Rossella Pirillo

sono insegnante del metodo feldenkrais ed ho da sempre il sogno di scrivere. Sono stata una lettrice onnivora e passionale. Sento che ho qualcosa da dare e che sarò pronta tra un po'.

Facciamola finita

Era giunto il momento. Si accorse che la stava assalendo un senso di trionfo che non aveva provato da anni, tanti anni. Sollevò la siringa, sciolse il laccio, sparò.

Il tempo di un respiro ed un rumore più forte del terremoto, dell'eruzione di un vulcano….

- Commissario, una telefonata anonima: un cadavere ai giardini della zona est. Chi mandiamo? - Vada Lei Esposito, mi faccia questo piacere…

Esposito già sapeva che si trattava di una donna, e quasi sicuramente suicida. La voce a telefono aveva specificato che c'era una lettera vicino al corpo. Quella voce doveva averla letta, perché ne aveva sottolineata l'importanza di prova. Il tono vagamente scandalizzato suggeriva anche che la riteneva comunque insultante per il senso comune, cioè il suo.

Esposito non si lanciava mai in congetture o deduzioni; seguiva i casi con tenacia e questi gli si snodavano davanti fino alle conclusioni, in genere senza che lui facesse molto, ed ogni tanto si sentiva male.

Si fece accompagnare sul posto.

Erano le dieci di mattina,pioveva e ai giardini non c'era nessuno. Il corpo era appoggiato al tronco di un albero. Era troppo bianco, troppo fermo, troppo poco coperto anche per un drogato.

La lettera, la famosa lettera, era appoggiata sul petto della ragazza, aperta. Era solo umida…la voce l'aveva messa al riparo. Esposito la prese. Aspettando l'ambulanza che sarebbe dovuta arrivare da un momento all'altro, cominciò a leggere…

"se a qualcuno interessa questo è il primo buco da sei anni, e sarà l'ultimo. Questa realtà stretta non ha un lavoro per me, non ha una casa, non ha un piccolo amore…

Esposito non finì di leggere. Non seppe mai spiegare come, rientrò in sè solo dopo il rumore, più forte del tuono, più forte dell'eruzione di un vulcano.

Fissò la pistola di ordinanza fumante, spostò lo sguardo sul corpo. Niente era cambiato, solo un buco in più. In fronte.

 

Naturale 

Vivevo sola, ma non mi pesava. Mi ero ben organizzata: avevo un bell'appartamento in centro, ben esposto, con luce naturale tutto il giorno. Il mio lavoro, con i bambini, mi piaceva.

Avevo i miei rituali giornalieri, le piccole necessarie gratificazioni e per la prima volta godevo in pieno la mia autosufficienza. Dopo molte vicissitudini avevo deciso che mi piacevo, di conseguenza stavo bene con me. Forse però stavo bluffando su qualcosa perché, anche se me ne andavo in giro tutta allegra e saltellante, mi ero in realtà creata un surrogato di compagnia, delle presenze: le piante. Impossibile fallire con le piante d'appartamento, anche gli amici maschi che vivevano soli avevano gradevoli angoli verdi, terrazzi lussureggianti, balconi fioriti. Io ne apprezzavo molto la funzione di arredamento e, per essere onesta, erano un alibi per non sentirmi mai completamente sola.

Una bella composizione mi accoglieva nell'ingresso: una palma, un cactus e una capelvenere su un piccolo tavolino; dietro c'era lo specchio che ne raddoppiava il colpo d'occhio. Poi due aspidistre, due grandi papiri e vari gerani sul balcone della veranda. E così, appena entrata, avevo subito qualcosa a cui ancorarmi. Poi altre in salotto, sul balcone, in terrazza. Proprio in salotto c'era un photos rampicante che era il mio orgoglio, in un grande vaso di vetro pieno di acqua. Lo chiamavo "la bestia" perché cresceva velocemente e le sue foglie erano lucide e carnose. Insomma mi piaceva vederle crescere, le volevo rigogliose. Per questo, ogni quindici giorni, davo loro del sangue di bue. Ogni sera, dopo il tramonto, c'era il rito dell'innaffiatura. Era una necessità… ed era quotidiana. Io cercavo di viverla come tale, in modo che mi attaccasse alla giostra del giorno dopo un altro. E non sopportavo fallimenti, le piante facevano parte della casa, quindi di me, per cui dovevano dimostrare convinzione e vitalità. Anzi: energia è la parola adatta. Ed in effetti c'era di che essere fieri. Poi venne l'estate. Torrida. Era diventato più che mai essenziale tornare a casa per dar da bere alle assetate. Le piante grasse mi davano un po' più di respiro. I gerani, le azalee, i papiri, i photos, invece, esigevano il dovuto. Un fine settimana, il primo di un caldo luglio, andai al mare. Non avevo niente di particolare da fare, gli amici andavano ed io ne avevo proprio voglia. Chiusi la porta di casa su tutti i miei dubbi e vissi beatamente quel fine settimana. Ma in città il caldo era stato troppo. Aprendo la porta di casa vidi subito la piccola capelvenere: sembrava un cespuglietto di patatine fritte. E come un piatto di patatine fritte mi dette una spiacevole fitta al fegato. Le altre piante avevano reclinato le foglie in una disperata richiesta: acqua.

Per la prima volta percepii con fastidio la loro dipendenza da me.

Non avevo tenuto fede all'impegno preso con loro e ora mi facevano sentire in colpa. Dopo averle innaffiate abbondantemente presi, con distacco, la piccola capelvenere e la buttai nella spazzatura. Mi sembrò che avvizzisse ancora di più e mi immaginai perfino di sentire un ultimo flebile grido.

Quella sera cenai sola, tanto per riprendere contatto con la mia realtà, la casa. Poi uscii. Gli amici mi facevano sentire bene. Erano vicini ma non invadenti. Comunque fu una bella serata. Rientrando detti un'occhiata sfuggente alle piante, andai in bagno e mi coricai. Come sempre, prima di addormentarmi, mi misi a leggere. La sera mi piacevano cose disimpegnate: gialli, fumetti, così, tanto per conciliare il sonno. Stavo quasi per spengere la luce quando sentii una voce, della musica. Passato il primo attimo di paura realizzai che doveva essere la televisione, ma non da un altro appartamento, era la mia. Con un passo avanti e uno indietro andai in sala. Era proprio la mia televisione. Capii subito come era andata, un po' con sollievo, un po' con stupore: il piccolo photos era avvinghiato al pulsante dell'accensione. Districai il piccolo ributto (non l'avevo notato il pomeriggio) e spensi la televisione. Cercai solo di rallegrarmi per la veloce crescita e tornai a letto. Stavo di nuovo addormentandomi quando un altro rumore mi fece sobbalzare. Questa volta era di cocci, vetri rotti. Il solito photos (ma cresceva a vista d'occhio?) si era aggrappato alla maniglia della porta ed aveva rovesciato il vaso dell'acqua, che era andato in frantumi. Questo non era un caso. Cosa poteva essere? Una ribellione passiva o un teatrale tentativo di suicidio? Ottusamente non pensai che era stato messo in atto proprio quando potevo sentirlo. Infatti anche quella volta non mi preoccupai eccessivamente. Raccolsi i cocci, asciugai l'acqua. Con il dovuto rispetto presi il tralcio e lo misi in un altro vaso. Per un'abitudine più forte del buonsenso, non cambiai di posto alla pianta, come tutti sanno, una delle condizioni per far crescere bene una pianta è non spostarla. E questo fu l'inizio della fine. Di nuovo tornai a letto: di nuovo fui svegliata da un rumore assordante: la tv. Era di nuovo accesa, e questa volta il volume era al massimo. Veloce come un fulmine ( i miei vicini erano abbastanza intolleranti per il rumore, ed in effetti erano le due di notte) spensi di nuovo la tele. Questa volta dovevo trovare un'altra sistemazione per il photos ribelle. Pensavo che potevo chiuderlo fuori, sul terrazzo. Con il vaso del photos in mano mi avvicinai all'ingresso dove era la porta finestra che dava sul terrazzo. Notai subito che era successo qualcosa anche ai papiri. Erano notevolmente più grandi. Le foglie erano spesse, lucide. Sembravano più folte e sembrava anche che stessero coprendo la maniglia della porta. Mentre notavo questo sentii uno strano contatto sui polsi. Il photos mi stava toccando. Anzi, mi stava legando le mani. Ecco, cominciavo a capire. Il tralcio dai polsi saliva agli avambracci. Nello stesso momento qualcosa della pianta si trasmetteva a me. Non era una minaccia e nemmeno qualcosa di carnale. Avrebbe potuto esserlo, ma il mio tradimento aveva irrimediabilmente compromesso tutto. Ero ormai impietrita nell'ingresso. Mi sembrava che i papiri avessero rivolto ancora di più la loro attenzione a me ed avessero lasciato perdere la maniglia, non dovevano più impedirmi la fuga. Ed io, in un improvviso satori, non l'avrei più cercata.

E la comunicazione cominciò "hai creato un falso mondo. Hai fatto scorrere un tempo diverso da quello delle stagioni, della luce e del buio, ci hai impedito di crescere liberamente, di moltiplicarci, amare, morire. Un po' d'acqua la sera ed in cambio hai preso tutto di noi. E nel tuo pazzo orgoglio pretendevi che la nostra energia crescesse, per la tua gloria. Piccola dea di questa misera giungla. Tu lo sapevi che nonostante il tuo modo malato d'amare qualcosa era nato fra noi, accettavamo i tuoi sbagli, la tua insensibilità ignorante. Avremmo preferito lasciarci morire, come ha fatto "lei", se almeno il tuo amore fosse stato vero anche solo in quel quarto d'ora ed in quel po' d'acqua. Ma il tempo del tuo egoismo è stato troppo più importante dei poveri esseri che dipendevano in tutto da te, come tu avevi voluto."

Quella strana sensazione di freddo, di pesantezza. Gli impulsi del mio cervello si perdevano non so dove. Percepivo solo un debole chiarore, forse la luna dalla veranda. Non sentivo più braccia, più piedi, più bocca, più naso. Solo sensazioni diffuse su una superficie che non era più la mia pelle.

Era tardi anche per il dolore della coscienza di aver appena sfiorato con una parte periferica e non curante quella porzione di realtà, della mia realtà quotidiana, per ottusa superficialità, senza vedere l'oceano che c'era sotto, pacifico, quieto, ma non per questo meno terribile.

Credo che con la forza della disperazione riuscii ad emettere un flebile grido che si spense debolmente e lentamente, riportandomi alla beffarda sensazione di impotenza che aveva sempre covato nel fondo della mia futile esistenza.

Chi ci darà un po' d'acqua stasera?

Vivevo sola, ma non mi pesava. Mi ero ben organizzata: avevo un bell'appartamento in centro, ben esposto, con luce naturale tutto il giorno. Il mio lavoro, con i bambini, mi piaceva.

Avevo i miei rituali giornalieri, le piccole necessarie gratificazioni e per la prima volta godevo in pieno la mia autosufficienza. Dopo molte vicissitudini avevo deciso che mi piacevo, di conseguenza stavo bene con me. Forse però stavo bluffando su qualcosa perché, anche se me ne andavo in giro tutta allegra e saltellante, mi ero in realtà creata un surrogato di compagnia, delle presenze: le piante. Impossibile fallire con le piante d'appartamento, anche gli amici maschi che vivevano soli avevano gradevoli angoli verdi, terrazzi lussureggianti, balconi fioriti. Io ne apprezzavo molto la funzione di arredamento e, per essere onesta, erano un alibi per non sentirmi mai completamente sola.

Una bella composizione mi accoglieva nell'ingresso: una palma, un cactus e una capelvenere su un piccolo tavolino; dietro c'era lo specchio che ne raddoppiava il colpo d'occhio. Poi due aspidistre, due grandi papiri e vari gerani sul balcone della veranda. E così, appena entrata, avevo subito qualcosa a cui ancorarmi. Poi altre in salotto, sul balcone, in terrazza. Proprio in salotto c'era un photos rampicante che era il mio orgoglio, in un grande vaso di vetro pieno di acqua. Lo chiamavo "la bestia" perché cresceva velocemente e le sue foglie erano lucide e carnose. Insomma mi piaceva vederle crescere, le volevo rigogliose. Per questo, ogni quindici giorni, davo loro del sangue di bue. Ogni sera, dopo il tramonto, c'era il rito dell'innaffiatura. Era una necessità… ed era quotidiana. Io cercavo di viverla come tale, in modo che mi attaccasse alla giostra del giorno dopo un altro. E non sopportavo fallimenti, le piante facevano parte della casa, quindi di me, per cui dovevano dimostrare convinzione e vitalità. Anzi: energia è la parola adatta. Ed in effetti c'era di che essere fieri. Poi venne l'estate. Torrida. Era diventato più che mai essenziale tornare a casa per dar da bere alle assetate. Le piante grasse mi davano un po' più di respiro. I gerani, le azalee, i papiri, i photos, invece, esigevano il dovuto. Un fine settimana, il primo di un caldo luglio, andai al mare. Non avevo niente di particolare da fare, gli amici andavano ed io ne avevo proprio voglia. Chiusi la porta di casa su tutti i miei dubbi e vissi beatamente quel fine settimana. Ma in città il caldo era stato troppo. Aprendo la porta di casa vidi subito la piccola capelvenere: sembrava un cespuglietto di patatine fritte. E come un piatto di patatine fritte mi dette una spiacevole fitta al fegato. Le altre piante avevano reclinato le foglie in una disperata richiesta: acqua.

Per la prima volta percepii con fastidio la loro dipendenza da me.

Non avevo tenuto fede all'impegno preso con loro e ora mi facevano sentire in colpa. Dopo averle innaffiate abbondantemente presi, con distacco, la piccola capelvenere e la buttai nella spazzatura. Mi sembrò che avvizzisse ancora di più e mi immaginai perfino di sentire un ultimo flebile grido.

Quella sera cenai sola, tanto per riprendere contatto con la mia realtà, la casa. Poi uscii. Gli amici mi facevano sentire bene. Erano vicini ma non invadenti. Comunque fu una bella serata. Rientrando detti un'occhiata sfuggente alle piante, andai in bagno e mi coricai. Come sempre, prima di addormentarmi, mi misi a leggere. La sera mi piacevano cose disimpegnate: gialli, fumetti, così, tanto per conciliare il sonno. Stavo quasi per spengere la luce quando sentii una voce, della musica. Passato il primo attimo di paura realizzai che doveva essere la televisione, ma non da un altro appartamento, era la mia. Con un passo avanti e uno indietro andai in sala. Era proprio la mia televisione. Capii subito come era andata, un po' con sollievo, un po' con stupore: il piccolo photos era avvinghiato al pulsante dell'accensione. Districai il piccolo ributto (non l'avevo notato il pomeriggio) e spensi la televisione. Cercai solo di rallegrarmi per la veloce crescita e tornai a letto. Stavo di nuovo addormentandomi quando un altro rumore mi fece sobbalzare. Questa volta era di cocci, vetri rotti. Il solito photos (ma cresceva a vista d'occhio?) si era aggrappato alla maniglia della porta ed aveva rovesciato il vaso dell'acqua, che era andato in frantumi. Questo non era un caso. Cosa poteva essere? Una ribellione passiva o un teatrale tentativo di suicidio? Ottusamente non pensai che era stato messo in atto proprio quando potevo sentirlo. Infatti anche quella volta non mi preoccupai eccessivamente. Raccolsi i cocci, asciugai l'acqua. Con il dovuto rispetto presi il tralcio e lo misi in un altro vaso. Per un'abitudine più forte del buonsenso, non cambiai di posto alla pianta, come tutti sanno, una delle condizioni per far crescere bene una pianta è non spostarla. E questo fu l'inizio della fine. Di nuovo tornai a letto: di nuovo fui svegliata da un rumore assordante: la tv. Era di nuovo accesa, e questa volta il volume era al massimo. Veloce come un fulmine ( i miei vicini erano abbastanza intolleranti per il rumore, ed in effetti erano le due di notte) spensi di nuovo la tele. Questa volta dovevo trovare un'altra sistemazione per il photos ribelle. Pensavo che potevo chiuderlo fuori, sul terrazzo. Con il vaso del photos in mano mi avvicinai all'ingresso dove era la porta finestra che dava sul terrazzo. Notai subito che era successo qualcosa anche ai papiri. Erano notevolmente più grandi. Le foglie erano spesse, lucide. Sembravano più folte e sembrava anche che stessero coprendo la maniglia della porta. Mentre notavo questo sentii uno strano contatto sui polsi. Il photos mi stava toccando. Anzi, mi stava legando le mani. Ecco, cominciavo a capire. Il tralcio dai polsi saliva agli avambracci. Nello stesso momento qualcosa della pianta si trasmetteva a me. Non era una minaccia e nemmeno qualcosa di carnale. Avrebbe potuto esserlo, ma il mio tradimento aveva irrimediabilmente compromesso tutto. Ero ormai impietrita nell'ingresso. Mi sembrava che i papiri avessero rivolto ancora di più la loro attenzione a me ed avessero lasciato perdere la maniglia, non dovevano più impedirmi la fuga. Ed io, in un improvviso satori, non l'avrei più cercata.

E la comunicazione cominciò "hai creato un falso mondo. Hai fatto scorrere un tempo diverso da quello delle stagioni, della luce e del buio, ci hai impedito di crescere liberamente, di moltiplicarci, amare, morire. Un po' d'acqua la sera ed in cambio hai preso tutto di noi. E nel tuo pazzo orgoglio pretendevi che la nostra energia crescesse, per la tua gloria. Piccola dea di questa misera giungla. Tu lo sapevi che nonostante il tuo modo malato d'amare qualcosa era nato fra noi, accettavamo i tuoi sbagli, la tua insensibilità ignorante. Avremmo preferito lasciarci morire, come ha fatto "lei", se almeno il tuo amore fosse stato vero anche solo in quel quarto d'ora ed in quel po' d'acqua. Ma il tempo del tuo egoismo è stato troppo più importante dei poveri esseri che dipendevano in tutto da te, come tu avevi voluto."

Quella strana sensazione di freddo, di pesantezza. Gli impulsi del mio cervello si perdevano non so dove. Percepivo solo un debole chiarore, forse la luna dalla veranda. Non sentivo più braccia, più piedi, più bocca, più naso. Solo sensazioni diffuse su una superficie che non era più la mia pelle.

Era tardi anche per il dolore della coscienza di aver appena sfiorato con una parte periferica e non curante quella porzione di realtà, della mia realtà quotidiana, per ottusa superficialità, senza vedere l'oceano che c'era sotto, pacifico, quieto, ma non per questo meno terribile.

Credo che con la forza della disperazione riuscii ad emettere un flebile grido che si spense debolmente e lentamente, riportandomi alla beffarda sensazione di impotenza che aveva sempre covato nel fondo della mia futile esistenza.

Chi ci darà un po' d'acqua stasera?

Vivevo sola, ma non mi pesava. Mi ero ben organizzata: avevo un bell'appartamento in centro, ben esposto, con luce naturale tutto il giorno. Il mio lavoro, con i bambini, mi piaceva.

Avevo i miei rituali giornalieri, le piccole necessarie gratificazioni e per la prima volta godevo in pieno la mia autosufficienza. Dopo molte vicissitudini avevo deciso che mi piacevo, di conseguenza stavo bene con me. Forse però stavo bluffando su qualcosa perché, anche se me ne andavo in giro tutta allegra e saltellante, mi ero in realtà creata un surrogato di compagnia, delle presenze: le piante. Impossibile fallire con le piante d'appartamento, anche gli amici maschi che vivevano soli avevano gradevoli angoli verdi, terrazzi lussureggianti, balconi fioriti. Io ne apprezzavo molto la funzione di arredamento e, per essere onesta, erano un alibi per non sentirmi mai completamente sola.

Una bella composizione mi accoglieva nell'ingresso: una palma, un cactus e una capelvenere su un piccolo tavolino; dietro c'era lo specchio che ne raddoppiava il colpo d'occhio. Poi due aspidistre, due grandi papiri e vari gerani sul balcone della veranda. E così, appena entrata, avevo subito qualcosa a cui ancorarmi. Poi altre in salotto, sul balcone, in terrazza. Proprio in salotto c'era un photos rampicante che era il mio orgoglio, in un grande vaso di vetro pieno di acqua. Lo chiamavo "la bestia" perché cresceva velocemente e le sue foglie erano lucide e carnose. Insomma mi piaceva vederle crescere, le volevo rigogliose. Per questo, ogni quindici giorni, davo loro del sangue di bue. Ogni sera, dopo il tramonto, c'era il rito dell'innaffiatura. Era una necessità… ed era quotidiana. Io cercavo di viverla come tale, in modo che mi attaccasse alla giostra del giorno dopo un altro. E non sopportavo fallimenti, le piante facevano parte della casa, quindi di me, per cui dovevano dimostrare convinzione e vitalità. Anzi: energia è la parola adatta. Ed in effetti c'era di che essere fieri. Poi venne l'estate. Torrida. Era diventato più che mai essenziale tornare a casa per dar da bere alle assetate. Le piante grasse mi davano un po' più di respiro. I gerani, le azalee, i papiri, i photos, invece, esigevano il dovuto. Un fine settimana, il primo di un caldo luglio, andai al mare. Non avevo niente di particolare da fare, gli amici andavano ed io ne avevo proprio voglia. Chiusi la porta di casa su tutti i miei dubbi e vissi beatamente quel fine settimana. Ma in città il caldo era stato troppo. Aprendo la porta di casa vidi subito la piccola capelvenere: sembrava un cespuglietto di patatine fritte. E come un piatto di patatine fritte mi dette una spiacevole fitta al fegato. Le altre piante avevano reclinato le foglie in una disperata richiesta: acqua.

Per la prima volta percepii con fastidio la loro dipendenza da me.

Non avevo tenuto fede all'impegno preso con loro e ora mi facevano sentire in colpa. Dopo averle innaffiate abbondantemente presi, con distacco, la piccola capelvenere e la buttai nella spazzatura. Mi sembrò che avvizzisse ancora di più e mi immaginai perfino di sentire un ultimo flebile grido.

Quella sera cenai sola, tanto per riprendere contatto con la mia realtà, la casa. Poi uscii. Gli amici mi facevano sentire bene. Erano vicini ma non invadenti. Comunque fu una bella serata. Rientrando detti un'occhiata sfuggente alle piante, andai in bagno e mi coricai. Come sempre, prima di addormentarmi, mi misi a leggere. La sera mi piacevano cose disimpegnate: gialli, fumetti, così, tanto per conciliare il sonno. Stavo quasi per spengere la luce quando sentii una voce, della musica. Passato il primo attimo di paura realizzai che doveva essere la televisione, ma non da un altro appartamento, era la mia. Con un passo avanti e uno indietro andai in sala. Era proprio la mia televisione. Capii subito come era andata, un po' con sollievo, un po' con stupore: il piccolo photos era avvinghiato al pulsante dell'accensione. Districai il piccolo ributto (non l'avevo notato il pomeriggio) e spensi la televisione. Cercai solo di rallegrarmi per la veloce crescita e tornai a letto. Stavo di nuovo addormentandomi quando un altro rumore mi fece sobbalzare. Questa volta era di cocci, vetri rotti. Il solito photos (ma cresceva a vista d'occhio?) si era aggrappato alla maniglia della porta ed aveva rovesciato il vaso dell'acqua, che era andato in frantumi. Questo non era un caso. Cosa poteva essere? Una ribellione passiva o un teatrale tentativo di suicidio? Ottusamente non pensai che era stato messo in atto proprio quando potevo sentirlo. Infatti anche quella volta non mi preoccupai eccessivamente. Raccolsi i cocci, asciugai l'acqua. Con il dovuto rispetto presi il tralcio e lo misi in un altro vaso. Per un'abitudine più forte del buonsenso, non cambiai di posto alla pianta, come tutti sanno, una delle condizioni per far crescere bene una pianta è non spostarla. E questo fu l'inizio della fine. Di nuovo tornai a letto: di nuovo fui svegliata da un rumore assordante: la tv. Era di nuovo accesa, e questa volta il volume era al massimo. Veloce come un fulmine ( i miei vicini erano abbastanza intolleranti per il rumore, ed in effetti erano le due di notte) spensi di nuovo la tele. Questa volta dovevo trovare un'altra sistemazione per il photos ribelle. Pensavo che potevo chiuderlo fuori, sul terrazzo. Con il vaso del photos in mano mi avvicinai all'ingresso dove era la porta finestra che dava sul terrazzo. Notai subito che era successo qualcosa anche ai papiri. Erano notevolmente più grandi. Le foglie erano spesse, lucide. Sembravano più folte e sembrava anche che stessero coprendo la maniglia della porta. Mentre notavo questo sentii uno strano contatto sui polsi. Il photos mi stava toccando. Anzi, mi stava legando le mani. Ecco, cominciavo a capire. Il tralcio dai polsi saliva agli avambracci. Nello stesso momento qualcosa della pianta si trasmetteva a me. Non era una minaccia e nemmeno qualcosa di carnale. Avrebbe potuto esserlo, ma il mio tradimento aveva irrimediabilmente compromesso tutto. Ero ormai impietrita nell'ingresso. Mi sembrava che i papiri avessero rivolto ancora di più la loro attenzione a me ed avessero lasciato perdere la maniglia, non dovevano più impedirmi la fuga. Ed io, in un improvviso satori, non l'avrei più cercata.

E la comunicazione cominciò "hai creato un falso mondo. Hai fatto scorrere un tempo diverso da quello delle stagioni, della luce e del buio, ci hai impedito di crescere liberamente, di moltiplicarci, amare, morire. Un po' d'acqua la sera ed in cambio hai preso tutto di noi. E nel tuo pazzo orgoglio pretendevi che la nostra energia crescesse, per la tua gloria. Piccola dea di questa misera giungla. Tu lo sapevi che nonostante il tuo modo malato d'amare qualcosa era nato fra noi, accettavamo i tuoi sbagli, la tua insensibilità ignorante. Avremmo preferito lasciarci morire, come ha fatto "lei", se almeno il tuo amore fosse stato vero anche solo in quel quarto d'ora ed in quel po' d'acqua. Ma il tempo del tuo egoismo è stato troppo più importante dei poveri esseri che dipendevano in tutto da te, come tu avevi voluto."

Quella strana sensazione di freddo, di pesantezza. Gli impulsi del mio cervello si perdevano non so dove. Percepivo solo un debole chiarore, forse la luna dalla veranda. Non sentivo più braccia, più piedi, più bocca, più naso. Solo sensazioni diffuse su una superficie che non era più la mia pelle.

Era tardi anche per il dolore della coscienza di aver appena sfiorato con una parte periferica e non curante quella porzione di realtà, della mia realtà quotidiana, per ottusa superficialità, senza vedere l'oceano che c'era sotto, pacifico, quieto, ma non per questo meno terribile.

Credo che con la forza della disperazione riuscii ad emettere un flebile grido che si spense debolmente e lentamente, riportandomi alla beffarda sensazione di impotenza che aveva sempre covato nel fondo della mia futile esistenza.

Chi ci darà un po' d'acqua stasera?