Jacopo Nacci

nato nel 1975, segnalato al Premio Calvino ’97, pubblica presso Donzelli il romanzo TuttiCarini. Portavoce del Genica Social Forum, si occupa di filosofia, linguaggio, politica. Il suo alter-ego materialista Don Jago redige e dirige Genica –Funzine di resistenza cognitiva. Il suo alter-ego mistico, BuddaDiMerda, redige e dirige Piave –Stati mentali generati dal fas**smo. Per ricevere tutta questa roba basta scrivere al Genica Social Forum. JN sta ancora cercando di capire se la politica progressista-materialista possa giustificare una scrittura a tratti intimista, cioè quale sia il rapporto tra ‘trasformare il mondo’ e ‘mostrarlo per come è’.
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Zion Train - intro

per Samanta

Ieri sera la forza estranea che sembra aver dettato parola per parola tutta la vita di Shalom ha assunto la forma del regalo in granuli che accompagnava una visita inattesa. La forza estranea ha riempito Shalom d'intraprendenza, l'ha lanciata via e l'ha aggrappata al telefono, le ha spinto fuori parole concitate per Gabriele, parole che ora non riesce a rievocare nelle giravolte che hanno fatto per durare tanto, più di quanto sarebbe stato sufficiente a Shalom per dirgli che sì, accettava il suo invito. Shalom tiene la guancia sulla mano, e punta col gomito nell'angolo del finestrino del treno. Sente sulla guancia la pelle rovinata del palmo della mano. Sente la punta del gomito traballarle con il treno. Si domanda perché ha telefonato. Una frase come "faccio questo viaggio per andare da Gabriele" è fatta di parole che non hanno contorni, che volteggiano sulle cose senza agganciarvisi, come le ombre delle nuvole. Da anni lei e Gabriele si scrivono. Shalom direbbe che Gabriele è l'unica persona della sua vita, ed è vero. Shalom scrive le sue lettere di notte, parla di come si sente, di cosa sente per lui, e al mattino rilegge le lettere prima di spedirle, e sono loro a dirle cosa prova. Quando se n'è accorta ha anche capito perché le lettere di Gabriele non le dicono nulla.

La persona del regalo ha ascoltato la telefonata rivestendosi. Ha chiuso la porta mentre Shalom faceva scorrere le iridi vibranti sul soffitto abbacinante e crepato. Shalom è uscita ma ha cercato ancora il caldo: tra i bicchieri e le mani ha visto dei ragazzi che conosceva. Questa mattina Shalom si è svegliata tardi nelle lenzuola fastidiose, ha avvertito l'odore estraneo, le imposte erano spalancate, dal letto leggeva tre marche di sigarette diverse nel posacenere sul comodino, e c'erano impronte sul pavimento, come istruzioni per una danza. Nel mal di testa si è ricordata del treno e di Gabriele, si è lavata, si è fatta una pera leggera, ha preso tutta la roba e ha lasciato ogni altra cosa com'era. Ha dato tre giri anche al portone di sotto ed è andata via.

Shalom tiene la guancia sulla mano. Sente sulla guancia la mano rovinata dal detersivo economico che usano nel ristorante dove lavora. Quando all'orfanatrofio pregava, le sue mani si univano ed erano lisce e morbide. Era come non sapere bene quale mano stesse toccando l'altra, quale mano stesse usando. "Ma di' soltanto una parola e io sarò salvata": ricorda solo questo. E' sola nel vagone. Il colore del treno è della stessa pasta di quello del sonno, e anche se sa che quella là fuori è la campagna di cui le ha sempre parlato Gabriele, non le dice nulla. La fissa ed è come se in ogni istante si fosse appena voltata. Shalom scava i suoi piani nel loro sciogliersi l'uno dentro l'altro lungo l'orizzonte, si proietta come un faro, ma è come se loro si allontanassero sempre di più, e il nome 'campagna' si alleggerisce fino a diventare puro suono: stupido, strano nome. Parola. Oggi Shalom pensa che forse Gabriele è solo più abile a vivere nelle parole volanti, a saltare dall'ombra di una nuvola all'altra. Ormai si è fatta notte.

Anche se non sa il perché ripensa a una cosa che le accade prima di addormentarsi: ci sono degli omini, degli automi, fanno delle cose senza senso con gli arti e gli organi fonatori, fanno movimenti e suoni. L'immagine però si dissolve all'improvviso, perché in quel momento lei si sente come l'occhio completamente estraneo che non c'è, e vede tutto obiettivamente (non saprebbe dire in un altro modo), e questo non è lecito, è l'illecito assoluto: l'impossibile, dunque scompare.

Oggi esegue un esperimento definitivo, ora sa che è salita sul treno solo per questo esperimento. Ma l'esperimento di oggi non è altro che l'ultima parte di un esperimento continuo che dura tutto il giorno, ogni giorno. L'esperimento si dispiega istante per istante, senza che Shalom possa farne a meno. Oggi Shalom ha la certezza che sia l'esperimento a sperimentare Shalom, e ora le sta facendo cercare la campagna, o Gabriele. Shalom conosce bene l'esperimento, è la cosa che conosce meglio: lo ha inventato lei, crede. Solo che lui è cresciuto, è cresciuto fino a diventare enorme e contenerla, e di giorno in giorno questo si è fatto più evidente, più certo, più irrimediabile. Di giorno in giorno lei lo ha provocato sperando in un riscontro negativo, e lui ha provocato Shalom a provocarlo per provare a produrre risposte negative, che non ha mai prodotto. Oggi Shalom è convinta che, una volta persa, la voce delle cose non può tornare; che una volta uscita, Shalom non può rientrare. Oggi più che mai nella sua vita sa di essere simile al treno, perché il treno e le cose corrono velocissimi e paralleli, senza toccarsi mai.

Shalom è sul treno. Questo è un giorno importante. Shalom è sveglia, vorrebbe ascoltare. Ha paura che basti una sola parola per salvarsi, ma che nulla possa dargliela. Ha paura che la soluzione non sia nulla di complicato, che sia una cosa semplice e pura, che debba esserlo, e per questo però debba essere la parola più rara del mondo. Una parola di cui tutti devono essere dotati ma che una volta perduta non si può più riavere. Guarda le cose senza nome e senso fuori dal treno, guarda il togliere delle cose che passano, e all'improvviso si accorge che ogni cosa che passa è come un peso che lei si leva. Togliere, e togliere. Shalom vorrebbe togliere tutto, fino a non lasciare più nulla, e in questo istante Shalom capisce con un atto solo, l'atto di comprensione più puro, più semplice della sua vita. "Ma di' soltanto una parola." Ecco quale: Nulla. il suo dio è tornato a salvarla, oggi. Nulla. Là dove si nascondeva, proprio là lei è arrivata e lo ha trovato. Là dove le cose tacciono è lui che sta parlando. Shalom ripete il suo nome: Nulla. Avverte una vertigine simile a quella che si ha sul vuoto, sente salire un'acqua metallica nella bocca. Nulla. La verità chiama Shalom a sé: Shalom sa come si fa. E' stata come una lunga preparazione, un rituale, come essere educati a fare una cosa da prima di sapere perché e quando ti servirà: quando sarà il momento lo riconoscerai. Come un soldato afferra la borsa e si chiude in bagno: è tutta meccanica, è solo prassi, gesti automatici, nulla di più semplice. Prepara ogni cosa fuori dal tempo, poi preme lo stantuffo fino in fondo; ciò che sta oltre la misura acquista un'importanza fondamentale: è il momento, è il mio momento, pensa Shalom, chiunque ha il suo momento nella vita. Mentre la maniglia della porta le preme la schiena l'oceano le sale attorno in un istante. E' sott'acqua, apre la porta, barcolla fino al suo posto e si accascia e immagina i suoi occhi ora, i suoi occhi alieni, sul fondo dell'oceano, pensa: sta arrivando, è enorme, buia. Il treno si ferma, Shalom rimane immobile al suo posto col sorriso del corridore che taglia il traguardo in trance, sapendo e non sapendo. Il treno riparte. Il mare compare come un deserto di vetro blu. La luna è una palla tonda e bianca, sospesa e immobile, ha un manto candido che la segue sulla superficie del mare. Gli occhi chiusi non le impediscono di vederlo chiaramente. E' sveglia, Shalom. Il treno la porterà dritta dritta dall'altra parte: è la fine dell'esperimento. Il treno correrà attraverso le cose che non la toccheranno, e poi ancora più giù. Shalom sa che all'infinito finalmente le parallele si incroceranno e scoppierà il Nulla, nel quale lei riemergerà immergendosi: un buio indistinto, del quale si possa dire tutto, o non dir nulla. Saranno le parole esatte del silenzio.

Nei giorni

per noi due

Era venuto fuori in autobus, mentre andavamo a prendere il treno per Firenze. Erano le sei e tre quarti del mattino. Mi aveva domandato: -Hai spento il fornello? Lì per lì non avevo capito di cosa stesse parlando. Il fornello. Rimase sospeso in aria senza alcun significato. -Ah sì- dissi poi, -il fornello… Oddio, no. Cioè: non mi ricordo. Lei aveva allargato gli occhi e aveva detto: -Dai, come non ti ricordi. Ed eravamo rimasti lì a guardarci, aggrappati ai tubi dell'autobus, in quella strana luce blu. Ma io veramente non mi ricordavo. -Prova a ricordarti: devi ricordarti. -Oddio, micia, non mi ricordo, veramente. -Cazzo- aveva detto lei, -non l'hai chiuso. -No, no, eh…- corsi ai ripari, -solo che non mi ricordo. Non mi ricordo nemmeno di aver messo questi jeans ma effettivamente non sono in mutande. Calmati, Dani, non preoccuparti. Ma in realtà ero io quello preoccupato. Mi suonava in testa della vecchia roba dei Sonic Youth. Alla macchinetta della stazione presi il caffè. La macchinetta della stazione era piantata solitaria in mezzo al sottopassaggio. Il sottopassaggio era deserto. Pensavo che ero solo io e centinaia di quelle piastrelle. Pensavo a Daniela che mi aspettava sul binario, con i panini nello zaino, le diana blu in tasca e Gogol in mano. Quando la macchinetta della stazione finì il suo lavoro presi il bicchierino e cominciai a camminare nel sottopassaggio. Era freddo. Tremavo così tanto che sembrava il caffè dovesse balzar fuori dal bicchierino di plastica. Infilai le scale attento. Quando arrivai in cima alle scale e sbucai sul binario, Daniela non c'era più. Mi guardai un poco attorno. Non capivo. Poi la vidi. Era sull'altro binario. Seduta accanto al suo zaino, con Gogol in mano, ma non mi aveva visto. Forse non si aspettava di vedermi su quel binario, avevo sbagliato. C'era lei là in quel modo. C'erano tutti quei binari.

Pensavo che saremmo tornati quella sera e ci saremmo scordati di tutta quella questione del fornello e del gas. E avremmo trovato le camionette dei pompieri, i carabinieri, i giornalisti. Il palazzo nero e sventrato. -Saremmo dovuti tornare indietro, sai? Io lascio spesso i fornelli accesi. Lei aveva sogghignato poi aveva chiesto: -Come sarebbe spesso. -No so- avevo risposto, -mi è capitato. Ci eravamo svegliati praticamente insieme: avevo aperto gli occhi e l'avevo vista aprire gli occhi in quell'istante. Le avevo detto: -Auguri Dani. Perché era il suo compleanno.

Firenze era bella, abbiamo camminato tanto, tenendoci per mano. Ma avevo la febbre e non mi reggevo in piedi. Lei voleva andare a Firenze. Siamo andati a Firenze. Parlammo di Carver da McDonald.

Mentre scendevamo dall'autobus, al ritorno, immaginai il fumo levarsi da dietro le cime dei palazzi, e quando imboccammo la via vidi il rogo sovrapposto all'immagine che vedevo così spesso. Era rosso e giallo e illuminava i palazzi. Salimmo le scale. Lei disse qualcosa. Non mi ricordo cosa. Quando entrammo ci sedemmo sul letto. Fu allora che le strinsi il polso, per qualche istante, senza dire nulla. Lei mi guardò con un'aria allarmata, disse: mi fai male, mi supplicò un poco cogli occhi. Quando mollai lei andò in cucina senza dire nulla, restai solo nella stanza. Guardavo oltre il vetro. Il vento forte percuoteva gli alberi. Aria di pioggia. Pensai a come le avevo stretto il polso. Uscii dalla camera. Lei era in cucina. Le dissi: scusa, per prima. Ti ho fatto male? No, Jaco, no, disse. E mi accarezzò il capo. Mi spogliai e me ne andai in bagno. Mi infilai sotto la doccia. L'acqua era o fredda o bollente e smanettai la leva per tutto il tempo. Pensavo al polso di Daniela. Piansi un poco, forse non per quello. Uscii dalla doccia, e lei stava là sul letto, con l'aria assorta e malinconica, scrutava il soffitto, aveva gli occhi lucidi. Allora senza aspettare che si voltasse, senza richiamare la sua attenzione glielo dissi, che volevo smettere di stare con lei, che volevo lasciarla. Era già in lacrime quando le dissi che non era vero, che era uno scherzo. Ma erano giorni di cui non ricordo molto. Erano giorni un po' così. Non sapevamo cosa ci stesse accadendo. Quando non facevamo l'amore, non sapevamo bene cosa fare, o chi eravamo. Nei giorni.

Il Male

per Fabio, Luca e Sam

L'uomo si avvicina al banco appena lucidato, barcolla. Il barista sta asciugando un bicchiere. Il barista è bruno coi capelli folti e dei gran baffoni. L'uomo invece è un tipo magro coi tratti affilati, stempiato, con occhiali tondi dalla montatura leggera, un poco all'antica. Il barista alza il mento in attesa di un'ordinazione. L'uomo dice: -Un fernet, perfavore. Il barista mette un bicchiere piccolo e pesante sotto il naso dell'uomo e lo riempe di liquido scuro e denso per più di metà. L'uomo si accende una marlboro. Dice, mangiandosi le parole, come se lo dicesse tra sé: -Bella roba, gli amici. -Come?- fa il barista sollevando le folte sopracciglia, come allarmato per non aver compreso.. -Ho detto- fa l'uomo alzando un poco la voce e scandendo lagnosamente, -bella roba gli amici. -Bè…- dice il barista. Poi tace. L'uomo gira la testa come se guardasse qualcosa fuori dal bar, soffia via il fumo, dice a bassavoce: -Prima fan gli amici… -Come?- fa il barista. L'uomo si gira: -Ho detto: prima fan gli amici, poi… -Eeh- dice il barista asciugando un bicchiere identico a quello del Fernet. -Eh no!- scatta l'uomo, -no, perché se sei amico, sei amico. Poi ti dicono che te non fai parlare,- scuote la cenere nel posacenere a tubo accanto a lui. -Io?- chiede il barista come destatosi ora, puntandosi il dito contro e guardando l'uomo. -No, io, io, in quel senso. Entra un africano, con valigetta, cd. Si accosta al banco. Guarda l'uomo e dice: -Allora, amigo…- mostrando la valigetta, sorridendo. -No grazie- dice l'uomo senza nemmeno guardarlo. -Niente?- dice l'africano. -Guarda stasera non…- dice l'uomo scuotendo la mano. L'africano non dice nulla, si allontana, avvicinandosi a qualche altro avventore. A bassavoce l'uomo dice: -Che te proprio,- come se continuasse a parlare all'africano, ma rivolgendosi al barista -questi qui son gli ultimi che mi voglio intorno, stasera. Scuote la testa. -Perché poi dicono che io son razzista,- dice alzando la sigaretta -io son fascista, sei un fascista se non la pensi come loro. Che io dico, mica non ci conosciamo, per anni siamo stati vicini, abbiamo fatto i cannoni assieme, perché io non ho problemi ad ammetterlo, sa? Loro dicono: come fai a votare AN e farti i cannoni? Perché io non ho mai sentito che i cannoni son dei comunisti. E mio padre me l'ha sempre detto che i comunisti sono bastardi. E io vado a litigare per i negri… litigassi per i bianchi, almeno, no?- ridacchia, -per i negri. Ma vaffanculo. Il barista tace. Guarda altrove, ma resta davanti a lui, cone le mani appoggiate sui mobili alle sue spalle. L'uomo dice: -Come se fossi razzista. Per qualche battuta. Che non è vero che son negri?- ammicca al barista, il barista non lo guarda -cazzi loro. Io non ce l'ho con nessuno,- tira su col naso, poi gli si inumidiscono gli occhi e squotendo l'indice dice -ma ci sono gli italiani nelle baracche e gli extracomunitari che stan bene. Allora dico gli italiani vengono prima. Che c'è di sbagliato? Poi arriva lui, il compagno delle mille avventure, no? Mavaff… dice: guarda io e te non possiamo più vederci,- si asciuga un occhio arrossato, passando le dita sotto le lenti -un altro, vino, rosso, perfavor…- dice al barista, poi riprende -io e te non possiam più vederci, dice, perché te- scimmiotta, -tu sei un fascista. Gli dico: ho mai toccato qualcuno, io? Mai. Che cazzo te ne frega delle battute: sei negro te?- guarda il barista negli occhi: -sei negro te? no perché se sei un negro dillo- ridacchia, -e lui mi dice: vaffanculo, prende e se ne va. Lo rincorro, lo fermo, mi dice: io non le reggo più le tue battute, i tuoi discorsi. Gli dico: va bene, mi tratterrò, ci starò attento. Anche se smetti di farle, dice lui, l'intelligentone, dice: io so come la pensi tu, non cambierebbe nulla. E chissà come la penso io? dico, come tutti, no? Sono solo battute, perché non mi fai fare le mie battute? Sarai più intelligente di me, mi rendo conto, sarai più acculturato, idee più aperte, così... Stia a sentire. Mio padre ha fatto la guerra e poi Salò, -si strofina gli occhi umidi, tira su col naso -metteva gli ebrei sui treni. Io lavoro tutto il giorno, non ho certo tempo per leggere i libri. E questo mio amico stasera sbotta e dice: basta, dice: basta, no? non fai altro che parlare di donne puttane, froci e negri. Basta, sei pesante. Io pesante? - l'uomo si indica guardando in giro -s'immagina lei, io pesante, per un paio di battute sui… L'africano esce dalla sala dei videogiochi. Si avvicina, l'uomo tace, l'africano saluta il barista, il barista dice: -A domani. La porta si chiude. -Gli ho sparato? Gli ho detto qualcosa- dice l'uomo, -ha visto, no? Prende il bicchiere di rosso e sorseggia. Dice: -Lui, no? dice: ci sono delle ragioni per tutto, dice: te non guardi mai le ragioni. Aspetta, cos'è che m'ha detto, cos'è che m'ha detto? Ah, questo, se riesco a ripeterlo, dice: te non riesci a mettere insieme tutti i pensieri che hai in situazioni diverse e a vederne le contaddizioni. Caz,- allarga le braccia -uno mica può pensare a tutto, no? E che c'è di male in questo? Io le cose le vedo. Caz, sarà colpa mia se son poveri e vivon con le lance,- guarda il barista negli occhi, dice -come se fosse colpa mia che i finocchi prendono l'Aiz. No? L'uomo si ferma. Si asciuga una lacrima. Finisce il vino. Dice: -Mi dia un bianco, un bicchiere per favore. Il barista fa scomparire il bicchiere vuoto. Appoggia un bicchiere sottile. Lo riempie da una bottiglia senza etichetta. L'uomo lo afferra e beve d'un fiato. Lo rimette sul banco. Scoppia a piangere, forte. Con la un filo di voce tremolante dice: -Dice… dice che non mi devo fare le pere e poi esser per la pena di morte per gli spacciatori… Cosa c'entra? Mi dice lei cosa c'entra? Se potessi, non darei i soldi… ma come faccio… Il barista trasalisce, ma si ricompone. Si gira, prende un bichiere, lava, strofina, guarda in basso. -Infatti- alza la voce l'uomo, asciugandosi con un fazzoletto sotto gli occhiali -infatti non c'entra un cazzo. Ma lo sa com'è finita? Lo sa? E' finita che lui ha detto che l'amicizia è chiusa, che lui non riesce a starmi vicino, che gli faccio ribrezzo. Ha detto proprio così: gli faccio ribrezzo. Cosa c'entrano dico io le idee di una persona con l'amicizia? Gli faccio ribrezzo io, a lui. Mica i suoi amici negri, capito?- ridacchia di nuovo, tende i muscoli della faccia in una smorfia nervosa, -e allora io che ci tengo, ci tengo da morire a lui, abbiamo condiviso tutto, io lo prego in arabo, mi inginocchio, piango! Gli chiedo: ma perché? perché? e lui sa cosa mi risponde? Mi risponde: perché io sono omosessuale. L'uomo a questo punto ha un altro scoppio di pianto e ingolla il vino d'un fiato. Dopo un po' si strofina la mano sullo stomaco e dice: -Io lo capisco, cosa crede lui, che non capisco, che non è colpa sua? Che è una malattia? Mica gli posso dar colpa di qualcosa… Scusi,- e alzando la mano destra per ribadire le sue scuse corre in bagno. C'è un silenzio di tomba nel bar. Poi il barista sente l'uomo vomitare. Arriva lo sciacquone. Dopo un poco l'uomo esce. Dice: -Ecco, ora va un po' meglio- parla lentamente, gli si chiudono gli occhi rossi -sa, non si offenda, ma questo è il terzo bar in cui entro stasera. Ho bisogno anch'io di parlare con qualcuno. Comincia a ridere e dice: -Lo sa perché non mi vuole più intorno? Perché sa benissimo che se mi ritrovo una mano sul culo m'incazzo. Ah! Ah! Ah! Ecco perché. Sto scherzando. E' ovvio. Il barista alza gli occhi per la prima volta da quando l'uomo ha cominciato a parlare. Lo guarda dritto negli occhi. Gli dice: -Io sono ebreo. -Come? -Io sono ebreo. L'uomo ha un lampo negli occhi umidi e arrossati. Poi mette le mani sul banco e dice: -Ecco, vede? Io non ho nessun problema- dice serio con gli occhi spalancati. Si passa una mano sul volto, poi tutt'e due le mani. Dice: -E comunque ora si è fatto tardi, grazie, grazie di avermi ascoltato. Ora vado. Io lavoro. Domattina io alle sei sono in piedi e sono tutto il giorno al lavoro. Non sono mica un fannullone io, lei mi capisce, perché anche lei lavora. Mi dica, -fa un gesto e indica il banco, il bichiere vuoto -quant'è? -Niente- dice il barista. -Come niente? Guardi: non si deve preoccupare. Io lavoro, i soldi ce li ho, me li guadagno onestamente, io. E non è nemmeno che lei si deve sentire in dovere di offrirmi qualcosa perché questa sera sono così, o per quella confidenza di prima- l'uomo arrosisce e vibra -che le ho fatto. Io spendo i soldi che guadagno. Non si deve sentire… -Io non mi sento in dovere di nulla verso di lei- dice il barista in tono gentile, -e ora se ne vada. Perché io non so ancora se gente come lei mi fa più pena o più ribrezzo. Se ne vada e non si faccia più vedere, per nessun motivo. Sono stanco di discorrere e educare, sono vecchio e lei non cambierà. L'uomo sgrana gli occhi, rimane a bocca aperta. Infila una mano in tasca, apre il portafogli e mette sul banco diecimila lire accartocciate; esce. Sbatte la porta sbofonchiando: -Io ti faccio pena? Pensa a te: t'si 'n ebreo. Il barista lo guarda andare via, oltre la porta di vetro. Scuote il capo, sospira, e si lascia cadere su una sedia. D'un tratto ha un'aria distrutta, come se avesse lavorato per tre giorni di seguito senza mai dormire. Con la bocca aperta e ansimante fissa le dicemila abbandonate sul banco. Si passa una mano sulla faccia. Poi va a dare un'occhiata in bagno.

L'uomo esce e fa freddo. Il cervello gli rimugina. Veramente non capisco, pensa tra sé, non son forse libero di pensarla come voglio? E perché? Fascista io… Lui in caso. Cerca le chiavi della macchina nella tasca dei jeans. Apre la portiera e entra. Gira la chiave ed esce dal parcheggio. Prende la strada di casa, sente gli occhi e la testa che gli cedono dal sonno, ma si sforza di capire, di capire cosa può fare per sistemare le cose. Deve farlo, è il suo amico, quello. Quando si ferma a un semaforo dice a se stesso: -Diciamolo: ho urtato la sua sensibilità. Quelle battute si fanno quando uno non c'è. Ma come potevo saperlo? Ebbene sì, lo farò, per amicizia gli dirò che non me la prendo se è innamorato di me, o soltanto non riesce a trattenere gli istinti e è imbarazzato. Si vedrà. Io non ho problemi con nessuno, e, da un mio amico, se è mio amico e ha un problema, anche le mani sul culo mi faccio mettere, cazzo!- scoppia a piangere ancora, -cazzo! Si è sempre visto di me, questo. E anche quell'ebreo di barista, le sue dieci carte le ha avute. Io ho bevuto. Dunque io ho pagato. Sono un signore, io. E te t'si 'n ebreo,- e scoppia a ridere tra le lacrime. Accende la radio. Jazz, del buon jazz, per rilassarci, è quello che ci vuole, pensa. La soluzione c'è, c'è sempre una soluzione a tutto, pensa, e se non c'è, c'è l'abitudine. Tuttavia si accorge che c'è qualcosa che lo disturba. Allora si ricorda di aver detto al barista che si fa le pere. Non capisco, si dice, come abbia potuto essere tanto sconvolto da dirlo a qualcuno, ora che mi sento meglio. Merda. Cazzo! In quanti bar sono stato stasera? Con quanti baristi ho parlato? Merda! Il semaforo diviene verde, l'uomo dà gas e riparte.

Sibeling - di Kid Plotino f/ Genica Prod.

per B-Dani

Dal Libro di Tennika: bassissima leggibilità - introduzione VulcanOne: Non riesco a fare cose semplici. I miei pezzi devono avere la forza di Mike Tyson quando mette a tappeto gli avversari. Non voglio che siano leggibili. Mi fermo solo quando anche io stesso non riesco più a leggermi. Solo questo è importante. Immense lettere selvagge. E' tutto ciò che so fare.

Dal Libro di Jennica: Mo' murda - movimento primo B-Dani dice: -Pesterò il tuo tempio con la mia Verga, ché essa è reale e non si cura delle vittime mietute dall'incedere di Dio. Dio non essendo altro che l'attimo presente.

Dal Libro di Jennica: Scusa per me - movimento secondo Guardi il fondo perdersi nelle nuvole sotto di noi. Cominci a piangere. B-Dani ti mette una mano sulla spalla e dice: piantala! era solo una pecora! solo una cazzo di pecora!

Dal Libro di Jennica: Tha Unum vs Logos Dub- movimento terzo Sto di merda stasera, Stella. B-Dani fa su uno schioppo e dice: facciamo un gioco, il gioco è che io dico tre parole così a cazzo e poi ci dobbiamo scrivere un racconto. Poi si guarda intorno e decide le tre parole: sono Libro, Maglione, Finestra. Ah io ci sono. Libro. Maglione. Finestra. Maglione. Finestra. Maglione. Libro. Finestra. Libro. Maglione. Libro. Maglione. Finestra. Finestra. Finestra. Finestra. Maglione. Finestra. Maglione. Libro. Lo vedo. Sta in piedi davanti alla Finestra: Ho appena terminato il Libro, e ora il Libro è saturo, è pieno di me. Ho copiato sezioni di libri di altri e le ho unite costruendo la mia propria storia, il mio Libro, e ora il Libro è finito. La notte mi guarda da fuori, colgo lo spirito dell'istante e la notte è pronta, la comprendo perché da secoli ne studio le dinamiche. Ora agguanterò il Maglione grigio abbandonato sullo sgabello, e vi avvolgerò il Libro. Ecco, ora ne testo l'esser saldo e assicurato, stretto nel sacco del Maglione. Lei leggerà. Guardo la finestra. Adesso. Adesso mi metto in piedi sul davanzale, nudo e chiaro, sotto lo sguardo pieno d'amore che la luna ha sempre per me, e fronteggio l'altra torre, identica a quella in cui abito io. Esattamente di fronte a me, nell'altra torre, si apre una Finestra identica alla mia finestra. Intorno solo un mare di nebbia. Ora farò volteggiare il mio fagotto nel vento sferzante della notte, il fagotto che reca la mia storia, e lo lancerò e lo farò passare attraverso la Finestra della donna che abita nella torre davanti alla mia torre. Lei leggerà tutto quello che ho assemblato, la storia della mia vita e la storia delle mie ragioni, che sono sassi diversi e insignificanti perché il loro senso è nella storia che li tiene insieme come una gelatina magica che sola ne restituisce il colore. Sono emozionato, perché questo è lo scopo: spiegarle perché io sono così, dirle come sono e perché. C'è una voce dietro di me, ma non capisco come sia fatta, non vedo il volto del discorso, la fisionomia dei termini, che mi dica io son buono, io son falso. Mi giro e c'è B-Dani che mi guarda da un angolo della Stanza, un angolo dentro al quale sta premuto. Cazzato, mi dice, si dice cazzato. La luce debole ma nitida fa il suo volto senza rughe come la sabbia senza l'uomo, e ha un Bastone in mano. Io devo fare finta che lui non ci sia, perché il mio davanti ora è più importante del mio dietro. Ma mentre penso il mio davanti guardo il mio dietro. Ha gli occhi cattivi di B-Dani che tentano di esplodere fuori dalle orbite e contorce la bocca. Mi dice: non distrarti, vai avanti con la tua storia e ricordati le tre parole. Libro. Finestra. Maglione. Devo fare finta che lui non ci sia. Sento il sudore fermentarmi sulle tempie, sulla fronte, colare dietro le orecchie, sulle braccia, sui polsi, lo sento ritrovare il suo gemello stillato nel palmo della mano, lo sento bagnare la lana del Maglione che tengo stretto in mano. La notte è nera come l'inchiostro con cui ho ricopiato le lettere degli altri libri, l'inchiostro con cui le ho disegnate. L'ho fatto per anni e anni, ricopiate fedelmente, nei minimi dettagli. Perché io non posso permettermi di cambiare la forma delle lettere: invero, io non so distinguere in esse i tratti salienti e fissi -ovvero ciò che è necessario ad una lettera per essere se stessa- da ciò che non lo è, dai suoi tratti variabili, affidati alla disposizione degli animi, ai gusti, alla fermezza della mano e della mente; l'arbitrio e l'autonomia non son certo privilegi miei, che, povero animale, non distinguo il sacro dal mutabile, il centro ideale che è essenza da ciò che è accidente, perché io non riesco ad astrarre, a far paragoni, a memorizzare la forma delle lettere, né conosco la loro pronuncia, né il significato delle parole che esse s'ingegnano di edificare sulla linea orizzontale, che per loro, a volte, sembra altezza, dato che la forza di gravità le attira da destra. Io non so leggere. Io non so scrivere. Io ho duplicato minuziosamente brani che non capisco, dei quali non conosco il significato. Ho ricopiato quei disegni astratti, le lettere, le macchie e gli errori che saranno là in mezzo, le verità comuni, le menzogne illuminanti, l'inutile già detto che non cambia il ricevente, il non detto poderoso che imprime direzioni aliene alla storia di un pianeta o di un uomo. L'inutile già detto, urla B-Dani dal suo angolo e sembra sudare rivoli di sangue da quelle dune che fanno il suo volto, l'inutile già detto, l'inutile già detto, l'inutile già detto. Oh! Io non so cosa c'è scritto nel Libro della mia storia, vorrei saper leggere, ma partendo dalla forma delle lettere non sono arrivato oltre la forma delle lettere, dunque voglio che lei lo legga, il Libro, voglio che almeno lei capisca perché io sono arrivato a questo punto in questo modo, da dove io provenga e perché non possa fare in un altro modo, non possa far che questo, perché è nell'amore che posso trovare il mio specchio: riflettermi, crearmi. Perché? urla B-Dani: Perché il Cielo e la Rosa sono blu? Perché l'Acqua è bagnata? Perché Giuda ha tradito Gesù, portando con sé gli armigeri dall'ombra, nel giardino di Getsemani? B-Dani ride e dice: ho visto i soldati uscire dal buio, ho visto i sinonimi ingannare il loro stesso nome saccheggiando significati diversi nell'anime degli uomini, come fanno gli uomini di un dio agli uomini di un altro dio. Perché il Cielo e la Rosa sono blu? Nulla posso farci, ma che legga! Che io la crei e crei il libro, come un Dio senza autocoscienza. Che il mondo possa cambiar giro reagendo al mio intervento, al mio salto di qualità memorabile. B-Dani dice: ti preoccupi per tutto. E poi, tu lo sai chi sei? Mi minaccia col Bastone, dice: credi forse che io non possa piegare il padre pio? Ha gli occhi rossi ed è furioso in volto, e continua: non puoi preoccuparti di tutto, perché il tempo è ciclico e la materia si sposta sempre, non la si crea, non la si cancella. La si sposta, mugugna a denti stretti, e ciò che rendi è ciò che prendi è ciò che dai. Non sarai tu a cambiare l'ordine secondo cui le cose scorrono e si causano l'una con l'altra, perché tu ne fai parte e le tue scelte non son libere, ma dipendono dal corso della storia. Esiste solo il presente, e il passato è solo la configurazione ideale che produce necessariamente il presente. Tu assaggerai il mio Bastone, mi minaccia, perché i tuoi sono rimpianti del cazzo. Tu sei Otello e tu sei anche Jago. Tu non sai cosa cazzo c'era nella testa di Enea mentre lasciava le coste della Libia. Lo sai, poñez? No, non lo sai, la verità è che non sai un cazzo. Tu non sai nemmeno cosa c'è scritto nel tuo Libro. Non devo ascoltare B-Dani. Io devo scagliare il Libro. Dietro il pianoforte severo c'è una chitarra che piange disperata. Ma ora, ora che le lacrime mi scendono sul volto posso vedere le sue lacrime quando leggerà, e il cuore mi si comprime facendomi male da morire, e il sudore impregna le mie mani e il Maglione, ora che nudo fronteggio la nebbia, la notte, la torre, l'altra Finestra, ora capisco che il Libro che avevo già avvolto nel Maglione e stavo per lanciare, il libro finito, è incompleto, perché anche questo momento è importante nel grande testo che racconta la mia vita dato che io son diverso da colui che ero fino ad un istante fa, e lei deve leggere anche questo momento, per capire di me il come e il perché. Appoggio la punta del piede destro sul pavimento della Stanza: rientro. Osservo la mia immensa biblioteca, migliaia e migliaia di volumi e so che ora dovrò cercare altri brani per spiegarle me. Me-fino-ad-ora: questo è il mio nome. B-Dani agita il Bastone pericolosamente. E' lungo e nodoso, e finisce con una specie di ernia, come un osso. Continua a ripetermi le tre parole con voce bassa e meschina: Libro, Finestra, Maglione. Dice: non sarai tu a cambiare l'ordine secondo cui le rose scorrono e si causano l'una con l'altra, perché tu ne fai parte. Poi dice che gli ho promesso poemi di guerra e sono quindi un menzognero. L'emozione sta accelerando i battiti del mio cuore. Il vento entra forte dalla Finestra e mi raggela. Ora so che ho perso lo spirito adatto al momento che attendevo. Il panico ha gelato i miei muscoli sudati. L'ho perso. Stringo le maniche del Maglione. Come cazzo ti è saltato in mente 'Maglione'? B-Dani di merda. Cazzate cazzate cazzate, dice B-Dani, e sembra quasi non prendere il respiro; dice: non è questo il punto, non è questo il punto, non è questo il punto, non è il Maglione, per quel che mi riguarda. Le tre parole? Le ho forse scritte io? Analfabeta. E mentre tu sei Libro, Finestra, Maglione, io sono B-Dani, Stanza, Bastone. Senza ragione. Non è vero, gli rispondo urlando, perché arriva da lontano questa vibra che ci aiuta, e ci sarà un motivo se è venuta. Da lontanissimo, dice B-Dani. C'è una nuova e spaventosa certezza, figlia di quella di poco fa, la sento arrancare tra i fitti arbusti del bosco del mio cervello, e sta venendo verso di me, sino a che non la vedo: Me-fino-ad-ora è un progetto irrealizzabile. Se lei deve sapermi, io devo esserci tutto, nel Libro. Se io dovrò parlare attraverso il Libro anche di ciò che è appena successo, se lei dovrà leggere anche delle mie emozioni mentre i miei piedi erano piantati saldamente sulla Finestra, se dovrà capire perché ho rinunciato per ora a scagliare il Libro, e capire che io ora, dopo questo, sono diverso da quello che aveva appena finito il Libro e si apprestava a scagliarlo, capire le conclusioni che ne ho tratto -ovvero che devo parlare anche di questo- e di ciò che sto pensando adesso e così via, allora il processo è virtualmente infinito. Dovrò trovare i frammenti adatti. Capite? Ciò che si legge qui è uno di quei passi che ho copiato da altri libri ma io non lo so, perché non so leggere. Io sono Dio, per dirla di sfuggita, e non so cosa si legge qui. So che poi farò un nuovo tentativo e so che poi farò tutti quelli che farò, perché ogni volta sarò diverso da quello che ero un istante prima, e se non le dicessi tutto questo non sarei esatto, non sarei esauriente, non sarei preciso, sarei un bugiardo, creerei l'Errore. Con quale criterio legherò ogni fatto ad un frammento? Non so come ho fatto finora: io non conosco la mia storia, dato che non so leggere il Libro. Come potrei sapere quello che mi è successo finora? Non so i fatti, che sono quelli di cui parla il Libro, che ora è dentro il Maglione. Non conosco il mio passato sino a questo istante, perché da quando mi ricordo di esserci c'era la Finestra e io non ho fatto altro che copiare libri sul Libro. B-Dani ride nell'angolo della Stanza, con il Bastone nella mano. Ride e grida: non ti passa un attimo, stai di merda stasera e non ti passa un attimo. Poi mi corre addosso e comincia a prendermi a bastonate sulla schiena, continua a ridere e dice: che racconto del cazzo, che racconto del cazzo, che racconto del cazzo, poi mi rivolta e mi bastona sulla faccia dicendomi che sono preso male e si vede perché ho gli occhi rossi, e che tutto ciò che costruisco non serve a nulla. Tutto ciò che costruisci non serve a nulla, urla, perché Libro, Finestra, Maglione, B-Dani, Stanza, Bastone non hanno senso, non hanno necessità. Mi dice: Acqua, Mondo, Dio, Panno, Figlio, Errore, Solo, Rose, Stella, Sangue non hanno necessità. Oh no! Penso a lei che non saprà mai e a me che sono condannato a prendere l'iniziativa fiutando il momento per poi abbandonarla come un fantasma usato su questo pavimento, per sempre, lasciarla lì come una culla di cristallo fatta per contenere le mie gioie neonate e resta vuota. Su questo pavimento ora sono steso, e voglio guardare. Il Bastone di B-Dani si schianta regolarmente sul mio volto coprendomi la vista a intervalli identici, ma io voglio guardare. B-Dani ha la faccia coperta da un Panno ma si comporta come se vedesse e dice: dai Dio, Dio del cazzo. Solo. Sei solo. Devo impartirti questa lezione una volta per tutte. Non conosci il due, e non conosci il ventitré, né il tre, né il novantanove. Sai solo l'uno, siamo intesi? Solo l'uno. Sei Solo. Prendi questo, Dio-Figlio, Figliodinessuno! Ma, mentre mi picchia e urla, io tengo le maniche del Maglione strette nella mano destra, e guardo fisso fuori, oltre la finestra, vorrei urlare: dodici legioni di angeli! dodici legioni di angeli! se urlassi verrebbero, ma ho la bocca piena di Sangue. Semplicemente guardo fuori come se potessi vederli arrivare, ma vedo solo quel che c'è: c'è una Stella.

Salmo "Io pompo il dub"

Appena nasce la mattina e il sole sale sopra il cielo e mi chiama, allora io mi alzo, apro le finestre e accendo la mia grande radio. Signore, ascolta quaggiù, per prima cosa io apro le finestre e accendo la mia grande radio.

Appena nasce la mattina e a finestre spalancate accendo la mia grande radio, il dub sale sopra il cielo, e io faccio su il mio botto e il mio caffé. Guardo il dub salire sopra il cielo, potente come il cielo. Al mattino, seduto davanti alla finestra, col mio botto e il mio caffè e la mia grande radio accesa io pompo il dub. Signore, ascolta quaggiù. Signore, al mattino io pompo il dub.

Appena arriva il pomeriggio e il sole comincia a ricadere, il caldo fa diventare la città come l'inferno, e quei ratti, Signore, corrono nel fuoco, quei ratti, o mio Signore, corrono nel fuoco. Ma anche se il vento brucia e scortica il respiro, io tengo le finestre aperte, e col mio botto in mano alzo il volume alla mia grande radio. Signore, col mio botto in mano alzo il volume alla mia grande radio. Signore, ascolta quaggiù, per te io pompo il dub.

I palazzi sono tutti intorno alla mia casa nella città che tu hai dimenticato. Signore, è la città che tu hai dimenticato Il dub rimbalza da un muro sopra all'altro e riempie tutto fino al cielo azzurro. Signore, dalla mia casa io pompo il dub, ed esso riempie tutto fino al cielo azzurro. Signore al pomeriggio io pompo il dub.

La gente si affaccia alle finestre e dice: non lo puoi fare. La gente si affaccia alle finestre e dice: dovrà smettere. Puntano i loro fucili su di me. Anch'io, Signore, ho il mio fucile. E io sto là davanti a loro, con il mio botto in mano e il mio fucile, e pompo il dub. E io sto là davanti a loro, con il mio botto in mano e il mio fucile, e pompo il dub. Perché io so Signore, che a chi prende poi è tolto. Perché io so Signore, che a chi è tolto poi è reso.

E se anche mandi le tue nuvole, Signore, e la pioggia entra nella mia casa. E se anche mandi la tua grandine, Signore, e la grandine entra nella mia casa. Io sto con le finestre aperte e pompo il dub.

Quando il sole se ne va dietro i palazzi, e la notte scende sopra Babilonia io faccio su il mio botto e il mio caffè. Sto con il mio botto davanti alla finestra e ascolto il dub. Ogni tanto qualcuno si sveglia e urla dal terrazzo Dice che mi ucciderà, ma poi torna dentro e non si vede più. Solo, io sto con il mio botto davanti alla finestra e pompo il dub. Signore, ascolta quaggiù, per te io pompo il dub. Perché Signore la notte è cominciata e io pompo il dub. Perché Signore la notte è già finita e io ancora pompo il dub. In ogni modo, Signore. Io pompo il dub.