Massimo Wender e Luther Blisset

Luther Blissett č stato ucciso nel 2001, ma il suo fantasma vaga ancora nel mondo letterario.
luther.blissett@senzapaura.zzn.com

Massimo Wender non esiste al mondo. E'' un''entitā letteraria nata dalla fantasia di un ghost writer di Varese, e pertanto vaga sconfinato nell''infinito fra le lettere degli Url.
Un ringraziamento web al viandante che si ferma qui qualche istante per porgermi un lieve saluto.
massimo.wender@libero.it

L'inferno in volo sulla cittā

"Nessuno esiste,
siamo entitā del ricordo
e nel ricordo viviamo la nostra vita,
per quello che eravamo
e per quello che non siamo pių."

Massimo Wender

"Sono d'accordo con te, amico."

Luther Blissett

L'INFERNO SOTTO CASA MIA

Vivo in una villa bianca alle pendici del Vesuvio; ho sessantasette anni, sono pensionato da sei e vedovo da quattro. Ho tre gerani sul davanzale e li annaffio al levare ed al calare del sole. Fumo mezzo toscano al giorno, ma posso farne anche a meno se voglio. Mio figlio vive e lavora in Svizzera dove ha famiglia; viene a trovarmi circa tre volte all'anno e per me č pure troppo. C'č un ragazzo gių in paese che mi porta la spesa un giorno sė ed un giorno no; gli regalo ventimila lire a settimana, ma giurerei che non lo fa solo per i soldi. Non sono un uomo di compagnia, né ho grandi relazioni con i miei simili, ma a me non fa paura la solitudine, anche se a volte mi pare di sentire per casa ondularsi la voce della mia defunta consorte… ma poi penso: "Se abbiamo vissuto insieme per trentasette anni, qualche suono mi sarā pur rimasto all'interno del timpano!" Oltre a ciō la mia esistenza non offre tanto, ma se qualcuno venisse a farmi visita quassų, potrei raccontargli quello che accadde, soltanto a pochi metri da casa mia, circa un anno fa. Il sole non era ancora sorto e i miei gerani potevano aspettare ancora un poco, ma un incessante e monotono picconare mi destō dal sonno di sobbalzo. Chi c'era fuori, nel buio pesto di una notte nuvolosa, neppure lo immaginavo. I miei occhi attraverso l'imposta videro sagome indefinite accalcarsi intorno alla parete della roccia. Inforcai gli occhiali e quelle strane ombre mi apparvero pių visibili. Costatai che erano operai con tute luccicanti ed eseguivano lavori di scavo. Se si fosse trattato di alieni o di spettri orribili, non mi sarei preoccupato, ma giacché a rovinarmi la pace erano giunti uomini ed attrezzature, subito mi adoperai per capire quale nuovo interesse sociale attentava alla mia solitudine. Non feci in tempo a pensarci su e mi risvegliai mezzo intontito al suono del campanello. Mancava un quarto d'ora a mezzogiorno ed io ero ancora a letto. Feci entrare Enrico, posō sul tavolo la busta con la spesa, e saldato il conto ripartė col suo motorino. Non mi fece una sola domanda su quei dannati lā fuori che ancora mi tormentavano con il loro baccano. Indossai la vestaglia e dopo un sorso di caffč mi recai nei pressi del fosso. Tutto mi apparve pių chiaro. Sette erano gli uomini in tuta, quasi tutti accasciati vicino ai pilastri che reggevano una specie di architrave. Uno di loro, appena mi vide, si alzō in piedi e sussurrō qualcosa ad un uomo in camice bianco che prendeva appunti su un taccuino. Anche l'uomo in divisa mi osservō mentre mi avvicinavo. Non feci in tempo a chiedere cosa stesse succedendo che subito il militare si pose davanti a me con aria decisa. " Lei abita qui ?" Mi chiese. " Si, in questa villa." " Da quanto tempo ?" "Tre anni." Risposi seccato. " Mi scusi, ma potrei sapere cosa state facendo con quel marchingegno ?" "Studi sulla roccia." Mi disse bruscamente, poi con un tono fattosi improvvisamente gentile mi posō una mano sulla spalla ed accompagnandomi verso l'uscio mi sussurrō: "Non dia ascolto alle stupidaggini che di sicuro le racconteranno gių in paese. Sono le solite storielle che si inventa la stampa per riempire qualche colonna di giornale. Non ha alcun motivo per allarmarsi." Non dissi nulla. Quel tizio ignorava da quanto tempo non mi fermavo a parlare in paese, ma quella non chiesta precisazione fu un'autentica rivelazione di pericolo. Cosa stava per accadere? Mi chiedevo mentre friggevo i broccoli. Un'eruzione? Un terremoto? Non ci avrei pių pensato se durante il film del pomeriggio la faccia di Cary Grant non diventava improvvisamente verde a causa dei radiotelefoni che quelli, lė fuori usavano. Mi avvicinai al televisore e mi accorsi che potevo ascoltare le loro conversazioni da qualsiasi canale. "Profonditā 7metri. Temperatura costante. Coordinate 243. 522. Distanza dal punto LOAD 13,15. Passo." Le voci metalliche e i rumori di fondo mi impedirono di capire bene il contenuto dei loro strani discorsi, ma non mi fu difficile immaginare che qualcuno di loro si era calato nel cunicolo che avevano appena creato. Verso sera mentre mi cucinavo una minestra di verdure ebbi un'anomala percezione del silenzio. Anche se ero abituato alla quiete ed alla solitudine fui preso da un inspiegabile senso di lontananza. Intanto della pattuglia che stava lavorando fuori casa mia non udivo pių i mormorii o i martellamenti del ferro, o le spaccature della roccia. Dalla finestra vidi che vicino allo strano marchingegno non c'era rimasto nessuno, ma subito mi accorsi che a poca distanza era stata innalzata una tenda scura dalla quale trasparivano le ombre di due uomini, un tavolo, una fioca luce e del fumo. Uscito di casa mi accostai ad essa con tono guardingo, e da uno squarcio del telo vidi che all'interno l'uomo in camice bianco parlava ad un radiotelefono, mentre quello in divisa fumava nervosamente. Tornai in casa ed accesi la radio. Era proprio come pensavo! Potevo ascoltare tutto. Non compresi molto dei loro colloqui tecnici, ma qualcosa di importante cercavano proprio sotto casa mia. Mi accesi
un toscano e passeggiai nervosamente avanti e indietro nel mio soggiorno imitando in modo bizzarro il militare nella tenda. Mi venne in mente il giorno in cui nacque mio figlio. Fui preso dalla stesso, identico, inebriante desiderio d'attesa. Placato l'entusiasmo iniziale prestai attenzione alle loro conversazioni. "Mancano solo due metri al punto LOAD, ma qui il caldo comincia a farsi insopportabile. Qui sotto, noi tutti siamo convinti che si sia creata una vena di lava non registrata sulla mappa. Anche da sotto le rocce sottostanti avvertiamo movimenti sussultori e fragori di natura indecifrabile, passo." "Non dovete allarmarvi. Il calore che sentite non č di origine lavica. E' morfologicamente impossibile che il magma abbia raggiunto quella zona. In ogni caso non appena arrivati al punto LOAD prelevate la roccia e ritornate su. Dal comando č stato confermato l'ordine di annullare la fase 3, passo." " Professore, qui nessuno vuole continuare la missione. Qui sotto c'č qualcosa di molto strano. Chiediamo il permesso di annullare anche la fase 2, passo." "Alfa, ascolta, sono il maggiore Stanis, č impossibile annullare la fase 2. Non avete motivo di preoccuparvi. Ve lo avevano annunciato che laggių poteva anche fare caldo…poteva esserci del fuoco. Continuate! Continuate la missione. Non abbiate paura! Avete quelle fottute tute d'amianto addosso!" " E' impossibile scendere ancora, passo." " Cos'altro c'č adesso?" "Qui sotto c'č qualcosa. Le rocce diventano viola." "Prelevate! Prelevate i campioni adesso…passo." "Qui sotto c'č qualcosa di molto, molto strano." " Cosa c'č lā sotto! Cosa c'č?"
"Urla umane. Gemiti. Li udiamo dal profondo, qui sotto." "Cosa state blaterando! Imbecilli! Prelevate e salite su immediatamente!" "C'č qualcuno qui sotto che parlotta sottovoce." " Alfa, sono il professor Nari. Stammi a sentire. Non fatevi suggestionare. Quelli che sentite sono effetti sonori distorti dalle cavitā interne delle rocce. Sono solo spostamenti d'aria." "Qui sotto c'č qualcosa. Grida, lamenti, gemiti!" "Salite! Salite immediatamente. E' un ordine!" " Non si agiti anche lei, maggiore. Sono solo spaventati lė sotto. Non c'č alcun pericolo." "Salite immediatamente! Annullata fase 2, annullata fase 2!" "Alfa, mi senti? Passo." "Dio mio! Aiuto!" "Alfa, mi senti? Passo." "Alfa, mi senti? Passo." "Stanno uscendo!" "Alfa, cosa succede?" "Alfa, cosa sta succedendo?" "Demoni! Demoni! Demoni!" "Alfa, cosa succede? Passo." "Alfa, cosa succede? Passo." "Professore, allontaniamoci." "Cosa dice! Non possiamo abbandonarli. Alfa, mi senti? Passo!" "Alfa, mi senti? Passo." "Maggiore, non esca! Dove va?" "Alfa, mi senti? Passo. Alfa, cosa succede? Maggiore, chi c'č lā fuori? Cosa, sta uscendo? Cosa sono? Chi sono? Alfa, mi senti? Passo. Alfa, mi senti? Passo. Chi siete? Chi siete!"
La radio riprese a trasmettere canzoni classiche napoletane, ed io andai a spegnere il fuoco sotto alla pentola. La minestra era pronta. Alzai il volume della radio per non udire gli strilli atroci e gli strepiti strazianti che provenivano da fuori. Cenavo con lentezza gettando, di tanto in tanto, l'occhio verso la finestra, e per qualche istante osservai quelle vampate di fuoco, i brandelli di carne schizzare sul vetro, quei ghigni malefici, quegli occhi infernali, quelle presenze maligne agitarsi dietro alle mie tende. Mi lavai i denti. Dissi le mie preghiere serali ed andai a dormire.
L'indomani fui svegliato dal suono del campanello. Erano le sei e mezzo. Aperta la porta mi ritrovai dinanzi un uomo in divisa blu. A qualche metro da lui, fuori dal mio steccato, altri militari mi fissavano. "Buongiorno, signore." Mi disse. " Mi scusi se la disturbo a quest'ora del mattino, ma non abbiamo pių notizie di una spedizione scientifica inviata qui soltanto ieri. Lei sa darci qualche indicazione, per favore?" "Non so." Risposi. "Non so che dirle." " Lei che abita in questo luogo mi vuol far credere che non ha visto nessuno qui ieri?" Replicō. "Ho sentito solo dei rumori di piccone, ma non li ho visti. Neppure immaginavo che si trattava di una spedizione scientifica. Io penso che abbiano finito il loro lavoro e siano andati via." "D'accordo. La ringrazio per la collaborazione e mi scuso ancora per il fastidio." Diedi una rapida occhiata al vetro della mia finestra, alla zona del cunicolo, al posto della tenda. Non c'era una macchia di sangue. Nessuna traccia. Nulla di nulla. Ebbi soltanto un incubo? Rientrai in casa e da dietro la tenda vidi quell'uomo in uniforme allontanarsi dal mio ingresso, chiuse il cancello dello steccato e appena fuori gli altri militari lo seguirono a ruota, proprio come un cane fedele segue il suo amato padrone. Due si posero alla sua destra, e due alla sua sinistra. Affrontavano fieri il nuovo giorno che stava per nascere ed il sole pareva disegnare le loro ritte sagome sull'orizzonte lontano.
All'improvviso i cinque si bloccarono. Si innalzarono di circa un palmo dal suolo e si ribaltarono sottosopra volgendo le gambe all'aria. Con la testa penetrarono nelle viscere della terra riducendo in brandelli le dure rocce vulcaniche. In breve tempo il raffinato tessuto delle loro divise si mutō in una viscida pelle violacea, e li vidi dileguarsi del tutto solo quando le lucide, sottili e tremolanti code sparirono all'interno del terreno.
Vivo in una villa bianca alle pendici del Vesuvio; ho sessantasette anni, sono pensionato da sei e vedovo da quattro. Ho tre gerani sul davanzale e li annaffio al levare ed al calare del sole. Venni a vivere qui dopo la morte di mia moglie perché amo la tranquillitā, e in questo posto a dispetto di tutto, finalmente l'ho trovata.

 

FUORI DALLA CITTA'

Per due chilometri camminammo a piedi lungo la statale di notte. Tania, la mia ragazza, aveva una ferita profonda sulla gamba sinistra ed io me la trascinavo quasi, poggiata com'era sulla mia spalla. Dopo l'incidente lasciai l'auto sul ciglio della strada. Sull'asfalto umido e liscio un'improvvisa sferzata di vento mi aveva fatto perdere il controllo della vettura e in un attimo ci trovammo schiantati in un muro sull'altra parte della carreggiata. Il freddo quasi non ci scalfiva, e un'aria densa ci penetrava nelle narici dandoci ossigeno per andare avanti.
Sulla statale avvolta dall'oscuritā, tra le poche auto che scorrevano abbagliando con i fari i nostri occhi impauriti, nessuno si fermō. Eppure mi sbracciai cercando di rendermi visibile, ma fu tutto inutile. Dopo circa un'ora di cammino intravidi le luci di un centro abitato. Tania affannava ed aveva il viso pallido e sofferente. Ancora poche centinaia di metri ed avremmo avuto soccorso. Dopo aver vagato per la cittā deserta, stancamente illuminata dai lampioni notturni, ci perdemmo in vicoli stretti e bui; procedevo esamine in preda ad una strana sensazione di estraneitā nei confronti del mondo. Raggiungemmo una piazza molto ampia. Feci sedere Tania sopra una panchina del parco pubblico. Il gocciolare lento di una fontanella mi distolse dalle mie preoccupazioni. Impregnai d'acqua un pezzo di stoffa strappato dalla parte posteriore della mia giacca; pulėi la ferita di Tania che ormai sanguinava sempre meno, e lei finalmente si mostrō pių serena. Il suo sorriso lieve riaccese in me un barlume di speranza. La lasciai riposare su quella panchina e m'incamminai solitario lungo la piazza, imboccando il corso principale. Coi pugni in tasca e intirizzito dal pungente freddo che ormai m'attanagliava il corpo intero, affrontai il percorso deciso a porre fine alla nostra solitudine.
I miei piedi rigidi battevano forte sul suolo, il cui rumore echeggiava per i cortili ed i viali addormentati; mi arrestai. Urlai aiuto incalzando nuovamente il mio passo veloce, quindi mi fermai ad ascoltare. Il silenzio rimase immutato e da ogni parte mi sentivo come circondato da orsi in letargo nelle loro tane. Tornai da Tania. S'era addormentata poggiando il capo sulla sua stessa spalla. Le passai teneramente la mano fra i capelli e mi accorsi quanto fosse per me importante starle vicino. Con cautela la feci stendere per intero sulla panchina avvolgendola completamente nel suo cappotto. Mi tolsi anche la giacca e la raccolsi in maniera da farne un improbabile cuscino. All'improvviso mi voltai quasi d'istinto e vidi dietro me un uomo passarmi accanto tenendo un passo lungo e vigoroso. Neppure mi guardō, e continuō il suo cammino senza curarsi minimamente della nostra presenza, né della mia camicia macchiata di sangue. - Ehi, lei si fermi! - Gli urlai dietro. L'uomo proseguė per la sua strada con le mani in tasca ed il bavero alzato. - Mi dica dov'č la farmacia pių vicina! - Replicai. La sua sagoma che man mano andava scomparendo nella foschėa mi parve in quella circostanza, il simbolo pių alto dell'indifferenza umana. Fui colto da un improvviso torpore. Mi accovacciai accanto a Tania e cercai di prendere sonno. Il sole pallido del mattino risuonō la campana di un nuovo giorno. Aprėi gli occhi lentamente; un gatto bianco seduto dinanzi a me mi fissava intensamente. Probabilmente gli avevamo rubato il suo giaciglio notturno. Tesi una mano per accarezzarlo ma di scatto fuggė. Un vecchio portone in legno s'aprė alle nostre spalle; un uomo anziano con un cartoccio fra le mani uscė e guardō il cielo terso. Fece cadere sul marciapiede accanto alla porta le rimanenze di un pasto, ed il gatto bianco corse subito a rovistarci dentro. Mi alzai indolenzito dalla panchina e mi stiracchiai il corpo. Tania dormiva ancora e dallo sguardo disteso che aveva compresi che era presa da una piacevole sensazione onirica. Aveva le mani giunte sotto la guancia e di tanto in tanto si dimenava per cercare una posizione migliore. Mi avvicinai all'anziano signore per chiedergli dove avrei potuto trovare un medico, ma l'uomo cominciō a percorrere un viale e neppure si curō della mia vicicnanza. Rimasi perplesso ed anche stizzito per quel gesto d'indifferenza. Il mio rancore divenne angoscia quando mi resi conto che per quante persone interpellassi, non avevo mai una risposta né uno sguardo di cognizione. Mi sentėi come sperduto in una cittā aliena, vittima di un inspiegabile incantesimo. Incontrai gli occhi smarriti di Tania appena destatasi dal sonno. Si tastava la gamba sinistra, e mi osservava con un sentimento misto di stupore e paura: la sua ferita non c'era pių. Forse proprio in quel momento cominciammo a comprendere il significato di tutto questo. Ritornammo a piedi, abbracciati e attoniti, percorrendo la strada che ci separava dal luogo dell'incidente ormai noncuranti delle auto veloci che ci sfrecciavano attorno. Da lontano vedemmo nei pressi della mia auto distrutta e ancora schiantata nel muro, un nugolo di gente che guardava impietosita. Passammo fra loro e ci fermammo anche noi lė, osservando i nostri corpi riversi sull'asfalto che la polizia stradale aveva estratto dalle lamiere, e solo allora ricordammo l'ultimo istante delle nostre vite, inquietati, nell'attesa di quello che dovrā accadere adesso.

 

IL VOLO GREZZO

Io lo so che mio padre č sulla stazione orbitante giā da qualche anno. Dentro a una cornice sulla scrivania ho una sua foto che fece assieme ai suoi compagni fuori alla navicella prima di partire. Leonardo la mia tartaruga ci passa sempre davanti. La nonna (ma sarā mia nonna lei?) mi spia da dietro la porta della mia stanzetta per vedere se faccio i compiti. Č quasi notte e cominciano a spuntare le stelle. Esco fuori al balcone e guardo in alto sperando di cogliere in un angolo di cielo quel rottame volante.
Prima di addormentarmi seduta al ciglio del mio letto c'č mia madre che mi narra di avventure cosmiche muovendo nell'aria il modellino dello shuttle col quale mio padre partė. Dice che per la mia prima comunione me ne regalerā uno ancora pių bello. Io faccio finta di sorridere. Appena chiudo gli occhi lei mi dā un bacio sulla fronte e poi esce dalla stanza. Luce spenta, occhi aperti; i miei occhi si riaprono e sognano che proprio domani ritorna papā.

In biblioteca ho trovato importanti compendi su come si pianificano i voli spaziali. Adesso che frequento il primo anno di ingegneria giā penso a quando seguirō i corsi per il piano di studi aerospaziale. L'ente spaziale nazionale non ha fatto ancora atterrare mio padre ed io ho deciso, una volta pronto, di andare lassų da lui. Leonardo passeggia sul pavimento della mia stanza e immagino che sia d'accordo con me. Fra cinque anni avrō la mia laurea e potrō navigare nello spazio. A letto adesso mia madre osserva i miei occhi tristi
liquidi
smarriti
In un angolo del soffitto;
e asciuga le lacrime che talvolta mi sfuggono dagli occhi e accarezza le mie labbra che inesorabilmente sussurrano: "quando torna papā." Il modellino dello shuttle ora č pieno di polvere, abbandonato sopra alla mensola e mia nonna (forse nonna) pur guardando dalla fessura della porta evita almeno di farsi vedere.

La foto di mio padre sulla mia scrivania. Č bello e sorridente nella sua tuta spaziale al fianco dei suoi colleghi astronauti. Si dice che nello spazio il tempo passi pių lentamente. Chissā che ritornando non scenda giovane quanto allora.
Con lui che mi guarda le formule da studiare diventano pių semplici. Tra qualche mese discuterō la mia tesi di laurea.

Per rilassarmi stasera mi sono steso sul letto e sto pensando al niente.
Mancano solo tre settimane alla seduta di laurea e non riesco a dominare un certo nervosismo. Vorrei che fosse semplice, vorrei che fosse come voglio, vorrei che fosse subito.
La porta della mia stanza si apre. Entra mia madre con un passo deciso, rivestita di una tuta spaziale bianca come quella che indossava mio padre; ha il volto pallido: troppo pallido: sembra incipriato. Gli occhi terribilmente stanchi.
"Hanno dei problemi lassų, tesoro, bisogna che io vada ad aiutarli." Senza parole sono rimasto lė. Un bacio sulla fronte e lei uscė dalla stanza. Mia nonna (ma comincio ad avere forti dubbi che lo sia davvero) mi gettō un'occhiata e chiuse subito.

Da quella sera mia madre non viene pių accanto al mio letto. Per non pensare a lei sollevo Leonardo da terra, me lo appoggio sul petto e accarezzo il suo guscio massiccio, e penso che manca davvero poco, e non mi vien pių voglia di piangere.

Tornando a casa quel pomeriggio trovai sulla mia scrivania la foto incorniciata con mia madre a fianco di mio padre e i suoi colleghi. Sembrava pių felice ora che anche lei era lassų. E io fra sei giorni darō l'esame di laurea: "Leonardo? Leonardo? Dove sei? "

Per quel lungo corridoio silenzioso che portava al reparto voli dell'ente spaziale nazionale, si sentiva solo il rumore sordo dei miei passi. Trovai la stanza, entrai: un uomo seduto a una reception alzō lo sguardo.
"questa č la mia laurea in ingegneria aerospaziale, fatemi partire immediatamente."
"chi l'ha autorizzata ad entrare?"
" mio padre e mia madre stanno lassų, voglio andare da loro."
"non č una gita di piacere; non posso autorizzare un volo fuori programma."
"sa da quanti anni non vedo mio padre?"
Si avvicinō un tipo calvo, dall'aspetto austero.
"ci sono problemi? Chi č questo giovanotto?"
"dice che i suoi genitori sono lassų."
"questa č la mia laurea, signore, mi faccia partire."
"faccia vedere…ottimo punteggio, davvero…ma per ora non se ne parla nemmeno, lei č troppo giovane per partire."
"e quanto tempo devo aspettare?"
"rimanga il suo nominativo qui, saremo noi a chiamarla."
"Se non mi mandate voi lassų io ci andrō da solo."
" non faccia sciocchezze, attenda il suo turno."
"questo mai, andate al diavolo!"

tornando a casa sono passato da uno sfasciacarrozze ed ho rimediato qualche lamiera ancora utile a finalizzare il mio progetto. E il mio progetto adesso sta su un foglio abbozzato con formule e traiettorie, sopra un tavolino a tre piedi accanto a me, qui, nel giardino di casa mia, e comincio a costruirmi le pareti d'acciao che formeranno la fusoliera. Una lumaca passeggia sulla mia chiave inglese, aspetto che scenda.
Quell'anziana donna che (ormai sono quasi convinto) si spaccia per mia nonna mi osserva furtivamente attraverso le tendine del soggiorno.
Ho quasi terminato la capsula interna per il volo orbitante, e sul prato non trovo pių Leonardo.
Leonardo, esci subito dall'abitacolo o ti metto a pancia all'aria!
Prima di stasera forse avrō finito, e potrō anche partire. Mi occorre propellente, tanto propellente per generare un'energia che mi consenta di sollevarmi oltre l'atmosfera.
I miei calcoli sembrano privi d'errore.
Stasera parto.
Stasera č adesso,
E sono pieno di sudore e di lubrificanti, ma ancora carico d'energie. I miei genitori sono lassų,
a qualche chilometro di distanza in linea verticale; e dovrei farcela in due ore.
Leonardo adesso ti porto in camera mia e ti chiudo a chiave!
Eccomi davanti al mio risultato. Una navicella alta poco pių di due metri.
Accendo la miccia della mia capsula. Entro e chiudo…ma quanto fumo,
ma tanto fumo. Spero di non fare troppi danni in giardino.
Forse sarō giā di ritorno per domani, fra 26 ore circa.

Adesso qui tutto mi č chiaro. Da quassų č un'altra cosa. Mi mancano le parole e posso vedere tutto. Mia nonna? No! Č la madre della prima moglie di mio padre…che chiude la porta
della mia stanza vuota e Leonardo passeggia sulla mia scrivania, dove nella foto incorniciata accanto a mio padre e mia madre, adesso ci sono anch'io.