciva a muoversi, avevo paura per lui. Poi lo vedemmo arrivare, lentamente, il cuore ci batteva in gola, il sangue martellava nelle tempie, lui arrivava, la nausea ci prendeva, dietro di lui arrivavano gli altri, sarebbe stata una lezione esemplare, i grandi erano andati via, forse, ma non ne sono sicuro, ci avrebbero protetti, lui arrivava, si faceva sempre più vicino, sempre più grande, sempre più minaccioso, una massa scura di terrore che oscurava il sole, che ottundeva i sensi quando avrebbero dovuto essere più presenti, lui era a poca, pochissima distanza da noi. dammi il sacchetto, dissi al debole. Cosa? Dammi il sacchetto, dammi quel cazzo di sacchetto con quella fottutissima schifezza. Che l'hai raccolta a fare per due anni, per esporla al museo di arte moderna? Il bullo si avvicinava, lui mi passò il sacchetto, io l'aprii. Il bullo era arrivato, era di fronte a noi, noi pregavamo. Il bullo prese il debole per il braccio, lui piangeva, io no. La mano contenente il sacchetto, la sinistra, si mosse da sola, il contenuto del sacchetto, gesso, polvere, trucioli si matita e, penso ancora oggi, merda colpì in pieno il viso del bullo insinuandosi negli occhi, nel naso, nella bocca, sui capelli. Il bullo si fermò interdetto, il debole piangeva, la mia mano destra si mosse da sola, con forza. Il pugno chiuso colpì il naso del bullo, sangue ne sgorgò, poi la sinistra lo colpì sotto il mento, poi di nuovo la destra nello stomaco e ancora, e ancora, e ancora, e ancora, Colpi, colpi, colpi, colpi su colpi e il bullo si accasciò e io stavo per colpirlo con i piedi quando vidi i suoi pantaloni, vidi la macchia che si allargava, che spiccava sulla stoffa chiara, davanti e dietro. Quella macchia infamante. La vidi io, la vide il debole, la videro tutti e tutti risero eccetto me e il debole. Io provavo pietà per il bullo, adesso non più tanto bullo. Poi, all'improvviso, l'ex bullo cominciò a piangere, prima in sordina, poi singhiozzando sempre più forte, sempre più forte, sempre più forte. Il giorno dopo non venne a scuola. Dopo una settimana venimmo a sapere che aveva cambiato scuola. Il debole fu lasciato in pace, sempre schernito, ma non picchiato. Io guadagnai in popolarità e cominciai a fermarmi sempre di più nei bagni durante le lezioni e, alla fine quella sigaretta la fumai. Gli stronzi continuarono ad essere stronzi. e il resto è storia. Dopo molti anni incontrai il bullo. Stavamo sul corso. Lo vidi da lontano, mi veniva incontro, si faceva sempre più vicino, era cambiato, da quel giorno qualcosa in lui si era spezzato. Mentre si avvicinava mi vide, si fermò per un attimo, poi attraversò e cambiò marciapiede. Meglio così, avevo paura che si potesse vendicare. Mi fermai al centro del marciapiede, sfilai una gauloises dal pacchetto, sfregai un fiammifero, accesi e lo gettai. Tirai una boccata di fumo profonda e mi incamminai verso la mia strada in direzione del sole.